Numero 3 - 2001

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Prospettive della pianificazione di area vasta


a cura di:

Giovanni Pellegrino

Raffaella Petrone


 

 

 

 

In occasione della presentazione del n. 1/2-2000 di , si è tenuto un forum sulle prospettive della pratica della pianificazione territoriale nel nostro paese, cui hanno partecipato Attilio Belli e Francesco Indovina, membri del comitato scientifico della rivista, e Giovanni Lambiase, assessore all’urbanistica della provincia di Salerno.

Per Attilio Belli, l’economia dell’arcipelago ha finito con il prevalere sui tradizionali meccanismi gerarchici di pianificazione urbanistica.

La preconizzata morte del piano non ha, tuttavia, dissolto la sua ombra lunga, ancorata alla forza che la pianificazione comunale continua ad avere nel nostro paese. Ciò perché essa si è resa flessibile, ha ricercato approdi copianificatori, ha dato spazio all’intersoggettività comunicativa degli attori coinvolti nella gestione del territorio. Tali formule, risultate vincenti, devono approdare rapidamente anche alla pianificazione di area vasta, sia a livello provinciale sia regionale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

francesco indovina recupera la consolidata articolazione della pianificazione in strutturale e operativa proponendo per la prima un approccio essenzialmente di area vasta.

I piani territoriali, proiettati sul lungo periodo, dovrebbero dare prevalenza all’elemento ambientale, mentre i piani locali assumerebbero l’elemento antropico in una prospettiva di breve-medio periodo. 

La dimensione vasta di governo del territorio, nell’ambito di una rinnovata filosofia autonomista, dovrà garantire equilibrio fra le diverse zone, adeguati servizi collettivi, una migliore qualità della vita.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Provincia di Salerno è fra le prime, nel panorama delle regioni centro-meridionali, ad avere approntato il piano territoriale di coordinamento. 

Giovanni Lambiase

assessore all’urbanistica, traccia i primi e soddisfacenti risultati di un lungo lavoro d’elaborazione, portato avanti con il supporto dell’ufficio del piano, istituito presso gli organismi tecnici dell’ente provinciale

 

Attilio Belli

Prima di intervenire nel merito dell’argomento del forum, sono doverose alcune considerazioni, non retoriche, sul significato della nuova rivista

Com’è noto, le grandi città costituiscono per le riviste, uno dei principali fattori di guida programmatica, ed è in questo senso che, anche nella storia della nostra regione, la gran parte delle riviste, legate a movimenti culturali di un qualche interesse, hanno luogo prevalentemente a Napoli. 

Una delle caratteristiche della nostra regione, negli anni ‘90 e in prospettiva nel nuovo secolo, è di presentare in maniera originale il ruolo di Salerno affiancato a quello di Napoli. Questo ruolo, al di là della vivacità della competizione tra i due sindaci appartenenti alla stessa organizzazione politica, si è esplicitato negli ultimi anni attraverso forme diverse di intervento nella costruzione della città, del suo progetto, del suo controllo. 

È un tema troppo ampio da affrontare in questa sede; basti qui sottolineare che all’interno di queste due città ci sono anche, alla radice, due visioni, due diversi modi di intendere la cultura della città e del territorio. Nel contesto salernitano, al di là del percorso contingente che può aver mosso la Provincia di Salerno ed il direttore di , Roberto Gerundo a promuovere questa iniziativa, si inserisce in modo quasi naturale il progetto di una rivista che, un po’ eufemisticamente, lo stesso direttore chiama giornale, di evidente ispirazione al journal di planning anglosassone, dotato di una grande storia, di una grande radice. 

Un giornale di pianificazione salernitano in questo senso va, quindi, accolto con particolare attenzione e seguito con altrettanto interesse in quello che mi auguro sia il suo lungo ciclo di vita.

Premesso questo, veniamo al merito del tema, ovvero alle “prospettive di pianificazione di area vasta” in Italia. 

Vorrei traguardare questo tema dal punto di vista del rapporto tra economia e territorio. 

Il nostro sistema di pianificazione, che di solito colleghiamo prevalentemente alla struttura istituzionale dello Stato, ha implicitamente un ancoraggio alle diverse forme di raccordo tra economia e territorio. 

La forma tradizionale è quella che possiamo definire icasticamente a matrioska (P. Veltz), nel senso di una sequenza tra diversi livelli istituzionali, dall’Unione europea, allo Stato nazionale, a regione, provincia, comune. 

Ognuno di questi si inserisce nel livello superiore e tutti si inscatolano poi all’interno di un globale che sovrasta, minaccia, incombe sulle trasformazioni del territorio. 

A questa visione tradizionale gli studi che fanno capo al neo-regionalismo tendono a sostituire, invece, un’altra immagine, quella dell’economia dell’arcipelago. Indipendentemente dalle divisioni istituzionali (comuni, province, regioni), l’organizzazione territoriale viene inquadrata in base ad alcuni punti forti dello sviluppo, identificabili in base a letture diverse dei processi di sviluppo economico. 

Abbiamo le aree metropolitane, le città, i distretti industriali, abbiamo cioè un arcipelago di punti forti che tendono, al di là delle divisioni amministrative, ad acquisire uno spazio all’interno del funzionamento del mercato globale. Pensare ai nodi problematici della pianificazione di area vasta comporta, in questo senso, la costruzione di una visione capace di identificare, nella realtà sociale ed economica del territorio, diverse componenti in grado di proporre problemi diversi, nuovi, ai quali tentare di dare risposta. 

In una logica di questo genere non è chiarissimo però in che direzione la negoziazione, la concertazione per lo sviluppo e la competizione possano concretamente essere praticate.

Così si rileva essere un elemento di difficoltà che possiamo schematicamente riportare ai tradizionali livelli istituzionali di regione e provincia, nel senso che alcuni problemi saranno trattabili a scala regionale e provinciale, ma può essere necessario anche rivolgersi al livello nazionale e sovranazionale, su cui ritorneremo in relazione all’utilizzazione dei fondi dell’Agenda 2000/2006. 

Se vogliamo adesso raccordare questa traiettoria al dibattito disciplinare sulla pianificazione, introdurrei due metafore per capire come è difficile, oggi, nel nostro dibattito, interpretare la vita della pianificazione, il suo stato di salute

Una è quella che evoca la morte del piano, che quindi si riferisce a uno strumento del tutto superato, inadeguato; se volessimo icasticamente e riduttivamente interpretare l’esperienza della pianificazione comunale di Salerno potremmo dire, in questa prospettiva, che si tratta di un tentativo di superamento del piano. 

L’altra metafora è quella dell’ombra lunga del piano, che fa riferimento - in Italia più che in altri paesi europei - al fatto che i discorsi sulla morte del piano non sono riusciti a metterlo radicalmente in discussione, specie se si parla di piano a scala comunale, che conserva una sua permanenza indipendentemente dal fatto che nell’ultimo decennio sia stato preso da una tenaglia, da una parte dalle direttive dell’Unione europea e dall’altra dalla comparsa di strumenti di pianificazione complessa. 

In questa tenaglia, lo spazio tradizionale del piano regolatore generale rappresenta una delle peculiarità della cultura e dell’esperienza italiana.

Non c’è dubbio che nello spazio intermedio tra la rappresentazione evocata dalla morte del piano e quella della sua ombra lunga si colloca la crisi del tradizionale ruolo dominante dello Stato nelle sue diverse articolazioni, come espressione di un’intenzionalità largamente superata, messa alla prova dal paradigma intersoggettivo comunicativo. 

Non è solo lo Stato nelle sue diverse articolazioni a interpretare l’interesse comune e a dettare le regole della trasformazione, ma è l’insieme dei soggetti diversi che superano la contrapposizione pubblico-privato e che concertano soluzioni in rappresentanza degli interessi di cui sono portatori. 

In questa prospettiva è evidente che la pianificazione di area vasta subisce una forte trasformazione. 

I piani territoriali regionali (Ptr) della prima generazione, che conservano forte l’impronta intenzionalistica e si muovono sulla base di prescrizioni, sono ormai un residuo del passato. Attualmente dobbiamo confrontarci con dei Ptr di seconda generazione, che intorno alla seconda metà degli anni ’90 inaugurano una nuova stagione di pari passo con il rinnovo degli apparati legislativi regionali.

Esperienza con la quale anche la Regione Campania - che in questi mesi affronta il doppio tema della nuova legge urbanistica e dell’organizzazione del Ptr - deve confrontarsi. 

Qual è in sostanza, a livello di pianificazione regionale, una traiettoria che in qualche modo si tenta di seguire? 

Sicuramente i piani non sono più una sommatoria di analisi sistematiche che, sovrapponendosi, forniscono quasi automaticamente la prospettiva del futuro (che è poi il mito dell’analisi dei sistemi urbani negli anni ‘70). 

A questa logica se ne sostituisce un’altra, non più fondata su una (presunta) conoscenza sistematica ed esaustiva del territorio, ma sulla capacità di interpretarlo, di coglierne i fattori di mutamento, nevralgici perché portatori sia delle difficoltà da superare che delle prospettive da assumere come riferimento. 

Inoltre, la visione intersoggettiva comunicativa ci suggerisce che sono molteplici i soggetti che intervengono nei processi di costruzione del territorio. 

Non possiamo avere solo una visione di leggi da rispettare; dobbiamo averne una su cui fondare gli indirizzi per la copianificazione, nel convincimento che non solo i diversi livelli istituzionali convergono per determinare lo spazio dei diversi ruoli, ma anche i soggetti non istituzionali che devono operare e perciò comprendere i motivi per i quali un percorso è preferibile ad un altro. Viceversa, ci troveremmo a ripercorrere la storia che abbiamo alle nostre spalle: molti piani, molte leggi, trasformazioni che vanno in un’altra direzione. 

Ce la siamo cavata, nei decenni scorsi, con valutazioni morali o moralistiche sulla pianificazione. Una volta è il destino cinico e baro, un’altra è la speculazione, un’altra volta ancora è la rendita fondiaria. Però, siccome il nostro paese è fatto di un insieme di queste cose, oltre i giudizi di ordine etico ci sono soprattutto impegni di ordine politico da sostenere per migliorare il funzionamento della manovra pianificatoria. Noi siamo in questo spartiacque, di fronte tra l’altro, a una situazione che ci riguarda da vicino, che è il problema dell’utilizzazione di una massa rilevante di risorse finanziarie che chiedono di essere spese. Ed è ovvio che una spesa sostenibile ed efficace debba superare il modello della distribuzione a pioggia.

In questo senso dobbiamo, nel rispetto delle modalità tecniche dell’Agenda 2000/2006, procedere a una lettura del territorio fatta per punti di forza e punti di debolezza, adeguata alla struttura di filiere - come ad esempio i piani integrati territoriali - coerenti, sostenibili ed efficaci. 

Tutto questo è facile a dirsi, ma a farsi è parecchio più complicato. 

Accingendomi a svolgere una consulenza alla Regione Campania per l’impostazione delle linee guida del Ptr, ho immediatamente dichiarato i primi due punti di riferimento che il Ptr, o meglio le sue linee guida, devono assumere; il primo è come superare lo scoglio della pianificazione paesistica e, quindi, come fare in modo che la regione detti le linee guida che le province devono assumere al loro interno (piano territoriale di coordinamento provinciale); l’altro è il programma operativo regionale

Non da nemici del piano, ma cercando di essere amici della pianificazione, dovremmo impegnarci a fare in modo che la risposta della pianificazione territoriale di area vasta sia una risposta efficace. E per fare questo occorre, esercitando uno sguardo moderno, mettere mano a un piano realizzabile efficacemente in tempi rapidi.

Se riusciamo a sostenere una cosa di questo genere siamo credibili, altrimenti, in quanto tecnici, rappresentiamo una figura superata che appartiene ad un passato forse glorioso per alcuni, però in qualche modo ingombrante e poco utile. 

In questa direzione io credo occorra guardare con grande interesse al lungo e faticoso percorso che, nella nostra regione, conduce all’esperienza della programmazione negoziata. 

Si tratta di una esperienza che, in molti contesti, pur senza aver prodotto esiti tangibili di grande rilevanza, ha però innescato processi di identità significativi, stimolando la capacità delle realtà locali di leggere se stesse, i propri bisogni, le proprie necessità e di individuare percorsi e soluzioni condivise. 

Quindi, credo che la programmazione negoziata sia un serbatoio nel quale si debba pescare per individuare traiettorie utili da riversare nell’Agenda 2000/2006, all’interno dei diversi momenti di pianificazione territoriale. 

Ultimo elemento su cui riflettere è costituito dal Sud del nostro paese; la Campania è la principale delle regioni del Mezzogiorno d’Italia, su cui pesa evidentemente l’esperienza delle leggi urbanistiche più che quella dei piani territoriali (si vedano, per esempio, le numerose indagini prodotte dall’Inu sul governo del territorio).

Da queste radiografie viene fuori che, nonostante la questione meridionale si sia totalmente trasformata, ancora esistono tracce di due Italie nelle quali appunto alcune esperienze nel Sud non sono state ancora fatte. Il territorio ancora mostra la mancanza di una normalità nella pianificazione e questo in parte è il retaggio di un centralismo decisionale e professionale legato alla storia dell'intervento straordinario, che si è interrotto da più di un decennio ma che ha lasciato una traccia e che, tra l'altro, vede anche una responsabilità e difficoltà nella formazione dei nuovi tecnici necessari. 

Da docente universitario non mi assolvo dalla responsabilità di essere parte di un’istituzione che, nel merito della formazione di nuove figure di tecnici del territorio, è in grave ritardo. 

E non è una cosa superabile, come accade in ambito accademico, nella contrapposizione di scuole: i sostenitori del progetto contro i sostenitori del piano e delle politiche. 

Anche Confindustria sostiene che la Regione Campania è in grave ritardo nella spesa dell’Agenda 2000/2006, che c’è il rischio che questi fondi non vengano utilizzati e che ciò dipende, in parte, anche dalle carenze della burocrazia, dei tecnici degli enti locali.

Il problema è che, effettivamente, c’è un ritardo nella creazione di nuovi tecnici e questa è una responsabilità grave dell’Università che deve invece accelerare nella definizione di nuovi curricula formativi se si vuole veramente cogliere la sfida della modernizzazione.

 

Francesco Indovina

Del processo di trasformazione territoriale

Per pratiche sociali si intendono tutte le attività che i membri di una collettività, singoli o associati, compiono allo scopo di realizzare loro specifici e leciti obiettivi. Tali pratiche (individuali, di imprese, di enti e di organizzazioni, ecc.) si caratterizzano, come di parte. Le pratiche sociali, quindi, si connotano: per l’origine individuale, per lo scopo di parte e per la loro regolamentazione di diritto

Per politiche si intendono quelle azioni, decisioni aventi un qualche contenuto operativo, attivate da una istituzione pubblica. Le politiche possono anche avere un contenuto settoriale (casa, trasporti, ecc.), ma esse si caratterizzano per non essere di parte, ma implicitamente o esplicitamente, correttamente o meno, affermano interessi generali secondo scelte legittimamente espresse da organismi istituzionali. Le politiche, quindi, si connotano per l’origine istituzione pubblica, per lo scopo interesse generale, per la natura della loro regolamentazione decisione politica1.

Va preso atto che le trasformazioni urbane e territoriali hanno il loro motore nelle pratiche sociali: queste determinano il dinamismo di una data comunità, tendono continuamente a forzare la situazione di fatto sfruttando con creatività occasioni, opportunità, tecnologia, realizzando nuove forme di vita, dando senso allo spazio attraverso la sua funzionalizzazione, ecc. Alle pratiche sociali va riconosciuta la capacità di determinare l'innovazione, di modificare le caratteristiche della convivenza e, in generale, di promuovere il dinamismo della città e del territorio.

Non si può disconoscere, tuttavia, il fatto che questo processo, per così dire autonomo delle pratiche sociali, generi elementi negativi: come già detto esse sono caratterizzate da parzialità, cioè, un punto di vista di parte (di un settore, di un gruppo sociale, di un individuo ecc.) che si afferma o si intende affermare. Solo punti di vista grossolani o, per meglio dire, irrealistici sui meccanismi della società, possono affermare che un beneficio per tutti possa derivare dalla libera affermazione di tanti interessi di parte (senza dire che questo punto di vista non ha mai trovato accoglienza nell'analisi dell’organizzazione dello spazio). In sostanza, le pratiche sociali, proprio perché di parte, presuppongono un'azione che ne limiti e ne corregga i processi o, se fosse possibile, li pieghi ad un interesse di ordine superiore. Un secondo elemento negativo è rintracciabile nel fatto che, all'interno del dinamismo indotto dalle pratiche sociali, prende il sopravvento il più forte a scapito del più debole; le pratiche sociali, infatti, si caratterizzano anche come concorrenti tra di loro o anche come conflittuali nei riguardi del sistema di regole e delle politiche attivate come traduzione dell'intenzionalità collettiva. Non pare accettabile questa sorta di darwinismo sociale, anzi appare opportuno sottolineare la gravità del prevalere delle ragioni del più forte ove fossero in gioco strati sociali o patrimoni non rinnovabili o valori culturali o anche le stesse prospettive di sviluppo economico.

La considerazione che le pratiche sociali abbiano un alto contenuto dinamico e contemporaneamente un'alta parzialità, finisce per costituire un aspetto di grande rilevanza. Da una parte, infatti, sembra necessario e conveniente salvaguardare l'aspetto positivo, il dinamismo, mentre dall'altro lato non può accettarsi il loro pieno dispiegarsi, pena un deterioramento generale della condizione sociale e per quanto qui interessa in particolare della condizione urbana e della struttura territoriale.

L'attività di governo delle trasformazioni territoriali deve, quindi, da una parte permettere il dispiegarsi delle pratiche sociali positive e dall'altra deve operare per correggerle ed evitarne gli esiti negativi e, nello stesso tempo, offrire nuovi indirizzi e nuove opportunità all’attività degli individui. In tal modo si dovrebbe garantire insieme sia l'equilibrio del territorio e della città e l’affermarsi dei principi di giustizia sociale, sia la dinamica sociale e territoriale.

Quello che è importante non è tanto permettere o proibire anche questo ove necessario, ma, soprattutto, attraverso l'azione di governo (in particolare per mezzo dell’attivazione di politiche opportune) determinare condizioni continuamente rinnovate per le pratiche sociali che non contrastino con i principi di giustizia sociale sostanziale e di garanzia per le generazioni future. 

Le politiche, quindi, costituiscono gli strumenti attraverso i quali la collettività, per mezzo delle sue strutture istituzionali, esprime e manifesta la propria intenzionalità circa il futuro della città e del territorio. 

 

Dei poteri sul territorio

Mi pare importante riprendere l’immagine che ci ha proposto Belli a proposito della matrioska: il processo di pianificazione come piani che stanno l’uno dentro l’altro (la metafora proposta è stata di volta in volta quella delle scatole cinesi, del cannocchiale, ecc.). Questo richiamo ci deve servire per affrontare un tema importantissimo, quello del potere sul territorio; più che un tema si tratta di un tabù tanto inviolabile quanto finto. 

Il potere sul territorio, si sostiene, fonda la identità locale e, quindi, non può che appartenere che alla comunità locale; si tratta di una condizione inviolabile (come tutte le questioni nella quali entra l’identità). Tuttavia è noto, oltre che essere esperienza quotidiana, che tale potere è messo continuamente in discussione e trova continue limitazioni: poteri di livello superiore, infatti, hanno la possibilità di introdurre vincoli (si pensi ai livelli di piano), di dettare condizioni d’uso (si pensi alle servitù militari), di trasformare (si pensi a tutte le azioni che hanno valenza impositiva, come le opere pubbliche), ecc. In realtà un numero troppo elevato di istituzioni hanno potere di incidere sul territorio, spesso in modo scoordinato, spesso in contrasto e contrapposizione tra di loro.  

Il principio etico e pragmatico su cui si fonda la prerogativa locale di potere sul territorio riconosce il diritto alla territorialità individuale e apprezza il fatto che solo chi sente che il territorio gli appartiene può garantirne la salvaguardia, la difesa e la migliore utilizzazione. Un apprezzamento, questo, che si rifà a schemi di comportamento ormai desueti, quelli fondati sul prevalere nel territorio dell’attività primaria e in particolare dell’agricoltura tradizionale. La realtà oggi è molto diversa: l’attività primaria è ridotta all’osso e comunque si svolge secondo pratiche non tradizionali, inoltre il territorio ha accumulato un sempre più alto valore di scambio e chi ne detiene la proprietà tende a realizzarlo (urbanizzandolo, trasformandolo in discarica, costruendo abusivamente, ecc.) al di là di ogni attenzione alla salvaguardia (qui sta molta opposizione alle zone protette ed anche ai piani).

Il punto focale, tuttavia, è un altro: non si può non assumere un punto di vista che esalti il risparmio del territorio, che si ponga il problema di salvaguardia delle condizioni ambientali, dell’attivazione di politiche di rispetto delle condizioni storiche e naturali del territorio. Che cioè si ponga il problema fondamentale di una trasformazione del territorio (non evitabile e da non evitare) che sappia coniugare soddisfazione dei bisogni, minima manomissione e razionale uso dello spazio.

Quest’ottica è diventata un obbligo proprio a partire dalla constatazione che è mancato in questi anni qualsiasi rispetto per il territorio da parte di chi aveva sul quel territorio il potere (gli esempi sono molteplici: dalla manomissione delle coste e delle montagne, all’abusivismo a ridosso del nostro patrimonio archeologico, dall’abbandono della montagna, alla costruzione di infrastrutture che obliterano ogni considerazione di rispetto per l’ambiente, dalla privatizzazione dello spazio pubblico al suo degrado come piazze, giardini, ecc.). Non sosteniamo un punto di vista conservazionista, quanto l’uso del buon senso e della responsabilità etica: il territorio andrà trasformato con lo sguardo fisso alle necessità collettive, alle esigenze primarie, agli adeguamenti necessari per migliorare la vita quotidiana, ecc., esso va messo al riparo da ogni speculazione, va negato che la proprietà costituisca un pieno di diritti e un vuoto di doveri.

Le precedenti osservazioni vanno correlate per ricavarne qualche indicazione. È evidente, così, che non sempre (mai?) il potere locale sul territorio ha costituito una garanzia di salvaguardia, di difesa e di razionale utilizzazione del territorio stesso. Si tratta di un potere troppo vicino alla pressione degli interessi e per questo più propenso a cedere o a non controllare; per altro, molto spesso, l’uso del territorio per bisogni propri ma non gradevoli vengono scaricati su territori vicini (caso tipico è quello dei rifiuti); o, ancora, decisioni di livello superiore mettono in discussione scelte locali. In queste condizioni parrebbe utile che il potere sul territorio dovesse essere allontanano per quanto possibile dai suoi utilizzatori di fatto e potenziali (si ha consapevolezza che la distanza istituzionale non sia un elemento di sicura garanzia, tuttavia, assunta come una prerogativa di salvaguardia). 

Va anche osservato che se da una parte i confini amministrativi costituiscono una discontinuità, dall’altra parte il territorio costituisce un continuum che va preso in considerazione nella sua interezza. È noto che lungo questa strada si finirebbe per immaginare un potere territoriale di tipo continentale, tuttavia un sano punto di vista pratico può permettere di non arrivare ad assurde posizioni (e contrapposizioni).

In sostanza quello che si prospetta come elemento di riflessione (è nota la difficoltà di modificare la situazione di fatto) è la messa in agenda di una possibile modifica del potere sul territorio, in particolare la sua unificazione ad un livello superiore a quello locale (la regione o qualsiasi altro livello intermedio), quale sfondo per un ragionamento sulla pianificazione di area vasta.

Va da sé che non pare accettabile che possano esistere delle decisioni che travalichino destinazioni del territorio già definite secondo procedure istituzionali sulla base sia di analisi scientifiche che di scelte politiche condivise. 

Insomma, potere territoriale dislocato a livello intermedio e stabilità delle scelte operate (cosa che contrasta con gli indirizzi del nuovo governo) sembrano necessarie non solo per garantire che il governo delle trasformazioni del territorio possa operarsi con efficienza ed efficacia, ma anche per affermare principi si salvaguardia e di razionale uso dello spazio. 

Ovviamente tutto questo non dà certezza che le scelte operate siano coerenti con i principi affermati, è la comunità (in questo caso sia quella vasta che quella locale) che ha capacità di incidere, giudicare, approvare o rigettare le scelte, ma per lo meno si potrebbero evitare contraddizioni, sovrapposizioni, conflitti di competenze, frammentazioni delle stesse competenze, nonché la indeterminatezza delle scelte dato che esse possono essere messe continuamente in discussione da parte di provvedimenti parziali e settoriali o di livello superiore.

 

Dei contenuti della pianificazione di area vasta        

Le precedenti osservazioni, a me pare indichino alcuni indirizzi e contenuti della pianificazione di area vasta. Vale la pena, tuttavia, prioritariamente, di prendere nota delle modifiche intervenute in diverse legislazioni urbanistiche regionali.

Un principio che pare affermarsi con larghezza di consensi è quello di distinguere due tipi di piano: quello strutturale e quello operativo (possono avere nomi diversi ma la sostanza non cambia). Il primo con valenza tendenzialmente di durata molto lunga, serve a definire, in un certo senso, i livelli di trasformabilità di un dato territorio; il secondo di durata uguale al mandato elettorale dell’amministrazione locale, individua, all’interno dei vincoli e delle indicazioni del primo, quali trasformazioni entro il mandato saranno realizzate (o almeno potranno essere realizzate).

Sembra un criterio funzionale e ragionevole: da una parte toglie apprensione per il piano regolatore generale (tempi di realizzazione, tempi di durata, capacità previsiva, capacità realizzativa, ecc.); dall’altra parte, dovrebbe mettere un territorio al riparo di incursioni stravolgenti e nello stesso tempo responsabilizza l’amministrazione per le concrete realizzazioni decise.    

C’è un punto, tuttavia, poco convincente: il piano strutturale, nonostante siano previste diverse tipologie di consultazione a più livelli fino alla conferenza di servizio a livello provinciale, risulta spesso di competenza dell’amministrazione locale. È comprensibile che in una fase nella quale si tende a privilegiare il decentramento, processi di trasferimenti di potere verso l’alto non sarebbero stati ammissibili, ma in questo modo non si sottrae la pianificazione alle pressioni locali e quindi il piano struttura potrebbe risultare non adeguato a salvaguardare il territorio. In un certo senso questa strutturazione della pianificazione costituisce una limitazione all’attiva realizzazione e ai contenuti del piano di area vasta. 

In sostanza mantenendo il potere territoriale a livello più basso, quello delle amministrazioni locali, si finisce:

- per ridurre l’operatività del piano di area vasta;

- per vincolare il piano di area vasta alle decisioni (anche di piano) che sono state prese o che stanno per essere prese a livello locale;

- per indurre ancora una visione frammentaria, piuttosto che complessiva, del territorio.

È noto, nella discussione è emersa, che i processi di piano possano prevedere la possibilità di procedere a consultazioni, ad accordi, ecc., tutte cose sagge e necessarie purché si stabilisca con precisione a che livello si pone il potere territoriale.

Mi pare sia possibile, proprio a partire dalle novità introdotte nelle legislazioni regionali, schematizzare i contenuti dei due piani assumendo che il piano strutturale possa identificarsi con la pianificazione di area vasta. Va da sé che mentre ogni schematizzazione costituisce una semplificazione dei problemi è altrettanto evidente che essa rappresenta una modalità di presentazione in chiaro delle questioni.

Si può riconoscere ad ogni livello di piano l’esistenza di due elementi (in più raffinate elaborazioni se ne possono individuare un numero maggiore) che hanno peso diverso a secondo del livello di pianificazione. Possiamo chiamare il primo elemento antropico, inteso come le forme dello spazio così come si sono strutturate per effetto delle attività umane e le domande future di spazio delle popolazioni insediate a fini sociali, economici, culturali e di vita quotidiana. Il secondo può essere nominato elemento ambientale, inteso come le necessità di conservazione, di salvaguardia, di valorizzazione sociale (non necessariamente economica), di esaltazione degli elementi culturali (storici e non) che un territorio possiede e che nell’ottica prima indicata meritano attenzione (per intenderci ambientale non sta per naturale).

A partire dalla precedente semplificazione si può assumere come a livello di pianificazione di area vasta (alias piano struttura) sia l’elemento ambientale che prevale tenuto conto dell’elemento antropico, mentre a livello del piano operativo sia l’elemento antropico a prevalere tenuto conto dell’elemento ambientale (in ambi i casi il tenuto conto indica una prospettiva mediata e, si potrebbe dire, meditata che nega ogni elemento di assolutismo).

Questo vuol dire, in prima istanza, che il piano di area vasta individua le destinazioni d’uso del territorio, il livello di trasformabilità di ogni comparto, la pressione edificatoria ammessa in ogni comparto e la sua destinazione, il reticolo delle infrastrutture, come pure traccia una linea di confine delle aree urbane che costituiscono anche le zone di massima trasformabilità; il piano, inoltre, localizza nel territorio gli impianti al servizio della collettività (tipo quelli relativi al trattamento dei rifiuti o rilevanti impianti sportivi), mentre localizza all’interno dell’area urbana, ma non puntualmente, i servizi collettivi che possono e devono avere localizzazione urbana (ospedali, scuole di diverso livello, ecc.); individua il patrimonio storico e culturale da salvaguardare, conservare, restaurare ecc.; individua anche le trincee rese disponibili per le infrastrutture della mobilità ed ogni altra necessità territoriale trovando per essa quella localizzazione che rispetti il principio che a questo livello è prevalente (cioè l’elemento ambientale).   

Tale piano assume connotato di lungo periodo, almeno venticinquennale e costituisce vincolo senza possibilità alcuna di deroga (una strada è meglio che sia più lunga di qualche chilometro piuttosto che attraversare una zona di salvaguardia).

Le forme di concertazione, collaborazione, confronto, ecc. che possono essere attivate per raggiungere le scelte prima indicate possono essere le più varie e le più articolate, avendo presente e facendo valere, tuttavia, il principio che a questo livello prevale l’elemento ambiente, che cioè gli interessi attuali non possono fagocitare gli interessi di lungo periodo, la conservazione dell’ambiente e della diversità. Essa si basa, quindi, sull’analisi scientifica e sulla concezione più avanzata di salvaguardia territoriale.

È all’interno dell’area di confine urbano che l’elemento antropico, prioritario su quello ambientale, realizza le necessità espresse dalla popolazione. In quest’ambito il piano non può che essere di breve durata (il mandato dell’amministrazione) e le previsioni devono risultare compatibili, appunto, con la breve durata.

Proprio nell’ambito della rinnovata filosofia autonomista, nella quale cioè le autonomie locali, ai diversi livelli, vengono esaltate, devono porsi ulteriori questioni, ove fosse vero che la declinazione dell’autonomia non può prescindere, ma al contrario deve incorporare l’equilibrio tra le diverse zone del paese. Questa questione, è noto, non riguarda soltanto le macro aree del paese, ma trova concreta manifestazione anche all’interno delle aree intermedie ai quali si fa riferimento con la pianificazione di area vasta. Tenuto conto di questo pare di poter dire che tre sono gli aspetti principali ai quali il piano di area vasta deve porre attenzione:

- equilibrio tra le diverse zone: il punto di partenza non potrà che prendere atto delle differenze che storicamente si sono costruite all’interno del territorio, in particolare le gerarchie territoriali, i processi di concentrazione produttiva e dei servizi, ecc. Tale presa d’atto non è premessa per attivare una impossibile e velleitaria politica di riequilibrio assoluto tra le diverse parti del territorio, né, tanto meno, per accettare lo stato di fatto come immodificabile, quanto piuttosto per verificare se gerarchie, concentrazioni, ecc. costituiscono elemento dinamico positivo per l’insieme del territorio o piuttosto ostacolo, caso nel quale si devono suggerire correttivi. Inoltre, soprattutto per quanto riguarda le concentrazioni produttive, andrà verificato se tali concentrazioni, in termini di emissioni, di traffico, ecc., non possono costituire elemento negativo e se non sia possibile intervenire, non tanto per limitare lo sviluppo produttivo quanto per renderlo meno invasivo e distruttivo; infine i processi di concentrazione, che possiamo definire cumulativi, andranno corretti perché molto spesso essi mostrano situazioni di inefficienza sia sul piano territoriale che economico e sociale; 

- servizi collettivi: il riferimento precedente alla concezione autonomista investe in modo sostanziale la dotazione dei servizi delle singole comunità che, autonomamente e in base alla loro capacità di spesa, potranno decidere qualità e quantità dei servizi offerti alla collettività. Senza voler mettere in discussione questo approccio sembra possibile definire uno standard minimo di servizi per ogni tipologia (dimensionale, o altro) di comunità, questo standard dovrebbe essere garantito a tutti i cittadini quali espressione materiale dei diritti di cittadinanza nell’ambito dell’area vasta. Il piano di area vasta dovrebbe esplicitare la metodologia per giungere a definire nella specifica situazione lo standard minimo e indicare le eventuali carenze delle singole comunità e le politiche specifiche da attivare;

- qualità della vita: è certo che la valutazione della qualità della vita costituisce un elemento forte della soggettività individuale, ma non bisogna barare, esistono delle condizioni minime di qualità di vita (risorse economiche disponibili individualmente, accessibilità ai servizi, attrezzature, infrastrutture, ecc.) che devono essere garantite. Anche in questo settore vale quanto detto in precedenza a proposito dei servizi.

Quello che si propone, quindi, è un punto di vista forte per la pianificazione di area vasta: un piano in grado di indirizzare le pratiche sociali di un territorio ampio, fissarne le regole operative, individuando vincoli e possibilità, suggerendo, ove il caso, interventi di altre istituzioni. In sostanza il piano di area vasta dovrebbe avere un contenuto cogente su tutta la parte che si è definita elemento ambientale ed essere indicativa per l’elemento antropico. Anche se i due elementi, ovviamente, presentano fortissime interazioni, va a ciascuna di essa riconosciuto un certo livello di autonomia.

Personalmente credo che la pianificazione di area vasta potrebbe far uscire la pianificazione dalle secche dei piani l’uno entro l’altro e, contemporaneamente, fornire elementi di indirizzo preciso per un piano operativo che deve inverare le decisioni della singola collettività.  

Come il piano d’area vasta si collochi all’interno del sistema di pianificazione in via di (continua) sistemazione attraverso le singole legislazioni regionali, non è né chiaro, né omogeneo, ma si tratta di un travaglio che può essere produttivo se esce dalla sclerotica discussione piano si piano no, piano flessibile, ecc. Non si tratta di dare spazio ai privati nella pianificazione, in realtà la trasformazione del territorio è sempre stata opera dei privati, ma piuttosto di definire le condizioni perché le pratiche sociali (le azioni dei privati) possano insieme garantire la dinamica territoriale e non costituire elemento distruttivo dell’equilibrio territoriale. Dall’altra parte il piano deve avere una forte intenzionalità e una rilevante capacità operativa e di attivazione in grado di garantire l’interesse generale senza frenare e mortificare le pratiche sociali positive, anzi moltiplicandone le opportunità in un contesto finalizzato.

1 In qualche caso le pratiche sociali tendono ad affermare interessi generali, mentre, al contrario, alcune politiche possono essere strumento per l'affermazione di interessi di parte. Tuttavia questi casi non modificano il quadro prima delineato. Si deve anche sottolineare che le politiche quando affermano interessi di parte tendono a travestirsi, a presentare, cioè, un aspetto formale di interesse generale contro una sostanza di parte, il che, implicitamente costituisce conferma del contenuto generalistico delle politiche. Al contrario le pratiche sociali assumono connotato di interesse generale quando sono espressione di azioni politiche collettive, il che, in questo caso, le fa somigliare ad un mezzo che le parti sociali utilizzano per assumere direttamente un potere che di norma è delegato alle istituzioni o per influenzare le istituzioni a prendere decisioni coerenti con gli interessi generali sostenuti.

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Giovanni Lambiase

L’assessorato al territorio e mobilità della Provincia di Salerno pubblica la rivista per aprire un confronto sul tema della pianificazione di area vasta, che tratta questioni di grande attualità e diffonde il lavoro e l’esperienza che sta conducendo l’amministrazione provinciale proprio in questo settore.

Un’esperienza che ha avuto come momento conclusivo, almeno nella sua prima parte, la redazione del piano territoriale di coordinamento (Ptc), prodotto dal nostro ufficio di piano coordinato dal prof. Edoardo Salzano e dai suoi consulenti.

Con grande soddisfazione possiamo dire che il Ptc ha dato, già nella sua fase di elaborazione, risultati concreti in termini di azioni e di strategie di riassetto urbanistico e socio-economico del territorio.

Il nostro obiettivo primario è stato quello di fondere la fase di studio e di indagine sul territorio per la formazione degli atti di pianificazione, con la fase di attuazione e gestione vera e propria degli interventi ed azioni sul territorio, in coerenza con il quadro generale degli indirizzi approvati dal consiglio provinciale. 

Abbiamo costruito e formato il Ptc e, contemporaneamente, con appositi concorsi di idee, abbiamo preparato una serie di progetti esecutivi su aree omogenee del territorio provinciale, per le quali vi era necessità di intervento non solo per scadenze legate all’uso dei fondi disponibili ma anche per l’urgenza di agire in zone dove la riqualificazione ambientale o la valorizzazione delle risorse locali impongono azioni rapide e diffuse.

È stato necessario approfondire, in particolare, uno dei settori che ritenevamo strategici alla promozione dello sviluppo del nostro territorio e che costituisce, oltretutto, uno dei principali obiettivi indicati negli indirizzi del Ptc: il miglioramento dell’accessibilità del territorio, la riqualificazione del sistema dei trasporti.

Abbiamo così avviato, contestualmente alla formazione del Ptc, un piano di settore: il piano provinciale dei trasporti e della mobilità.

Occorreva riorganizzare il sistema del trasporto pubblico locale (Tpl) nella nostra provincia, eliminando, in particolare, le sovrapposizioni di linee, i conseguenti sprechi finanziari, i disservizi per l’utenza e, soprattutto, mettendo in rete ed integrando il trasporto su ferro, su gomma e via mare. Riteniamo, infatti, che la razionalizzazione e la ristrutturazione del sistema di mobilità e di trasporto, in particolare il potenziamento del Tpl, sia una delle condizioni essenziali per attrarre investimenti produttivi sul territorio e creare uno sviluppo equilibrato e sostenibile.

È importante sottolineare, inoltre, il nuovo rapporto instaurato con la regione, in particolare con l’assessore ai trasporti Cascetta e con l’assessore all’urbanistica Di Lello. La sintonia sugli obiettivi di fondo dei processi di razionalizzazione e riqualificazione delle infrastrutture dei trasporti e dei principali insediamenti urbanistici, la collaborazione realizzata, ci consente di costruire, in modo unitario, un piano complessivo legato al territorio provinciale, perfettamente coerente con un’idea di sviluppo organico del territorio regionale. 

Stiamo dando, come amministrazione provinciale, un contributo alla formazione del progetto della metropolitana regionale, avanzando proposte riguardanti, in modo particolare, il potenziamento e il rafforzamento del trasporto su ferro secondo le indicazioni fornite dal prof. Salzano durante l’elaborazione del Ptc.

Abbiamo tradotto le indicazioni, le elaborazioni e gli studi in azioni concrete, impegnando anche parte dei fondi della provincia.

Quindi, il metodo innovativo che caratterizza la nostra azione di pianificazione e riorganizzazione territoriale e infrastrutturale, consiste nel voler attuare e gestire un programma di sviluppo socio-economico del territorio contestualmente alle indagini, agli approfondimenti e alle verifiche sul territorio.

Tale metodo di lavoro si è reso indispensabile oltre che, per i tempi necessari alla elaborazione e approvazione dei piani urbanistici a vari livelli (comunale, provinciale e di area vasta), anche per la necessità di dover rispettare termini improrogabili per accedere ai fondi del 1996-97, a quelli dei Pop 1996-97 della regione o a quelli di Agenda 2000.

In definitiva, il Ptc sta assumendo un forte ruolo di coordinamento dei fattori di sviluppo dell’intero territorio provinciale. Tant’è che, già nella fase di elaborazione e, per alcuni aspetti, in quella esecutiva, esso coordina le politiche comunali; cosicché gli indirizzi e gli obiettivi del Ptc, sono stati legati alle azioni che i comuni stanno producendo e consentendo, in tal modo, di orientare in maniera positiva la revisione dei vari piani regolatori generali (Prg).

La redazione del Ptc ha significato uno sforzo notevole di coordinamento con le amministrazioni che agiscono sul territorio; uno sforzo che ha consentito da un lato di mettersi al passo con alcuni comuni che hanno la necessità di rinnovare i loro vecchi piani, dall’altro di rapportarsi in modo fattivo con il comune capoluogo. Tutto ciò è sicuramente reso possibile dall’esistenza di un programma puntuale di azione sul territorio.

In questa fase il comune capoluogo sta producendo un innovativo Prg e l’amministrazione comunale di Salerno ha inciso in maniera forte su un territorio esteso, puntando soprattutto sulla riqualificazione della città e del tessuto urbano e valorizzando e potenziando la naturale vocazione della città di Salerno a centro di servizi e centro ordinatore di un territorio più vasto del suo stesso perimetro comunale.

Le azioni e gli interventi che l’amministrazione comunale di Salerno, guidata dal sindaco De Luca, ha messo in campo, sono di straordinaria importanza per il territorio comunale e per l’intera provincia e rendono possibili nuove condizioni di sviluppo.

Con il comune capoluogo, negli ultimi mesi dell’amministrazione De Luca, si è aperto un dialogo intenso sul ruolo che esso potrebbe avere rispetto alla piana del Sele, all’area della costa amalfitana, alla valle dell’Irno.

La provincia, d’altra parte, ha avviato una serie di azioni e interventi fattivi con i comuni vicini al capoluogo, soprattutto rispetto a settori, come quello dei trasporti, che rendono concrete ed attuali le stesse previsioni del Prg di Salerno.

La metropolitana leggera, che il Comune di Salerno sta realizzando e per la quale sono stati finanziati, dal Ministro dei trasporti, altri 60 miliardi per il suo prolungamento, è un tutt’uno con il collegamento dell’aeroporto di Pontecagnano, con la ferrovia verso la valle dell’Irno per l’Università di Salerno e con la realizzazione della bretella ferroviaria Fisciano-Università.

In tale contesto si inserisce il programma della circumsalernitana, fortemente voluto da questo assessorato e il cui principale elemento di successo va individuato nell’aver riempito un vuoto nei collegamenti su ferro, in una parte strategica del territorio provinciale.

In questo modo si potrà organicamente collegare l’intero sistema dei trasporti su ferro del territorio provinciale e lo stesso potrà riammagliarsi al sistema di metropolitana regionale: così da dar luogo ad una rete organizzata del trasporto pubblico su ferro di scala regionale.

Le infrastrutture ferroviarie potranno, allora, assumere la funzione di asse portante della riorganizzazione dei servizi di trasporto su gomma e dell’integrazione dei vari modi di trasporto pubblico sul territorio.

Il Ptc, dunque, contiene le premesse e le direttive strategiche dello sviluppo sopra delineato e, al contempo, ha assunto il ruolo di coordinamento delle politiche comunali, orientando l’utilizzo di ingenti risorse finanziarie della provincia e diventando un riferimento essenziale per la programmazione degli interventi e la richiesta di finanziamenti di Agenda 2000 e per la definizione dei progetti integrati territoriali e tematici (Pit).

La Provincia di Salerno ha proposto alla Regione Campania sette Pit che rispondono, in modo completo, a quelle che sono le divisioni del territorio provinciale in aree omogenee proposte dallo stesso Ptc. Si sono individuati i Pit per l’agro nocerino sarnese, per la valle dell’Irno e per la costiera amalfitana.

Abbiamo proposto, ed è stato accettato dalla regione, il Pit interprovinciale costiera amalfitano-sorrentina, affrontando questioni che toccano i territori provinciali di Napoli e Salerno.

Abbiamo proposto un Pit tematico, denominato mare-costa, teso a valorizzare in modo particolare la risorsa mare, la risorsa costa della Provincia di Salerno, attraverso i collegamenti marittimi e gli interventi di risanamento ambientale.

Questo processo avviato sta dando buoni risultati ed ha trovato consenso immediato anche da parte della regione, perché è legata ad uno studio complessivo, ad un’analisi puntuale del territorio e ad un quadro coerente di azioni e di interventi, frutto del rapporto costruttivo tra la provincia e gli enti locali interessati.

Credo che la rivista possa dare, in tal senso, un contributo significativo all’approfondimento dei temi trattati e al confronto sia con gli enti locali che con i cittadini, gli imprenditori, i sindacati presenti sul territorio provinciale.

Ringrazio, dunque, il prof. Gerundo e l’Università di Salerno per l’impegno profuso nella realizzazione di questa rivista che spero possa consentire, nell’immediato futuro, un reale e costruttivo rapporto, fino ad oggi mancato, dell’Università con la Provincia di Salerno e con gli enti locali; rapporto indispensabile per costruire, in modo concreto e rapido, le condizioni di un nuovo sviluppo economico del nostro territorio, rispondente alle esigenze e alle vocazioni locali e alla valorizzazione e tutela della risorsa ambientale.

 

 

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