Numero 12/13 - 2006

 

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Condono edilizio. La fine delle ostilità


Enrico Soprano

Alessandro De Angelis


 

La sanatoria straordinaria degli abusi edilizi introdotta nella legislazione statale nel 2003 ha sortito effetti dirompenti rispetto alle precedenti edizioni del 1985 e del 1994. Enrico Soprano e Alessandro De Angelis ripercorrono la complessa vicenda che ha visto, fra i suoi protagonisti, il governo, la Regione Campania e la Corte costituzionale, soffermandosi su alcuni aspetti di merito, relativi alle aree vincolate e alla riapertura dei termini per la presentazione di nuove istanze di condono

 

 

Con la sentenza n. 49/2006 ha avuto termine il lungo contenzioso avente ad oggetto la sanatoria straordinaria degli abusi edilizi introdotta dal Dl 269/2003.

In proposito appare opportuno, anzitutto, richiamare brevemente le circostanze che hanno dato origine alla controversia conclusa con la pronuncia in rassegna.

1. L’art. 32 del Dl 269/2003, nel definire le modalità di accesso al cosiddetto terzo condono, demandava ai legislatori regionali:

- al comma 26, la disciplina della possibilità, delle condizioni e dell’ammissibilità a sanatoria di alcune tipologie di abusi (opere di manutenzione straordinaria o di restauro e risanamento conservativo) elencate nell’allegato 1 del medesimo Dl e realizzate in aree non soggette ai vincoli di inedificabilità di cui all’art. 32 della legge 47/1985;

- al comma 33, l’emanazione di norme per la definizione dei procedimenti avviati con le domande di sanatoria, nonché la possibilità di incrementare l’oblazione nella misura massima del 10%.

Tali disposizioni regionali, inoltre, avrebbero dovuto essere approvate “entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto” (avvenuta il giorno stesso della sua pubblicazione sulla Gu, avvenuta il 30.9.2003), e quindi entro il 29.11.2003.

2. Con sentenza n. 196/2004 la Corte Costituzionale, in accoglimento dell’impugnativa promossa da alcune regioni – tra cui la Campania – ha, com’è noto, operato una netta distinzione tra 2 diverse categorie di effetti prodotti dal condono: da una parte l’effetto estintivo dei reati (che afferisce all’ordinamento penale della Repubblica e che come tale rientra, ex art. 117 Cost., nella potestà legislativa esclusiva dello Stato), e dall’altra l’effetto sanante degli abusi edilizi (attinente alla materia del governo del territorio, oggetto di potestà legislativa concorrente ai sensi dello stesso art. 117 Cost.).

A tale ultimo riguardo, però, la Corte ha precisato che “solo alcuni limitati contenuti di principio di questa legislazione possono ritenersi sottratti alla disponibilità dei legislatori regionali, cui spetta il potere concorrente di cui al nuovo art. 117 Cost. (ad esempio certamente la previsione del titolo edilizio abilitativo in sanatoria di cui al comma 1 dell’art. 32, il limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili, la determinazione delle volumetrie massime condonabili). Per tutti i restanti profili è invece necessario riconoscere al legislatore regionale un ruolo rilevante – più ampio che nel periodo precedente – di articolazione e specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale in tema di condono sul versante amministrativo”.

Sulla scorta della premessa sopra riportata, la Corte ha quindi dichiarato l’illegittimità costituzionale di numerose disposizioni contenute nell’art. 32 del Dl 269/2003, e in particolare:

- del comma 26, “nella parte in cui non prevede che la legge regionale possa determinare la possibilità, le condizioni e le modalità a sanatoria di tutte le tipologie di abuso di cui all’allegato 1” del Dl 269/2003, nonché “nella parte in cui non prevede che la legge regionale (...) possa essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge statale”;

- del comma 25, “nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa determinare limiti volumetrici inferiori a quelli indicati nella medesima disposizione”;

- del comma 14, avente ad oggetto la sanatoria degli abusi realizzati su aree demaniali, “nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 si applichi anche a questa categoria particolare di opere”;

- del comma 37, “nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 possa disciplinare diversamente gli effetti del silenzio, protratto oltre il termine ivi previsto, del Comune cui gli interessati abbiano presentato la documentazione richiesta”;

- del comma 38, “nella parte in cui prevede che sia l’allegato 1 dello stesso Dl 269/2003, anziché la legge regionale di cui al comma 26, a determinare la misura dell’anticipazione degli oneri concessori, nonché le relative modalità di versamento”.

Sentenze

 

Infine, la Corte ha ritenuto “del tutto incongrua, rispetto alla complessità delle scelte spettanti alle autonomie regionali”, la determinazione di un termine di soli 60 giorni per l’emanazione delle leggi regionali di cui ai commi 26 e 33 dell’art. 32, precisando ancora che “il necessario riconoscimento del ruolo legislativo delle Regioni nella attuazione della legislazione sul condono edilizio straordinario esige, ai fini dell’operatività della normativa in esame, che il legislatore nazionale provveda alla rapida fissazione di un termine, che dovrà essere congruo perché le Regioni e le Province autonome possano determinare tutte le specificazioni cui sono chiamate dall’art. 32 – quale risultante dalla presente sentenza – sulla base del dettato costituzionale e dei rispettivi Statuti speciali (…). In considerazione della particolare struttura del condono edilizio straordinario qui esaminato, che presuppone un’accentuata integrazione fra il legislatore statale e i legislatori regionali, l’adozione della legislazione da parte delle regioni appare non solo opportuna, ma doverosa e da esercitare entro il termine determinato dal legislatore nazionale; nell’ipotesi limite che una regione o provincia autonoma non eserciti il proprio potere legislativo in materia nel termine prescritto, a prescindere dalla considerazione se ciò costituisca, nel caso concreto, un’ipotesi di grave violazione della leale cooperazione che deve caratterizzare i rapporti fra regioni e Stato, non potrà che trovare applicazione la disciplina dell’art. 32 e dell’allegato 1 del Dl 269/2003”.

3. In esecuzione della sentenza n. 196/2004, è stato emanato il Dl 168/2004 – pubblicato sulla Gu n. 161 del 12.7.2004 ed entrato in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione – il cui art. 5 ha stabilito che “la legge regionale prevista dal comma 26” del Dl 269/2003 “può essere emanata entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Tale previsione è stata così integrata in sede di conversione del Dl in commento, disposta con legge 191/2004 (pubblicata sulla Gu n. 178 del 31.7.2004 ed entrata in vigore anch’essa il giorno successivo alla sua pubblicazione): “Il termine indicato nel primo periodo si applica anche alle leggi regionali di cui al comma 33 del citato articolo 32 (…). Decorso tale termine la normativa applicabile è quella contenuta nel citato decreto legge 269/2003”.

In buona sostanza, quindi, con il Dl 168/2004 e la successiva legge 178/2004 – entrati in vigore, come si è detto, in date differenti – il legislatore statale ha previsto:

a) un termine fino al 13.11.2004 per l’approvazione di norme regionali in materia di modalità e limiti di accesso al condono (ai sensi dell’art. 32, comma 26 del Dl 269/2003, come modificato in virtù della sentenza n. 196/2004);

b) un secondo termine fino all’1.12.2004 per l’approvazione di norme regionali disciplinanti la definizione delle singole domande di condono (di cui all’art. 32, comma 33 del Dl 269/2003).

4. La Regione Campania ha approvato in data 18.11.2004 la Lr 10/2004, avente ad oggetto entrambe le materie di cui ai commi 26 e 33 dell’art. 32 del Dl 269/2003.

Detta legge è stata impugnata innanzi alla Corte Costituzionale dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la quale – probabilmente anche in considerazione del fatto che alla data del 18.11.2004 non era ancora scaduto il termine di cui sub 3.b) – si è limitata a censurare le sole previsioni della Lr 10/2004 (art. 1; art. 3, eccettuate le lett. b) e d) del comma 2; art. 4; art. 6, commi 1, 2 e 5; art. 8) riconducibili al dettato dell’art. 32, comma 26, del Dl 269/2003.

5. Si giunge infine alla sentenza n. 49/2006, con la quale il Giudice delle leggi ha ritenuto fondata l’impugnativa del Governo sul presupposto che “la prescrizione del termine di quattro mesi da parte dell’art. 5, comma 1, del decreto legge n. 168 del 2004 dà attuazione a quanto espressamente statuito al punto 7 del dispositivo della sentenza n. 196 del 2004, il quale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 32, decreto legge n. 269 del 2003, «nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge statale». Peraltro, nella motivazione di tale pronuncia, questa Corte ha configurato tale termine come perentorio, tanto da prevedere addirittura che, ove le Regioni non esercitino il proprio potere entro il termine prescritto «non potrà che trovare applicazione la disciplina dell’art. 32 e dell’allegato 1 al decreto legge n. 269 del 2003, così come convertito in legge»”.

Ribadendo le considerazioni già espresse – sia pure in termini meno categorici – nella sentenza n. 196/2004, la Corte ha quindi affermato, in maniera tutt’altro che velata, che nelle materie di legislazione concorrente lo Stato può stabilire che la funzione legislativa regionale sia esercitata entro termini perentori, decorsi i quali troverà applicazione la disciplina nazionale, a nulla valendo le eventuali disposizioni regionali emanate “fuori tempo massimo”.

Ma è chiaro che l’applicazione in concreto di tale principio non può che determinare – come si è puntualmente verificato nel giudizio de quo – la sottrazione della competenza legislativa, costituzionalmente riconosciuta, delle regioni.

6. Al chiaro fine di contrastare l’impugnativa proposta dal Governo, la Regione Campania aveva a sua volta denunciato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 del Dl 168/2004, stigmatizzando la limitazione a “soli quattro mesi” del “termine per l’esercizio della potestà legislativa regionale, trattandosi di termine incongruo rispetto alla pluralità di contenuti e alla complessità delle scelte che il legislatore regionale doveva operare”.

Sul punto la Corte ha ritenuto “sufficiente (…) rilevare che numerose Regioni hanno adottato questa legislazione entro il termine prescritto, senza che emergessero problemi particolari”.

Tale assunto desta notevoli perplessità.

Appare chiaro, in primo luogo, che la valutazione della fondatezza della domanda articolata dalla Regione Campania non poteva in alcun modo basarsi su meri rilievi di fatto, per di più riferiti ad altre regioni, e quindi a realtà legislative, politiche e sociali ben diverse da quella campana.

In secondo luogo la Corte avrebbe dovuto tenere conto, ai fini del proprio esame, della natura particolarmente delicata e articolata del processo decisionale sotteso all’emanazione delle disposizioni in questione, che implicava da un lato la giusta ed esaustiva ponderazione dei complessi interessi in gioco, e dall’altro un ampio confronto con i comuni (ai quali non a caso la sentenza n. 196/2004 aveva già riconosciuto la possibilità di “influire sul procedimento legislativo regionale in materia, sia informalmente sia, in particolare, usufruendo dei vari strumenti di partecipazione previsti dagli Statuti e dalla legislazione delle Regioni”); circostanze, queste, che rendevano ex se arduo emanare la disciplina regionale di cui trattasi in soli 4 mesi.

In ultimo, con l’assunto in commento la Corte ha contraddetto se stessa, laddove nella sentenza n. 196/2004 aveva giudicato “incongruo” il termine di soli 60 giorni fissato dall’art. 32 del Dl 269/2003 per l’emanazione di norme dal contenuto senz’altro più limitato rispetto a quello previsto dall’art. 5 del Dl 168/2005, per poi ritenere invece congruo il termine – peraltro comprensivo della pausa feriale – di poco superiore, sancito da tale ultima disposizione.

7. Tanto premesso, occorre procedere all’esame delle disposizioni della Lr 10/2004 tuttora vigenti, che qui di seguito si richiamano brevemente.

- L’art. 3 stabilisce, al comma 2, lett. b) e d), che non possono formare oggetto di sanatoria le opere “ultimate dopo il 31 marzo 2003. Si considerano ultimate le opere edilizie completate al rustico comprensive di mura perimetrali e di copertura e concretamente utilizzabili per l’uso cui sono destinate”, nonché le opere “realizzate in uno dei Comuni di cui alla legge regionale 10 dicembre 2003, n. 21, articolo 1 e hanno destinazione residenziale, fatta eccezione per gli adeguamenti di natura igienico-sanitaria e funzionali di cui all’articolo 5, comma 2, della stessa legge”.

La previsione di cui al comma 2, lett. b), restringe fortemente il novero degli abusi sanabili, atteso che aggiunge ai requisiti strutturali già richiesti per l’accesso alla sanatoria disciplinata dal legislatore statale – ultimazione al rustico comprensiva di tompagnatura e copertura – un ulteriore requisito, costituito dalla concreta idoneità dell’immobile all’uso per cui lo stesso è stato realizzato, che come tale presuppone la realizzazione di impianti, infissi, ecc.

Quanto alla disposizione di cui al comma 2, lett. d), non vi è dubbio che la stessa è stata dettata dall’esigenza di garantire la perdurante efficacia del divieto, introdotto dalla Lr 21/2003, di edificazione a fini residenziali nella cosiddetta zona rossa dell’area vesuviana.

- L’art. 5 prevede che alla domanda di condono vanno allegati “documenti comprovanti l’avvenuta ultimazione delle opere abusive entro il 31 marzo 2003”, “una perizia giurata sulle dimensioni e sullo stato delle opere eseguite” ed “una certificazione attestante l’idoneità statica delle stesse opere”.

Anche la necessità di dimostrare, mediante apposita documentazione, che le opere abusive sono state ultimate – secondo la definizione contenuta all’art. 3, comma 2, lett. b) – entro il termine previsto dal legislatore statale risulta particolarmente restrittiva, non essendo più idonea, a tal fine, la semplice dichiarazione sostitutiva dell’interessato.

- L’art. 6 sancisce l’incremento, nella misura “del cento per cento”, degli oneri concessori quantificati dal D 269/2003.

- L’art. 7 esclude la possibilità che sulle domande di condono presentate ai sensi dell’art. 32 del Dl 269/2003 si formi il silenzio-assenso, prevedendo che le stesse siano “definite dai Comuni competenti con provvedimento esplicito da adottarsi entro ventiquattro mesi dalla presentazione delle stesse”. Decorso tale termine, l’interessato potrà richiedere l’intervento sostitutivo dell’amministrazione provinciale competente con le stesse modalità già previste, per il rilascio dei permessi di costruire, dall’art. 4 della Lr 19/2001.

- L’art. 9 stabilisce che le domande di condono formulate ai sensi delle leggi 47/1985 e 724/1994, e tuttora pendenti, possono essere definite in via semplificata, entro il 31.12.2006, mediante la presentazione di una dichiarazione sostitutiva (attestante tra l’altro la disponibilità dell’immobile da parte del dichiarante, la descrizione delle opere oggetto di sanatoria e l’avvenuta esecuzione delle opere di adeguamento sismico) che, se preceduta dall’“avvenuto pagamento della somma dovuta a titolo di oblazione”, consente di per sè, in presenza dei “presupposti di legge”, il rilascio del titolo in sanatoria.

La disposizione in commento non si applica, per espressa previsione del legislatore regionale, agli abusi edilizi realizzati nelle aree soggette a vincolo di inedificabilità assoluta ai sensi dell’art. 33 della legge 47/1985.

Tuttavia può ritenersi che il procedimento semplificato di cui innanzi non trovi applicazione neanche agli abusi eseguiti nelle aree sottoposte, ex art. 32 della medesima legge 47/1985, a vincolo di inedificabilità relativa, e quindi agli abusi sanabili previo parere favorevole dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo; ciò in quanto l’art. 32 in parola, nella parte in cui subordina l’accoglimento della domanda di sanatoria al parere favorevole di cui innanzi, costituisce da un lato espressione della potestà legislativa esclusiva dello Stato (preordinata alla tutela dei beni culturali) e, dall’altro, rappresenta comunque una disposizione di principio in materia di governo del territorio non derogabile dal legislatore regionale.

- L’art. 10 disciplina l’intervento sostitutivo della regione in caso di mancata attuazione degli ordini di demolizione emanati dalle amministrazioni comunali.

Detto intervento è caratterizzato dalla nomina di un commissario ad acta, il quale compie “tutti gli adempimenti di cui al Dpr 380/2001” avvalendosi – per l’esecuzione delle opere di demolizione, di ripristino dello stato dei luoghi e di tutela della pubblica incolumità – “del personale e dei mezzi messi a disposizione previa intesa dal Genio militare” ovvero di “imprese specializzate” iscritte in un apposito elenco regionale.

Gli oneri economici connessi all’esecuzione delle attività di cui innanzi sono posti a carico del responsabile dell’abuso, fatta eccezione per i compensi spettanti al commissario ad acta, la cui liquidazione spetta all’amministrazione comunale inadempiente.

8. Un’ultima riflessione va svolta in ordine sia agli effetti prodotti dalla sentenza n. 49/2006 sulle domande di condono presentate nel periodo di vigenza delle disposizioni della Lr 10/2004 dichiarate costituzionalmente illegittime, sia alla possibilità di una riapertura dei termini per la presentazione di nuove domande di condono.

Quanto al primo profilo, non sembra potersi dubitare – in virtù delle considerazioni che precedono – che le domande di condono proposte dopo l’entrata in vigore della Lr 10/2004 siano ammissibili, e che le stesse vadano valutate tenendo conto, da un lato, della disciplina di dettaglio sancita dall’art. 32 del Dl 269/2003, e dall’altro delle prescrizioni della medesima Lr 10/2004 non annullate dalla Corte Costituzionale.

Con specifico riferimento ad un’eventuale riapertura dei termini per la presentazione delle domande di sanatoria, può ritenersi che la stessa non costituisca un atto dovuto per il legislatore statale.

Nel vigente ordinamento, infatti, non è previsto che ad una pronuncia di annullamento della Corte debba seguire l’emanazione di una legge che disciplini nuovamente i rapporti regolati dalle disposizioni dichiarate costituzionalmente illegittime; con la conseguenza che nella fattispecie il legislatore statale ha la facoltà, e non l’obbligo, di consentire la presentazione di domande di condono aventi ad oggetto abusi edilizi non sanabili ai sensi delle prescrizioni della Lr 10/2004 annullate dalla sentenza n. 49/2006.

 

 

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