Riparte il cammino della riforma urbanistica
statale che dovrebbe rinnovare, dopo oltre
un sessantennio, la storica legge 1150/1942.
Dal dopo guerra ai giorni nostri, ci si è
tentato in molte occasioni.
Numerose proposte furono elaborate, sin a
partire dagli anni ’60, fra gli altri, da
Fiorentino Sullo e da Giuseppe Pieraccini;
per tutti gli anni ’90 si sono succedute, a
cavallo del passaggio fra le cosiddette
prima e seconda repubblica, le
iniziative sottoscritte da Cutrera-Pagano
(1990), Campo-Pinto (1995) e Lorenzetti
(1999-2000), citandole con i nomi di coloro
che ne sono stati i sostenitori, a volte,
strenui, per concludere con il disegno di
legge (ddil) Lupi, approvato alla sola
Camera dei deputati nel 2005.
Nel frattempo, un gran numero di regioni
italiane, a far data dal 1995, epoca di
celebrazione a Bologna del XXI congresso
dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu),
hanno radicalmente rinnovato il previgente
apparato normativo in materia di governo del
territorio, ispirandosi alle posizioni
culturali e programmatiche che quell’assise
aveva autorevolmente sancito.
L’assenza di una legge cornice statale, di
indirizzo e orientamento per la produzione
legislativa regionale, ha cominciato,
tuttavia, a farsi avvertire, in particolare,
al fine di dare certezza nelle attività di
governo del territorio, sempre più spesso
censurate dalla giustizia amministrativa,
proprio perché carenti di principi a monte
acclarati nell’ordinamento generale della
Repubblica.
Da più parti e dallo stesso Inu, viene la
sollecitazione a definire, in maniera quanto
più chiara e rapida possibile, nel corso
della corrente XV legislatura parlamentare,
i suddetti principi per il governo del
territorio.
Il precedente ddil Lupi titolava proprio in
tal senso, individuando, nel corpo di soli
undici articoli – si consideri che il ddil
Lorenzetti ne annoverava ben 35 – un numero
stringato di questioni essenziali, cui,
indipendentemente dalla qualità della
soluzione proposta, è ormai indispensabile
dare risposte, quali, la perequazione
urbanistica e territoriale, la compensazione
e negoziazione dei diritti edificatori, la
fiscalità urbana e intercomunale, gli
standard urbanistici, l’articolazione degli
strumenti di pianificazione nelle componenti
strutturale e operativa, la indennizzabilità
delle diverse tipologie di vincolo e la
relativa decadenza, l’efficacia delle misure
di salvaguardia.
Nelle argomentazioni che seguiranno, si
utilizzerà la parola urbanistica
quale sinonimo di governo del territorio,
non perché non si colga la differenza
evidenziata nella legge di riforma del
titolo V della Costituzione1, ma
per semplice convenzione.
Fermo restando che l’innovazione
costituzionale non è stata certo tale anche
in termini scientifico-disciplinari,
rispetto ai quali i pianificatori hanno da
tempo inteso l’unitarietà strategica dei
processi di assetto territoriale
multiscalare e multisettoriale, da
integrarsi con le politiche di sviluppo
locale e la sostenibilità ambientale.
È evidente che un nuovo quadro di certezze
in campo urbanistico è fortemente atteso da
tutte le regioni italiane, indipendentemente
dalla latitudine geografica e dagli
orientamenti politici.
Sempre tali certezze che non vengano
periodicamente incrinate dall’operato della
Corte costituzionale che, in questi ultimi
cinquant’anni, ha non di rado messo in crisi
la legislazione statale in materia, sancendo
la incostituzionalità di alcune soluzioni
che il Parlamento aveva rimediato a fatica,
quadrando, spesso precariamente, il cerchio
dell’armonizzazione fra interessi pubblici e
privati.
Anche nel Mezzogiorno, un rinnovato e
duraturo quadro di certezze non potrà fare
altro che contribuire al miglioramento della
condizione in cui versa il territorio.
Ci si domanda, tuttavia, se sia tutto ciò
sufficiente ad avviare un riequilibrio dello
stato e della qualità del governo del
territorio, in quella parte del paese.
Nel centro-nord, è molto avvertito il
problema dell’efficienza e dell’efficacia
della pianificazione urbanistica e
territoriale.
Si pone al centro dell’attenzione il divario
temporale fra dinamiche economiche e
risposte previsionali di riassetto
territoriale, contenute negli strumento di
pianificazione urbanistica.
Un mercato globalizzato, all’interno del
quale le economie delle regioni centro-
settentrionali si trovano a proprio agio,
esige scelte di governo del territorio,
rapide, condivise e di alta qualità
progettuale.
La sostenibilità ambientale delle scelte
urbanistiche non è considerata una deriva
tardo-intellettualistica o frutto di
mecenatismo, ma come la necessaria difesa
dello stesso sistema capitalistico di
produzione.
Il problema non è governare il territorio
attraverso strumenti di pianificazione
urbanistica, ormai diffusamente approdati
alla seconda se non alla terza generazione;
non è sensibilizzare la classe politica alla
indispensabilità della programmazione
territoriale; non è educare le popolazioni
insediate alla tutela e vigilanza attiva
della propria dimensione antropica.
Tutto ciò rappresenta, infatti, traguardi
sufficientemente raggiunti.
Il problema è ottenere sempre maggiore
efficienza, rapidità, creatività dei
contesti normativi e delle procedure di
scelta.
Una riforma urbanistica che detti adeguati
principi, in grado di soddisfare tali
domande, è la richiesta che emerge dal
centro-nord del paese.
Il Mezzogiorno chiede qualcosa in più, senza
la quale, il rinnovato quadro di efficienza
che si verrebbe a creare, limitatamente alla
modernizzazione dell’apparato istituzionale
e amministrativo, stenterebbe a produrre
effetti positivi, se non, addirittura,
rischierebbe di impantanarsi nella
difficoltà di adeguarsi alle novità
intervenute.
Tale richiesta scaturisce dal gigantesco
divario esistente, in tema di governo del
territorio, fra centro-nord e sud.
Esaminiamo i termini del prospettato
divario, partendo dai dati contenuti nel
Rapporto dal territorio 20052,
meritoriamente allestito e diffuso dall’Inu.
Si inizia a prendere in considerazione lo
stato della pianificazione territoriale, di
livello regionale e provinciale.
La pianificazione territoriale regionale
risulta assente in tutto il Mezzogiorno (Figura
1).
Figura 1 - Regioni/Stato della
pianificazione territoriale al 2005 |
|
Fonte: Rapporto dal territorio 2005 |
Per la Campania essa è in fase di
formazione, risultando allo stato di
adozione, mentre per tutte le altre regioni,
compresa la Sicilia, l’elaborazione non è in
atto o è sospesa, come nel caso della
Puglia.
Ciò non significa solo che le politiche
territoriali finiscono per risultare
scoordinate ma che gli stessi flussi
finanziari comunitari, a sostegno
dell’emancipazione dei territori in ritardo
di sviluppo, rischiano di essere meno
efficaci dell’auspicabile, per obiettiva
carenza di organicità nell’allocazione della
spesa.
Scendendo di scala, analoga condizione si
ritrova in relazione ai piani
territoriali di coordinamento provinciale
(Ptcp).
I Ptcp vigenti non sono stati riscontrati in
nessuna delle province meridionali (Figura
2), se non in un solo caso riguardante
la Sicilia, risultando, in gran parte degli
altri, nella generica fase elaborativa.
Figura 2 - Province/Stato della
pianificazione al 2005 |
|
Fonte: Rapporto dal territorio 2005 |
Ciò si traduce, in particolare nelle regioni
che hanno delegato le funzioni
amministrative in materia di approvazione
dei piani urbanistici comunali alle
province, in una oggettiva assenza di
riferimento nell’esercizio della delega, che
finisce, nella maggioranza dei casi, con
l’alimentare discrezionalità, precarietà e
inefficienza nella costruzione dei processi
di formazione delle scelte sul territorio,
al livello di integrazione intercomunale,
con gravi ricadute negative sulla
razionalizzazione degli assetti funzionali
delle aree metropolitane e urbane del
Mezzogiorno.
Dallo sfondo prevalente della generale
condizione meridionale, si distacca la
Sardegna, che dimostra una vitalità
paragonabile alle regioni
centro-settentrionali.
La situazione sembra lievemente migliorare
facendo riferimento alla pianificazione
territoriale paesistica o, come l’ha
rinominata il Codice Urbani, paesaggistica (Figura
3).
Figura 3 - Regioni/Stato della
pianificazione paesistica al 2005 |
|
Fonte: Rapporto dal territorio 2005 |
In realtà, Molise, Basilicata e Campania
dispongono di piani territoriali paesistici
riguardanti porzioni di territorio molto
ristrette, in quanto derivanti dalla legge
431/1985, cosiddetta Galasso, che aveva
individuato ambiti transitori di
inedificabilità assoluta in prospettiva
della redazione di piani territoriali
paesistici o urbanistico-territoriali,
estesi alle aree dotate di pregressi vincoli
paesistici, denominati galassini.
La Puglia è regolamentata da piani a valenza
paesistica, ma di antica concezione, essendo
derivanti dalla sua prima legge regionale
urbanistica, risalente agli anni ’80,
rimanendo escluse da processi di
pianificazione paesistica Calabria e
Sicilia, con la Sardegna in controtendente
fase di accelerazione di tali attività.
Scendendo ancora nella scala della
pianificazione territoriale, la stessa
strumentazione urbanistica comunale mostra
carenze eccezionali, consolidando il divario
già evidenziato.
Una elaborazione sulla vetustà dei piani
urbanistici generali, vale a dire estesi
all’interezza del territorio comunale,
rivela come decisamente rari siano gli
strumenti con meno di dieci anni di
servizio, mentre quasi inesistenti
risultano quelli per i quali non essere
ancora trascorso un quinquennio
dall’adozione (Figura 4).
Figura 4 - Piani comunali vigenti
post 1995 e post 2000 |
|
Fonte: Rapporto dal territorio 2005 |
Il duplice arco di riferimento temporale
assunto, con riferimento al decennio e al
lustro, è funzionale ad una riflessione
articolata.
I piani con meno di dieci anni di vigenza
sono, in linea di massima e in
considerazione della tradizione, per lungo
tempo generalmente adottata, di prefigurare
gli assetti urbanistici comunali su archi di
riferimento temporali commisurati al
decennio, nel pieno della loro potenzialità
previsionale, quindi, ancora strategicamente
validi a esplicare i proprie effetti sul
territorio.
I piani con meno di cinque anni, vedono
ancora vigenti il complesso delle
disposizioni preordinate all’esproprio di
suoli per pubblica utilità, mentre tutti gli
altri hanno vincoli scaduti e faticosamente
rinnovabili, a seguito della sentenza della
Corte costituzionale 179/1999, in base alla
quale la reiterazione dei suddetti vincoli
assoggetta l’ente locale a reperire le
risorse finanziarie ai fini del risarcimento
a favore dei soggetti proprietari dei
diritti di proprietà compressi.
Ne consegue l’estrema fragilità di una
pianificazione urbanistica posta in tali
condizioni di precarietà decisionale, in
difficoltà nella realizzazione di opere
pubbliche, e con un territorio pervaso dalla
cosiddette zone bianche, formalmente
prive di regolamentazione urbanistica e
assoggettate a trasformazioni edilizie, sia
pur minimali, che, tuttavia, contribuiscono
legalmente ad aumentare l’entropia del
sistema urbano, oltre a incoraggiare più
gravi fenomeni di abusivismo edilizio.
Quest’ultimo è l’ulteriore fenomeno
inquietante che incide sul territorio
meridionale, che, anche in questo caso, fa
registrare il triste primato delle regioni
meridionali rispetto alle
centro-settentrionali.
Si consideri, inoltre, che l’abusivismo
edilizio, in realtà come Campania, Calabria,
Sicilia e, in maniera più limitata, Puglia,
non solo produce ricadute negative sugli
enti locali in termini di generali
disservizi, di disarticolazione delle
funzioni territoriali, di aggravio di costi
per urbanizzazioni primarie e secondari, di
erosione del suolo agricolo produttivo e
incremento del rischio idrogeologico che,
nella quasi totalità dei casi, determina, ma
è anche uno dei canali della filiera di
approvvigionamento della malavita
organizzata, relativamente alla fornitura
illegale di materiali da costruzione e
all’impiego di manodopera irregolare, in
particolare extracomunitaria (Figura 5).
Figura 5 - Regioni/Stato e
distribuzione dell'abusivismo
edilizio (dati 2003)
Il trend di illegalità nel ciclo del
cemento (tutte quelle attività che
afferiscono al settore delle
costruzioni) è stato calcolato
confrontando i dati annuali delle
infrazioni accertate e dei sequestri
effettuati dalle forze dell'ordine.
Fonte: Legambiente-Cresme |
|
Fonte: Rapporto dal territorio 2005 |
Su tale problematica, un approfondimento a
parte merita la Campania, unica regione in
cui il numero di abusi edilizi registrati
nel biennio successivo all’avvio del primo
condono, risalente al 1985, è inferiore al
corrispondente numero di episodi rilevato
nel biennio 2003-2004, successivo alla terza
e ultima, almeno in ordine di tempo,
edizione del provvedimento, delineando il
carattere fisiologico del fenomeno (Figura
6).
|
Figura 6 - Confronto tra gli abusi
denunciati nelle rilevazioni
1986-1988 e 2003-2004
Fonte: Ministero delle
infrastrutture, 2006 |
I processi di governo del territorio sono,
inoltre, fortemente dipendenti dalla
stabilità politica e finanziaria del sistema
degli enti locali.
Negli ultimi 13 anni, dal 1993 al 2005, i
comuni, nella stragrande maggioranza dei
casi, e le province sciolti in Italia per
anticipata fine della consiliatura sono
risultati in numero di 2.5873.
Con riferimento al solo 2005, il suddetto
fenomeno, sul totale di 164 casi, ha visto
prevalere il Mezzogiorno, comprese le isole,
per 89 volte, pari ad oltre il 50%.
Lo scioglimento di enti locali per
infiltrazione della malavita organizzata, a
far data dall’entrata in vigore della legge
221/1991 che lo ha stabilmente
regolamentato, sulla scorta di indagini
effettuate da commissioni di accesso
prefettizie appositamente istituite, ha
riguardato 158 amministrazioni comunali, di
cui 71 in Campania, 43 in Sicilia e 34 in
Calabria.
Nel solo 2005, dei 15 comuni sciolti per i
suddetti motivi, tutti nel Mezzogiorno
tranne uno nel Lazio, 7 ricadono in
Provincia di Napoli e riguardano non solo
piccoli centri, come Casal di Principe (Ce)
o Quindici (Av), ma città medie come
Pozzuoli, Afragola, caloria e altre, nel
napoletano.
La citata normativa prevede la sospensione
degli organismi elettivi sino a 24 mesi, che
si allungano ancora sino a giungere ai
periodici turni elettorali.
Anche in questi casi, il governo del
territorio, quale politica attiva, viene ad
essere sostanzialmente interrotto per fare
fronte alla sola ordinaria amministrazione
della cosa pubblica.
Relativamente alla solidità finanziaria, a
far data dall’entrata in vigore del decreto
legge 66/1989, sono andati in dissesto 428
comuni, di cui 122 in Calabria e 108 in
Campania.
Il governo del territorio, che si alimenta
delle spese necessarie a sostenere
l’attività di pianificazione urbanistica
oltre che di controllo e repressione
dell’abusivismo edilizio, anche in questi
casi viene compresso e, non di rado, si
perviene ad una sostanziale paralisi
operativa4.
Ancora, rispetto agli assetti finanziari
degli enti locali, i debiti fuori bilancio,
riconosciuti nel 2005, di 219 comuni e di
quattro province della Campania assommano a
oltre 148 milioni di euro, seguiti a ruota
dai 243 comuni e dalle 9 province della
Sicilia, per oltre 126 milioni di euro,
collocandosi ai primi due posti fra le
regioni italiane, seguite dagli enti locali
del Lazio, con soli circa 78 milioni di euro
di debiti fuori bilancio.
Anche tali condizioni degli enti locali del
Mezzogiorno non possono che produrre
impedimenti di non poco conto alla corrente
attività di governo dei rispettivi
territori.
Infine, con valenza del tutto emblematica,
assume interesse esaminare un aspetto di
nicchia del problema, incentrato sul
terzo mandato dei sindaci.
A norma della legge 81/1993, la carica di
sindaco non può essere rinnovata per oltre
due mandati; per il terzo mandato
consecutivo un sindaco risulta ineleggibile.
Nel 2006, in Italia si sono registrati 20
casi di piccoli comuni, con popolazione
inferiore ai 15.000 abitanti5, i
cui sindaci sono stati eletti
consecutivamente per la terza volta.
Al di là della loro futura effettiva
permanenza nella carica di sindaco, è di
interesse effettuare una correlazione fra
rielezione dopo circa dieci anni di
amministrazione e stato della pianificazione
urbanistica comunale.
La suddetta correlazione è stata effettuata
per sette comuni campani, dei quali uno è
completamente privo di strumenti di
pianificazione urbanistica generale, due
sono dotati di programmi di fabbricazione
approvati fra il 1976 e il 1979, tre
dispongono di piani regolatori generali
(Prg) approvati fra il 1966 e il 1987 e,
uno, il più recente, di Prg approvato nel
1992 (Tabella 1).
Ne emerge un campione, secondo il quale,
sono stati particolarmente premiati dagli
elettori i sindaci che non hanno dimostrato,
nel corso del primo decennio di
amministrazione, di avere avuto particolare
sensibilità nel rinnovare gli strumenti di
governo del territorio, a dimostrazione
della indifferenza delle comunità locali su
tali temi.
Anzi, si potrebbe ritenere, forzando
l’interpretazione, che proprio perché quei
sindaci non hanno regolamentato
adeguatamente il territorio, riducendolo in
uno stato di presunta ingovernabilità,
evidentemente di interesse degli elettori,
essi li hanno riconfermati nel terzo
mandato, pur in contrasto con le
disposizioni di legge vigenti che ne
prevedono la ineleggibilità.
Dalla lettura dei fenomeni assunti e degli
indicatori disponibili, emerge, con
riferimento alla propensione al governo
efficiente ed efficace del territorio, un
Mezzogiorno abbastanza omogeneo nel rifiuto
della pratica attiva di regolamentazione
dell’uso e della tutela del suolo, per il
quale la consolidata rappresentazione,
cosiddetta, a macchie di leopardo,
non è verificata, tranne che per la Sardegna
e, solo per alcuni versi, per la Basilicata
e la Puglia.
È, quindi, legittimo domandarsi, considerato
che, in presenza delle attuali regole di
governo del territorio, metà Italia le ha
praticate e metà no, per quale motivo un
nuovo quadro normativo statale dovrebbe
essere favorevolmente accolto e utilizzato
rapidamente e al meglio nel Mezzogiorno.
Dalla risposta al suddetto interrogativo
che, ragionevolmente, porterebbe a prevedere
che, anche in un rinnovato contesto
normativo, i ritardi del centro-sud
rimarrebbero consistenti e il divario con il
resto del paese immutato, in assenza di
adeguati interventi di sostegno, deriva la
necessità di prendere in considerazione una
questione meridionale, anche in
urbanistica, irrisolta, in fase di
aggravamento e che non risulta neanche
essere messa all’ordine del giorno nelle
politiche governative sino ad oggi
succedutesi nel tempo.
Peraltro, l’incapacità del Mezzogiorno a
praticare sistematicamente la pianificazione
urbanistica e territoriale non è neanche
collegabile a orientamenti
politico-partitici che, per propria cultura,
non dovessero privilegiare tale attività.
Infatti, sino agli inizi ’90, gli
orientamenti politici prevalenti nel governo
degli enti locali e delle regioni, erano di
centro, gravitanti fondamentalmente intorno
alla Democrazia cristiana, mentre, negli
ultimi quindici anni, si è consolidato un
dominio pressoché esclusivo del
centro-sinistra.
Area politica, quest’ultima, per antica
tradizione, orientata a favorire i processi
di pianificazione urbanistica e territoriale
nell’amministrazione degli enti locali e
delle regioni.
Essendo, quindi, il governo del territorio
materia di competenza regionale, ma in forma
concorrente, se ne deduce che, a fronte di
una palese incapacità delle amministrazioni
regionali meridionali di ridurre il divario
che li separa dalle omologhe del
centro-nord, si deve programmare, in
attuazione del principio costituzionale
della sussidiarietà verticale, un’adeguata
politica di sostegno e accompagnamento dello
Stato centrale a favore del Mezzogiorno.
Inoltre, se lo Stato centrale, che
nell’ambito dei quadri comunitari di
sostegno allo sviluppo delle aree
economicamente arretrate, interviene
stabilmente nel Mezzogiorno con interventi
straordinari, contributi alle imprese e
nella realizzazione infrastrutturale, non si
preoccupa di ridurre i divari territoriali
in termine di efficienti assetti
urbanistici, i flussi finanziari che saranno
convogliati avranno scarse ricadute e, in
molti casi, saranno andati ad alimentare un
perverso meccanismo di mantenimento dello
status quo.
Contemporaneamente, nelle strategie delle
regioni del nord si va affermando, con
giusta enfasi, una cosiddetta questione
settentrionale, connessa essenzialmente
al deficit infrastrutturale rilevabile in
quella parte del paese, in relazione al
livello economico-produttivo raggiunto e
alla necessità di un suo ulteriore
accrescimento, difficilmente realizzabile in
carenza di una più moderna organizzazione
logistica del territorio.
Parimenti, è, quindi, necessario che la
politica governativa e parlamentare, nel
corso della corrente XV legislatura rilevi
l’esistenza anche di una irrisolta
questione urbanistica nel Mezzogiorno e
si adoperi per affrontarla e avviarla a
soluzione.
Nella trascorsa legislatura, si possono
annoverare sporadici interventi,
riconducibili a tale problematica, per
altro, solo indirettamente.
Il più significativo fra essi riguarda
l’impulso dello Stato centrale alla
pianificazione urbanistica comunale
generale.
Con DLgs 18 agosto 2000, n. 267, recante il
Testo unico delle leggi sull’ordinamento
degli enti locali, così come modificato con
Dl 30 settembre 2003, n. 269, si è infatti
previsto, nell’ambito delle procedure di
controllo sui rispettivi organi
amministrativi, che i consigli comunali
vengano sciolti con decreto del Presidente
della Repubblica, nelle ipotesi in cui gli
enti territoriali, al di sopra dei mille
abitanti, siano sprovvisti dei relativi
strumenti urbanistici generali e non
adottino tali strumenti entro diciotto mesi
dalla data di elezione degli organi.
Il decreto di scioglimento del consiglio è
adottato su proposta del Ministro
dell’interno, di concerto con il Ministro
delle infrastrutture e dei trasporti, ora
delle sole infrastrutture.
Peraltro, le suddette disposizioni sono
state ulteriormente diluite temporalmente in
sede di approvazione di un successivo
provvedimento legislativo che, con Dl 29
marzo 2004, n. 80, convertito in legge 28
maggio 2004, n. 140, ha stabilito che “in
sede di prima applicazione delle
disposizioni … del testo unico delle leggi
sull’ordinamento degli enti locali, … si
procede … allo scioglimento dei consigli
degli enti territoriali in carica che non
adottino gli strumenti urbanistici generali
entro diciotto mesi” dalla data di entrata
in vigore del citato decreto.
Provvedimenti legislativi del genere
risultano meritori al fine di perseguire
l’obiettivo che la legge urbanistica
fondamentale del 1942 pose innovativamente
per l’epoca, vale a dire l’estensione
all’intero territorio nazionale di una
disciplina organica di regolamentazione
urbanistica, da praticarsi in ciascun ente
locale comunale.
Obiettivo, a 60 anni di distanza, non ancora
pienamente raggiunto, in particolare nel
Mezzogiorno.
Il citato dispositivo, tuttavia, rischia di
essere del tutto emblematico e molto poco
efficace, in quanto:
- si fa riferimento agli strumenti
urbanistici comunali, ma anche i PdiF
sono tali, mentre, si dovrebbe parlare di
“piani regolatori generali o equivalenti,
previsti dalla vigente legislazione
regionale”;
- si usa il termine adottino; ma
quanti comuni hanno adottato un Prg e poi lo
hanno tenuto in parcheggio per
numerosi anni, decorsi i quali, dopo i primi
tre, decadono le norme di salvaguardia ed è
ripristinata la previgente disciplina,
generalmente molto più permissiva? In luogo
di “adottino”, la dizione efficace sarebbe
dovuta essere “abbiano adottato e trasmesso
all’organo competente per l’approvazione”;
- nella quasi totalità dei casi, i comuni
sprovvisti di Prg e reiteratamente inerti,
sono stati commissariati dall’organo
sovraordinato, quali la regione e, in alcune
di esse, le province o le comunità montane;
in tal caso, quale ente si scioglie, visto
che il potere pianificatorio è stato
sottratto al comune? Nelle regioni
meridionali, la stragrande maggioranza dei
comuni sprovvisti di Prg è commissariato,
anche se i tempi di elaborazione del piano
risultano, non di rado, anche in tale
eventualità, estremamente lunghi e spesso
artatamente diluiti nel tempo;
- non potendosi sciogliere le province e le
comunità montane, sarebbe opportuno
reintegrare nei poteri pianificatori i
comuni, entro un tempo stabilito, nel caso
di inerzia dei commissari ad acta,
fissando un periodo di tempo complessivo per
la definizione amministrativa, in capo agli
stessi, per gli adempimenti di competenza
dei comuni eventualmente reintegrati nelle
competenze urbanistiche;
- relativamente ad un aspetto più raffinato
e oggettivamente di più difficile
implementazione normativa del problema, ma
non meno importate, si dovrebbe poter
incidere sui comuni che sono dotati di
strumenti urbanistici generali con più di
dieci anni di vigenza, per alleggerire gli
enti locali del gravame di obsolescenza
strategica e inefficacia amministrativa che
ciò palesemente comporta.
Si può, quindi, constatare, quanto complesso
possa essere intervenire efficacemente a
supporto della pianificazione urbanistica
degli enti locali, dinamizzando le relative
procedure di formazione, senza peraltro
incorrere nelle censure di legittimità
costituzionale in merito alle competenze
proprie di comuni e regioni.
Tornando alla riforma urbanistica in riavvio
di discussione nelle sedi parlamentari
competenti, da più parti si chiede una legge
snella, i cui principi siano pochi, chiari
ed efficaci.
Tale approccio, più che concettuale, appare
essere essenzialmente strategico. Si
ritiene, infatti, che avventurarsi nella
costruzione di un impianto normativo
dettagliato sia, di fatto impossibile,
attesa la generale instabilità politica che
caratterizza i governi negli ultimi anni, la
quale, anche se non ne determina la caduta
anticipata, produce un clima di
improduttività legislativa e gestionale.
C’è, tuttavia, da considerare che una legge
di principi è adatta per un contesto di
common low, di tipo anglosassone, e non
in uno fortemente irrigidito come quello
italiano, nel quale la decisione
amministrativa, in materia urbanistica, ha
pochissimi gradi di libertà.
La legge di principi, comunque, potrebbe
contenere alcune norme finali e transitorie,
orientate ad avviare la soluzione della
rilevata questione urbanistica meridionale,
oppure rimandare ad un decreto delegato, ad
essa collegato che ne specificasse e
rendesse operativi alcuni dettagli,
prefigurati strategicamente nella prima.
Il sostegno statale al rilancio dei processi
di governo del territorio nel Mezzogiorno,
comunque, non può non transitare attraverso
il coinvolgimento delle regioni.
Molte di esse, negli ultimi decenni, hanno
provveduto a sostenere la pianificazione
comunale generale attraverso contributi alla
redazione dei relativi strumenti
urbanistici.
Tale modalità di intervento deve rimanere ed
essere ampliata finanziariamente, anche se
non può essere considerata assolutamente
sufficiente.
Può risultare, viceversa, di una certa
efficacia la creazione di appositi uffici
di pianificazione urbanistica o, in
termini più estesi, per le politiche
urbanistiche o, ancora, per il
governo del territorio, anche da
realizzarsi in forma consortile per i
piccoli comuni, ad esempio sotto i 5.000
abitanti.
Essi potrebbero essere finanziati su
obiettivi, per essere stabilizzati, in
termini di personale e strutture, previa
verifica dei buoni risultati conseguiti.
Tali uffici potrebbero essere anche
supportati attraverso convenzioni con
università o qualificati centri di ricerca
pubblici o privati.
Questi ultimi potrebbero, in alternativa,
anche assumere il ruolo di istituti
indipendenti di certificazione dello stato e
della qualità dei processi di pianificazione
urbanistica degli enti locali e delle
regioni.
Dovrebbe essere, inoltre, avviata la
ricognizione periodica delle attività di
pianificazione urbanistica e territoriale
svolta dai soggetti competenti, comprensiva
delle inadempienze, da affidare all’Istat e
da rendere pubblici.
Insieme ai sostegni, risulterà necessario
definire sistemi di commissariamento per
inerzia alla redazione dei piani urbanistici
e territoriali di competenza, ai diversi
livelli, cui dare una reale efficacia, anche
mediante la individuazione di responsabilità
penali e contabili, non solo per i soggetti
inadempienti ma anche per i potenziali enti
sostitutivi.
Gli interventi di sostegno di tipo
amministrativo dovrebbero essere, inoltre,
accompagnati da analoghi di natura fiscale e
contributiva.
La carenza o vetustà degli strumenti di
governo del territorio dovrebbero essere
accompagnati dall’inasprimento di alcune
forme di fiscalità urbana, da parametrarsi
alla lievitazione dei costi generali della
fornitura di servizi di uso pubblico.
Viceversa, si potrebbero applicare forme di
fiscalità di vantaggio per i territori
adeguatamente regolamentati urbanisticamente.
Sotto il profilo contributivo, lo Stato
centrale potrebbe condizionare o,
addirittura, subordinare i trasferimenti di
risorse pubbliche per investimenti a enti
sprovvisti di strumenti di pianificazione,
così come previsti dalle leggi regionali
vigenti.
I suddetti trasferimenti dovrebbero,
inoltre, essere allocati in coerenza con le
previsioni di assetto urbanistico del
territorio.
Gli stessi quadri di sostegno allo sviluppo,
alimentati dai finanziamenti dell’unione
europea, dovrebbero essere subordinati
all’attuazione di specifiche previsioni
degli strumenti urbanistici e non questi
ultimi rincorrere i finanziamenti attraverso
un’infinità di deroghe alle proprie
previsioni.
Infine, è indispensabile rivedere i
meccanismi normativi vigenti al fine di
arginare il fenomeno dell’abusivismo
edilizio, in quanto dimostratisi del tutto
inefficaci nel Mezzogiorno, anche perché la
dispersione edilizia determina la concreta
impossibilità di infrastrutturare il
territorio, che, come si sottolinea di
seguito, è momento strategico per il decollo
dell’economia meridionale.
L’urgenza di riaffrontare organicamente la
questione meridionale, con uno sforzo
politico della comunità nazionale in termini
di risorse finanziarie e intellettuali,
paragonabili a quelle messe in campo agli
inizi degli anni ’50 con l’avvio
dell’intervento straordinario, è dettata
dalle seguenti due motivazioni.
Il ritmo di crescita del Mezzogiorno rimane
troppo lento per colmare, in tempi
accettabili, il perdurante divario esistente
rispetto al centro-nord; nel triennio
2004-2006, la distanza in termini
occupazionali e di ricchezza prodotta è
tornato ad ampliarsi, a valle di una fase in
cui si era leggermente ridotta; le ultime
stime descrivono una ripresa più robusta per
le regioni centro-settentrionali e una
nettamente inferiore in quelle meridionali,
che pure negli anni precedenti avevano
sofferto di una consistente contrazione
dell’attività economica e, ancora più
marcatamente, dei livelli occupazionali (Tabella
2).
In alcune aree del Mezzogiorno, in
particolare campane e calabresi, al di là
della plurisecolare e irrisolta vicenda
siciliana, la condizione di perdurante
stagnazione economica sta accentuando la già
preoccupante condizione di disgregazione
sociale esistente, che alimenta non solo il
crescente potere occulto della malavita
organizzata ma determina l’arretramento
dello Stato in estese porzioni di territorio
urbano e metropolitano, nelle quali si va
consolidando un contropotere palese e
riconosciuto da ampie quote di popolazione
insediata.
È unanimemente condiviso come il rilancio
del Mezzogiorno sia possibile a condizione
che vengano affrontati i quattro specifici
nodi, che di seguito si elencano: fiscalità
di vantaggio, semplificazione
amministrativa, industrializzazione,
infrastrutturazione.
Ma almeno due di tali punti hanno a che
vedere con il governo del territorio.
La semplificazione amministrativa si ottiene
se vi sono regole e procedure certe di uso
del suolo, in mancanza delle quali si
incespica nella discrezionali della
burocrazia, che tanti guasti ha prodotto
anche per la costante pressione della
criminalità organizzata sugli apparati
pubblici.
L’infrastrutturazione del territorio, oltre
che tradizionalmente materiale, deve
assumere anche una dimensiona immateriale,
da sostanziarsi in quadri di opportunità
allocative di risorse definite da
piattaforme programmatiche, da proiettare,
in piena trasparenza, nel corpo degli
strumenti di pianificazione urbanistica e
territoriale.
In conclusione, la cultura e la pratica del
governo del territorio, a partire dalle
dotazioni fondamentali e
indispensabili, tuttora drammaticamente
carenti, deve potersi rilanciare e
diventare, con il sostegno dello Stato
centrale, uno degli strumenti per
riagganciare il Mezzogiorno al resto del
paese e non momento di profonda, continua e
perdurante divaricazione.
Note
1
Legge Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche
al titolo V della parte seconda della
Costituzione.
2
Rapporto dal territorio 2005, a cura
di Piero Properzi, Inu Edizioni, Roma, 2006.
3
Il Sole24Ore del 28 novembre 2005.
4
Fonte: Ministero dell’Interno, 2006.
5
Tranne il Comune di Taurianova (Rc), che
conta 15.392 abitanti; fonte: Il Sole24Ore
del 23 ottobre 2006. |