Premessa
Al momento della preparazione della mia
‘ultima lezione di Tecnica Urbanistica’, in
occasione del commiato dall’insegnamento di
questa materia nell’Università in cui ho
lavorato per più di trent’anni, ho avuto
molti dubbi sulla scelta degli argomenti e
del taglio da dare allo svolgimento,
soprattutto per il fatto che mi sarei
trovato di fronte ad un uditorio composto
non solo da studenti di tutti gli anni di
corso, ma anche da colleghi e amici
autorevoli, appartenenti al mio e ad altri
campi disciplinari.
Mi si presentavano (semplificando) due
possibilità. La prima era di trattare uno o
più temi specifici, concreti, attraverso
l’illustrazione di esperienze svolte nel
corso della mia attività di studioso e di
operatore in urbanistica; la seconda di
sviluppare alcune riflessioni
sull’evoluzione, sullo stato attuale e sulle
prospettive del nostro campo disciplinare,
nell’insegnamento e nella pratica. La prima,
probabilmente, più semplice e accattivante;
la seconda più stimolante, ma anche più
suscettibile di farmi cadere in un eccesso
di didascalia e, forse, nella sindrome del
grillo parlante.
Ciò nonostante ho preferito la seconda
alternativa; come si vedrà, nei miei
ragionamenti, e nei suggerimenti che mi
permetterò di offrire alla parte giovane
dell’uditorio e soprattutto agli studenti,
ho ampiamente trasfuso le convinzioni – e
anche le illusioni e disillusioni – che ho
ricavato dal ripercorrere le mie (e anche le
altrui) esperienze. In particolare mi è
sembrato opportuno mettere qualche
puntino sulle i, dal mio punto di vista,
sull’origine storica e sul ruolo attuale
della Tecnica urbanistica, che a me appaiono
messi in ombra nella confusione del quadro
attuale delle discipline urbanistiche1.
Probabilmente alcune delle mie
considerazioni potranno non essere condivise
dalla parte più matura e navigata
dell’uditorio, in particolare quelle che
risulteranno un po’ critiche verso la
comunità scientifica di cui facciamo
parte; ma ho ritenuto opportuno esprimerle
in quest’ultima occasione, come contributo –
soprattutto di idee e proposte in positivo –
ad un confronto che è bene sia sempre
aperto.
Ai giovani, studenti, laureandi e laureati,
vorrei in particolare far intravedere alcuni
campi d’intervento in funzione dei quali
consiglierei loro di affilare le armi,
uscendo dalla genericità e dalla nebulosità
dei discorsi sulle prospettive del loro
inserimento nel mondo dell’urbanistica.
Tratterò brevemente, secondo il mio punto di
vista, dell’ampiezza e frammentazione del
quadro delle discipline urbanistiche; delle
origini e collocazione della Tecnica
urbanistica in questo quadro;
dell’evoluzione attuale della pianificazione
e del piano; dell’urbanistica di fronte alla
città di oggi; di alcuni specifici campi
d’intervento della Tecnica urbanistica nella
situazione attuale, corredando il tutto di
alcune note di commento e di
esemplificazione, e di alcune brevi
considerazioni conclusive.
La galassia urbanistica
Riferendoci alle denominazioni dei corsi
nell’ordinamento universitario nazionale,
l’insegnamento della Tecnica urbanistica è
stato ed è tradizionalmente presente nel
Corso di laurea in Ingegneria civile e
successivamente in quello edile, mentre
l’insegnamento dell’Urbanistica è tipico (ed
una volta era esclusivo) del o dei Corsi di
laurea in Architettura.
Al fine di precisare le fisionomie e le
differenze, maturate nel corso di circa tre
quarti di secolo, tra questi due
insegnamenti, è opportuno tenere presente il
complesso insieme disciplinare, che mi
sembra significativo chiamare galassia
urbanistica, in cui si configura la
generalità degli studi che hanno per oggetto
l’insediamento umano.
Possiamo esaminare questo insieme
disciplinare organizzandone le varie
componenti secondo due gruppi fondamentali:
a) le discipline scientifiche;
b) le discipline applicative.
Di fronte a questi due gruppi noi, ingegneri
e architetti, ci collochiamo rispettivamente
come soggetti coscienti (protagonisti
di conoscenza), e come attori
(operatori d’interventi).
Il primo gruppo comprende le discipline
specifiche, e l’indicazione di alcuni
loro contenuti che ne costituiscono
il campo d’interesse principale, coinvolti
nella conoscenza dei fenomeni
insediativi attuali e pregressi ed
eventualmente nella previsione di
quelli in divenire.
Il secondo gruppo è composto dalle
discipline, e dagli strumenti di
cui esse si avvalgono, aventi carattere
operativo, finalizzati
all’individuazione delle modalità attraverso
le quali si prefigura un futuro
dell’insediamento coerente con una
determinata visione-obiettivo, e
generalmente si indicano anche gli
interventi da attivare ai fini del
perseguimento di questa visione.
Ho cercato di sintetizzare i principali
contenuti e articolazioni di queste due
categorie mediante parole chiave,
senza alcuna pretesa di sistematicità
definitoria e classificatoria (Figure 1
e 2).
Come si vede sono presenti alcune
denominazioni disciplinari classiche (nella
categoria scientifica: storia della città
e storia dell’urbanistica,
geografia urbana; nella categoria
applicativa: pianificazione urbana e
pianificazione territoriale,
progettazione urbana, disegno urbano);
non sono invece indicate l’urbanistica,
la tecnica urbanistica, l’ingegneria
del territorio, discipline tutte
caratterizzanti, come si è detto,
l’ordinamento dei corsi di laurea in
Ingegneria civile ed edile (anche se, come
si è detto, l’urbanistica fino a non
molti anni fa era peculiare dei C.d.L. in
Architettura).
Infatti, queste discipline, più che essere
caratterizzate da contenuti ben definiti,
sono tutte una sorta di contenitori
disciplinari di conoscenze e
metodologie; nella metafora della
galassia sono sistemi di corpi
individuali presenti nella galassia
stessa2.
Questa accezione ampiamente comprensiva
del significato di urbanistica si è
riflessa, soprattutto in Italia, sulla
caratterizzazione dell’insegnamento della
disciplina, che generalmente affronta i temi
della galassia disciplinare in forma
complessiva e spesso non ben definita,
spesso anche a causa dei condizionamenti
imposti dalla ristrettezza degli spazi
didattici. Le modalità dell’insegnamento si
sono venute ad articolare, nel corso degli
anni, a seconda della specificità delle
diverse scuole e della formazione e della
sensibilità dei singoli docenti,
coinvolgendo più in particolare alcune delle
diverse componenti e sintetizzando o
omettendone altre.
Esiste un altro modo di affrontare
l’insegnamento delle discipline presenti
nella galassia urbanistica, poco praticato
in Italia3, e usuale nel mondo
mitteleuropeo e anglosassone: esso fa
riferimento a filoni disciplinari ben
identificati tanto nella loro specificità
quanto rispetto alla loro appartenenza al
versante scientifico o a quello applicativo
(urban geography, town e
regional planning, town design,
ecc.).
Ovviamente è più che ragionevole che ogni
comunità scientifica pratichi nelle sedi
della formazione didattica i criteri che i
suoi componenti ritengono più opportuni;
meno ragionevole che questa libertà comporti
spesso la conseguenza di rimescolare e
confondere il proprio campo disciplinare, e
soprattutto di sottovalutare l’importanza
basilare della distinzione logica, prima
ancora che cronologica, dell’approccio
conoscitivo storico-geografico rispetto
a quello operativo, espresso dalle
materie riguardanti la pianificazione e la
progettazione4.
Un breve richiamo relativo alla storia della
Tecnica urbanistica nell’ordinamento
universitario italiano può aiutare a meglio
definire il carattere e il ruolo di questo
insegnamento.
Origini ed evoluzione della Tecnica
urbanistica
Almeno fin dalla seconda metà dell’ottocento
i piani regolatori delle città
importanti, in Italia, come negli altri
paesi, avevano ampiamente delineato la
pratica della disciplina urbanistica, che
però non era ancora presente come tale
nell’insegnamento universitario del nuovo
Stato nazionale.
Infatti, l’insegnamento della Tecnica
urbanistica viene introdotto alla fine degli
anni ’20 del novecento, all’interno dei
corsi di laurea in Ingegneria civile.
Va ricordato che analogamente,
nell’ordinamento delle Università nello
Stato unitario, le cattedre di Architettura
sono attive a partire dalla seconda metà
dell’ottocento, quando vengono istituite le
Facoltà d’Ingegneria5. Solo negli
anni ’20 del novecento furono create a
livello universitario, fuori dalle Accademie
di Belle Arti, le prime Scuole di
Architettura e, negli anni ’30, le Facoltà
di Architettura, in cui venne introdotto
l’insegnamento dell’Urbanistica.
La Tecnica urbanistica nasce, quindi,
all’interno delle Facoltà d’Ingegneria come
disciplina applicativa, ed è
collocata nell’ambito del triennio di
applicazione, come la maggior parte
delle tecniche finalizzate alla
costruzione, nel caso specifico alla
costruzione della città.
L’insegnamento dell’Urbanistica, introdotto
pochi anni dopo, come si è detto, nelle
neonate Facoltà di Architettura, è
maggiormente rivolto agli aspetti della
storia, della forma e del disegno
dell’insediamento e dei suoi elementi6.
Per quanto riguarda la Tecnica urbanistica,
il carattere applicativo della disciplina (e
il limitato spazio didattico a questa
dedicato dapprima nell’ordinamento dei corsi
di laurea d’Ingegneria civile) hanno reso
necessario fin dalle origini compattare
nell’insegnamento il quadro disciplinare,
comprendendovi sia il momento
dell’inquadramento conoscitivo sia
quello applicativo, rivolto
prevalentemente agli aspetti
tecnico-dimensionali, funzionali e
organizzativi dell’insediamento urbano7.
In questo clima si sono sedimentati i
contenuti disciplinari in quegli anni, in
cui ha operato la generazione dei nostri
Maestri8.
La ineludibile compresenza del momento
conoscitivo e di quello operativo accomuna e
caratterizza ambedue le discipline
urbanistiche presenti nell’ordinamento
universitario, almeno dagli anni ’30 agli
anni ’50 e in parte ai ’60 del novecento,
pur nella loro sopraddetta specificità e
nella diversa collocazione nelle Facoltà9.
Nell’insegnamento c’è un po’ di storia,
un po’ di geografia urbana (quasi mai
chiamata così), cenni relativi ai modelli
organizzativi dell’insediamento, ed un po’
di pianificazione. Ai temi della
pianificazione, in particolare, si
riallacciano, a mio avviso, i principali
problemi dell’insegnamento che si sono
venuti a determinare gradatamente, col
passare degli anni, fino al momento attuale.
Il tipo di piano che veniva insegnato
era in origine abbastanza semplice, poiché i
fenomeni e le esigenze urbanistiche
della società erano (o apparivano) più
circoscritti e controllabili di quelli
odierni, ma soprattutto perché semplice e
ben definito era all’epoca il quadro
istituzionale in materia di
pianificazione urbanistica10.
Nella maggior parte dei casi, e ovviamente a
esclusione (e non sempre) delle grandi
città, il piano regolatore era un
impegno che si affrontava solo nelle
grandi occasioni.
Riferendoci in particolare agli ingegneri,
la formazione tecnica impartita
dall’insegnamento, la disponibilità della
manualistica e soprattutto l’esperienza,
consentivano, in particolare ai laureati che
avevano interesse per la materia, di
acquisire la maturazione occorrente per
progettare nella città (prevalentemente
per singoli interventi) quartieri,
attrezzature di servizio, reti stradali,
infrastrutture del trasporto pubblico, ben
organizzati e in molti casi ben disegnati.
Gli altri tipi e livelli di piano, pur già
identificati dalla cultura e dalla
legislazione, non erano ancora entrati nella
pratica delle amministrazioni competenti11.
La tecnica urbanistica, e più in generale
l’urbanistica, erano ancora discipline
considerate, da parte dei cittadini e degli
operatori sul campo, credibili e portatrici
di risultati tangibili ai fini dello
sviluppo urbano.
I segni di una crisi in atto, dovuta in gran
parte all’incapacità della cultura e
soprattutto della legislazione urbanistica
di adeguarsi tempestivamente all’evoluzione
dell’insediamento e dei suoi problemi, come
è avvenuto in altri paesi, cominciavano però
a essere avvertiti da tempo, da parte dagli
osservatori più attenti12.
L’emergere della complessità nella
pianificazione
Negli ultimi decenni del ’900 l’evoluzione
della realtà urbano-territoriale ha fatto
emergere e in alcuni casi esplodere problemi
irrisolti, fabbisogni insoddisfatti, e
conseguentemente la necessità di fornire
nuove risposte.
I problemi coinvolgono non solo gli aspetti
specificamente urbanistici, ma anche
quelli ambientali, economici,
sociali, politico-amministrativi
e così via.
L’esigenza di fornire soluzioni nuove e
adeguate ha fatto sì che l’urbanistica,
anche nell’insegnamento, si sia venuta
gradatamente a identificare sempre di più
con la metodologia del piano, concentrando
quindi l’attenzione su quello che ho
precedentemente designato, nella galassia
disciplinare, come il momento
operativo, spesso a spese
dell’approfondimento del momento
scientifico e anche di quelli più
specificamente tecnici
dell’intervento.
A fronte di queste nuove esigenze è apparso
inevitabile alla comunità scientifica
affrontare una realtà, sempre più complessa
e dinamica, ampliando e moltiplicando i
campi di interesse disciplinare e di
predisposizione degli strumenti
d’intervento.
Questo è avvenuto in due modi che
corrispondono anche a due momenti successivi
dell’evoluzione disciplinare.
Il primo consiste nell’affermarsi
dell’istanza dell’interdisciplinarietà,
peraltro presente fin dalle origini, se pur
timidamente, nella pratica della
pianificazione urbana e territoriale, anche
se permane a lungo la figura carismatica
dell’urbanista demiurgo13.
Questa istanza ha allargato la gamma delle
competenze e dei protagonisti coinvolti a
vario titolo nel processo della
pianificazione, pertanto all’intorno,
ma ancora al di fuori del prodotto di questo
processo, che resta un piano più o meno
canonico.
Il secondo momento, più recente e
attualmente quasi generalizzato, tende a
portare l’interdisciplinarietà all’interno
non solo del processo, ma anche del suo
prodotto, il piano, moltiplicando i tipi di
questo e i modi di pianificazione. In realtà
ciò è avvenuto più nel dibattito tra gli
addetti e nelle proposte che ne sono emerse,
che nelle concrete applicazioni: la gamma di
tipi e metodi, protagonisti,
procedure, forme di supporto
presenti nel versante pianificazione
della galassia disciplinare precedentemente
schematizzata dà ragione dello stato
nebuloso di questo sistema.
Da allora lo slogan della complessità
domina il mondo dell’urbanistica e della
pianificazione14.
La conseguenza, al di là delle buone
intenzioni dei proponenti e anche di ipotesi
interessanti di nuove forme e strumenti di
piano, è che il quadro complessivo registra,
nella maggior parte dei casi, complicazione
e inceppamento del sistema generale della
pianificazione. Il che avviene anche a
motivo della rigidezza dell’impalcatura
amministrativa nazionale e della progressiva
sempre maggiore confusione normativa15.
Inoltre, i tipi di piano e le procedure di
costruzione dei piani istituzionali si
mostrano sempre più incompatibili con i
tempi e i modi della politica, e in
particolare con le scadenze elettorali delle
amministrazioni locali, il che ha comportato
la generalizzazione del fatto che il ciclo
di produzione di un piano vigente
raggiunga una durata pressoché decennale,
privando il piano stesso di ogni efficacia e
incisività reale.
Di fronte a questi problemi la comunità
accademica, che per un verso costituisce una
lobby ben inserita nella grande
macchina burocratica con cui le
amministrazioni del territorio gestiscono la
pianificazione istituzionale, per un altro
verso partecipa al dibattito che si svolge
sulla scena culturale e scientifica
assumendo una parte che somiglia a quella
dei Medici al capezzale del povero Pinocchio
(il piano).
Nel campo disciplinare l’enfasi per la
complessità è talvolta un alibi che alimenta
l’evasione verso campi di studio più che
rispettabili, appartenenti prevalentemente
alle scienze sociali ed economiche (la
sociologia, l’antropologia, l’etnografia, le
tecniche della partecipazione, il marketing
urbano, ecc.), anche connessi per
molti aspetti con i processi di
pianificazione, ma sostanzialmente esterni
rispetto alla nostra specificità
disciplinare16.
Questo atteggiamento favorisce
l’impossibilità, o copre l’incapacità, oggi
diffuse, di agire sulla concretezza
funzionale e fisica della compagine urbana e
territoriale, il che ritengo debba ancora
essere il ruolo specifico della Tecnica
urbanistica.
A mio avviso, quanto più si evolvono, si
arricchiscono e si frammentano gli aspetti
della pianificazione, tanto più qualsiasi
intervento sul sistema urbano dovrebbe
essere basato su più solide fondamenta
scientifiche e tecniche.
Queste considerazioni consigliano di
riflettere sulla fisionomia e sul ruolo
attuale delle discipline urbanistiche di
base nell’insegnamento universitario, e in
particolare della Tecnica urbanistica nelle
Facoltà d’Ingegneria.
Facendo quindi particolare riferimento alla
nostra disciplina, cerco di chiarire come, a
mio avviso, essa possa oggi ancora fornire
un apporto specifico, rilevante e
aggiornato, al governo dell’insediamento.
Preliminarmente ritengo opportuno che si
riconosca che noi uomini urbanizzati
siamo immersi in una realtà urbana e
territoriale, sedimentata dalla storia anche
recente, in cui solo in certe epoche, e in
certe occasioni, un piano ha avuto un ruolo
determinante, o addirittura c’è stato.
Questa realtà è il risultato della
stratificazione di eventi comunque
intervenuti e della metabolizzazione dei
prodotti di questi eventi, avvenute durante
il processo di sviluppo dell’insediamento.
Nella maggior parte dei casi, inoltre,
questa realtà è fortemente consolidata e
resistente ai cambiamenti imposti dal di
fuori.
Mi pare quindi importante, innanzitutto, che
gli addetti ai lavori si spoglino del
tipico atteggiamento dell’urbanista
docente e grande professionista, che spesso
ha l’aria di attribuirsi il ruolo di
rifondatore dell’insediamento, di
riformatore della pianificazione e della
normativa, e così via.
Personalmente ritengo che nella pratica
corrente e nell’insegnamento vada adottato
un atteggiamento più modesto e prudente,
partendo dalla considerazione che la realtà
urbano-territoriale:
- innanzitutto, va conosciuta e capita
in modo approfondito, in tutte le sue
manifestazioni, nella sua duplice essenza di
urbs e di civitas, di
insediamento e di società civile;
- va rispettata, difesa, governata per
quanto ha di valido, valorizzandone e non
depauperandone le valenze e le potenzialità;
- va innovata solo dove e quando occorra,
con capacità e strumenti appropriati17.
Tutto questo sembra semplice e ovvio, ma a
ben vedere non è quello che si fa nella
maggior parte dei casi, soprattutto a opera
di molti degli urbanisti di cui
sopra.
L’urbanistica di fronte alla città di oggi
Ai fini della definizione di quello che,
secondo il mio punto di vista, può essere il
ruolo attuale della Tecnica urbanistica, mi
sembra utile premette una interpretazione, o
meglio una schematizzazione della realtà
sulla quale l’urbanista è chiamato oggi a
operare, nella quale tutti i cittadini,
anche non tecnici e non urbanisti, sono
comunque coinvolti. Chiarisco che in questa
schematizzazione non vi è nulla di originale
se non, come si vedrà, la finalizzazione ad
alcune conclusioni pratiche.
Chiamo sinteticamente città
l’insediamento urbano-territoriale, e mi
riferisco alla situazione italiana, con un
occhio a quella europea, cioè ad un tipo di
civiltà urbana fortemente consolidato.
Interpretando ai nostri fini le consuete
classificazioni fornite dagli studiosi della
città, possiamo considerare l’insieme
urbano-territoriale scomposto in tre parti
(tre tipi di città) che in realtà
formano un sistema unico:
1. la città storica (in senso lato),
composta dai residui della città antica
(che comunemente chiamiamo centro storico)
e dalla città sviluppatasi, in più o meno
forte simbiosi con l’antica, a partire dal
momento in cui le autorità di governo delle
città hanno introdotto nuovi strumenti di
controllo messi a punto dopo la crisi
provocata dalla rivoluzione industriale
(questo è avvenuto nelle grandi città
europee tra la seconda metà dell’800 e i
primi decenni del ’900, ma in molti casi
molto più tardi e in forme attenuate,
soprattutto nelle città minori).
Questa città, quindi, comprende,
oltre ai centri o ai nuclei antichi, anche
le più auliche componenti della cosiddetta
città industriale moderna, in
particolare le sedi del terziario e i
quartieri più importanti realizzati in
questo periodo. Ne escludo per contro quello
che resta dei suburbi della prima espansione
industriale, generalmente sviluppatisi senza
regole e privi di qualità, e le zone
industriali propriamente dette; infatti mi
sembra più appropriato considerare ambedue
queste componenti parte del seguente secondo
tipo di città, in cui risultano oggi
inglobate;
2. la città moderna e contemporanea,
sviluppatasi generalmente nel periodo
centrale del ’900, con forte accentuazione,
in Italia, nei primi decenni dopo l’ultima
guerra. Essa è formata da tutte le zone
cosiddette semicentrali e periferiche
(comprese quelle che ho considerato prima
escluse dalla città 1, con il
relativo corredo di terziario delle varie
specialità e livelli e di attività
produttive. Questa città è caratterizzata in
prevalenza dalla contiguità e dalla
compattezza delle sue diverse parti, che
normalmente presentano differenziati gradi
di densità, di qualità, di consolidamento;
3. la città dispersa dei nostri giorni,
sviluppatasi prevalentemente negli ultimi
decenni, caratterizzata dalla proiezione sul
territorio sia di nuove polarità, sia di
residenzialità sparsa. Questa città è figlia
della rivoluzione dell’automobile, il
maggior sconvolgimento urbanistico (e non
solo urbanistico) dopo la rivoluzione
industriale. Essa, interagendo con le
città 1 e 2, materializza e
consolida la dimensione funzionale della
città-territorio.
A evitare equivoci derivanti dal significato
più o meno appropriato o condiviso di
termini afferenti alla lettura storica
(centro storico, città antica, storica,
moderna, industriale, contemporanea, e così
via) trovo più significativo identificare e
denominare questi tre tipi di città facendo
riferimento alla sfera socio-culturale
anziché a quella storico-urbanistica:
1. La città storica è la città
dell’immagine
Essa si imprime nella nostra memoria non
tanto di abitanti, quanto di cittadini che
vivono in qualsiasi parte del mondo,
attraverso i media, la letteratura,
il cinema, il turismo. Tutti ne possono
fruire, spesso gli abitanti stabili sono
minoritari rispetto agli altri frequentatori
e utilizzatori, per lavoro, per accesso ai
servizi, per visita o per soggiorno
temporaneo di qualsiasi durata. Non sempre è
caratterizzata prevalentemente dalla
permanenza della città antica: nelle
grandi città europee è piuttosto in gran
parte strutturata sulla base delle
trasformazioni urbanistiche dell’800 e del
primo ’900: ricordiamo Parigi, Londra,
Berlino, Madrid, Bruxelles, Vienna,
Barcellona (queste ultime, insieme a Parigi,
riferimenti basilari dell’urbanistica
ottocentesca) e così via; in Italia Milano,
Torino, e – sia pure in minor grado – le
stesse Roma, Napoli, Firenze e tante altre.
Ovviamente più sfaccettata e in parte
diversa è la situazione delle piccole città.
2. La città moderna e contemporanea è la
città compatta della vita associata
tradizionale
In essa la maggior parte dei cittadini
(ancora) abita, lavora, fruisce dei servizi
sociali, trascorre la parte prevalente del
proprio tempo quotidiano; questa è
generalmente la più rilevante delle tre
città per peso demografico ed
economico, se non per estensione. Per contro
essa è generalmente sconosciuta ai
visitatori esterni, che identificano la
città con la parte precedente (la città 1).
3. La città dei nostri giorni è la città
dispersa della vita individuale
Protagonista inanimata di questa città
è l’automobile18, che prima l’ha
generata diffondendo disordinatamente (l’urban
sprawl) residenze, sedi di attività e di
servizi, poi ha riversato il suo indotto
sulle altre due città, riportandovi
con frequenza pressoché giornaliera gli
abitanti o i lavoratori pendolari, che in
maggioranza non possono soddisfare tutte le
esigenze della loro vita produttiva e
sociale nella città dispersa. Si sono così
venuti a determinare i massimi problemi
della vita urbana contemporanea per quanto
riguarda la mobilità e la qualità
dell’ambiente.
Ovviamente le tre città 1, 2,
3 sono fortemente interrelate, e le
loro relazioni pongono molti problemi
all’intero insediamento (vale a dire alla
città nel suo complesso). Questi problemi
sollecitano altrettanti temi di studio e
campi d’intervento, di cui segnalo
sinteticamente alcuni dei più rilevanti:
- le polarità tradizionalmente
localizzate nelle città 1 e 2,
che nel loro insieme configurano la parte
compatta dell’intero insediamento,
attirano anche gli abitanti della città
dispersa 3, generando notevoli movimenti
pendolari i cui vettori e la cui dinamica
sono di difficile prevedibilità e controllo;
- per contro la presenza, nella città 3,
di nuove polarità esterne, nate nella
logica della diffusione, richiama sempre di
più anche i movimenti pendolari o saltuari
degli abitanti residenti nella città
compatta, che si dirigono verso i nuovi
centri di attività produttive e del
terziario amministrativo, le sedi della
grande distribuzione commerciale, del tempo
libero e tanti altri attrattori;
- l’abusivismo urbanistico (eufemisticamente
l’espansione spontanea) di marca
italiana, e più in generale lo sviluppo
incontrollato delle metro-megalopoli
mondiali, si sono sviluppati ai margini
della città di tipo 2 e sono dilagati
sulla 3;
- la città dispersa, che nelle zone
caratterizzate da un denso policentrismo
storico tende a saturare vaste porzioni di
territorio intorno ai vecchi centri, innalza
ad un livello di guardia le problematiche
della compromissione dell’ambiente storico e
naturale, e impone con particolare urgenza
l’adozione di idonee forme di tutela, la cui
tardiva o lacunosa attivazione genera danni
irreversibili.
Un ruolo specifico per la Tecnica
urbanistica
I tre tipi di città descritti
costituiscono il campo prevalente di
attività e di responsabilità dell’architetto
e dell’ingegnere, e in particolare
dell’urbanista.
Alla luce dei caratteri attuali di questi
tre tipi di città, e dei problemi
evidenziati, si possono più facilmente
definire, all’interno della galassia
urbanistica, quelli che io ritengo i
contenuti pregnanti di un corso urbanistico
di base e in particolare di Tecnica
urbanistica, al fine di fornire agli
operatori conoscenze e strumenti utili ad
agire con competenza, anche per singoli
aspetti, sulla città, lasciando agli
specialisti il presunto dominio del
campo complessivo della pianificazione.
A mio avviso è prioritario fornire:
a) i riferimenti definitori,
classificatori e metodologici della
geografia urbana e delle tecniche per il
controllo quantitativo e morfologico
dell’insediamento, fondamentali anche
solo per inquadrare i problemi delle tre
città;
b) i riferimenti storici, anche in
raccordo con i corsi specifici di storia
dell’architettura e dell’urbanistica,
indispensabili per qualsiasi valutazione o
azione rivolta alla città 1. In
particolare non può mancare una sufficiente
attenzione per le teorie e gli interventi
urbanistici dell’800 e della prima parte del
’900. Nell’attuazione dei piani
dell’urbanistica moderna, infatti, con
particolare riferimento alle principali
città europee, hanno trovato riscontro e
verifica le nuove teorie urbanistiche, si
sono sviluppate le tecniche d’ingegneria per
l’infrastrutturazione urbana moderna, sono
stati messi a punto nuovi modelli di disegno
urbano, in generale formalmente garbati e
dialoganti con quelli della città antica19,
anche se spesso realizzati, come è noto, a
spese dei tessuti preesistenti;
c) per quanto riguarda il versante della
pianificazione, ritengo che un corso di
Tecnica urbanistica debba fornire i basilari
strumenti tecnici d’intervento utilizzabili
dai laureati in ogni occasione della loro
attività anche individuale, compresa la
progettazione e la pianificazione delle
diverse componenti urbane, insediative e
infrastrutturali, alle differenti scale
dell’intervento sulla città e sul
territorio.
Dovrà pertanto far parte del bagaglio
disciplinare dell’urbanista tecnico la
conoscenza della struttura logica del
processo della pianificazione e dei
fondamentali tipi e livelli di piano
(possibilmente senza che cada troppo da
piccolo nel labirinto regionale),
proprio al fine di poter applicare
proficuamente la progettualità sopraddetta20.
Ritengo, per contro, che l’approfondimento
della gamma delle conoscenze occorrenti per
muoversi con sufficiente competenza e senso
critico all’interno della complessità del
campo disciplinare e interdisciplinare della
pianificazione non sia alla portata della
generalità dei laureati in Ingegneria
civile, edile (e a mio avviso anche in
Architettura), tenuto anche conto del fatto
che tutti loro possono avere orientamenti
formativi diversi da quelli finalizzati alla
formazione dell’urbanista pianificatore. Un
corso di base non potrà, sul versante della
pianificazione, andare oltre alcune
fondamentali linee d’inquadramento critico e
problematico21.
Ai fini della maturazione graduale dei
giovani laureati che intenderanno, o si
troveranno nelle circostanze di praticare,
nel corso della loro attività, l’urbanistica
ad un livello di responsabilità
professionale o amministrativa relativamente
elevato, la formazione specialistica e il
tirocinio – peraltro oggi previsto
dall’ordinamento professionale – faranno il
resto, come è avvenuto per tutti noi
pianificatori e docenti22.
Queste considerazioni propongono, a mio
avviso, un solo apparente ridimensionamento
del ruolo della Tecnica urbanistica.
Ritengo, infatti, che l’insegnamento di
questa debba fornire in modo
sufficientemente approfondito metodi e
strumenti per intervenire, con piani di
dettaglio e progetti urbani specifici, nel
momento in cui il piano generale, o più
probabilmente le occasioni fornite da
finanziamenti e/o interventi esterni, da
particolari fabbisogni locali, da accordi
programmatici e da idonee forme di
partenariato (oggi generalmente
sostenuti da un programma complesso),
creino la motivazione e l’esigenza per un
intervento.
Questa mia posizione rende opportuno
richiamare il ruolo della pianificazione
per progetti, che è stata caratterizzata
nella considerazione degli addetti ai lavori
da ricorrenti alti e bassi nel corso degli
anni recenti, intrecciandosi, sotto le
diverse forme e denominazioni dei piani (si
veda lo schema della galassia urbanistica)
con quella per obiettivi o,
semplicemente, con quella classica
omnicomprensiva. Sta di fatto che un
bilancio delle esperienze mostra, e più
ancora dimostra, che quasi nessuno dei
grandi interventi di attrezzatura o di
infrastruttura, che ha inciso e condizionano
in modo spesso pesante e determinante, nel
bene e nel male, le compagini urbane e
territoriali, è stato prefigurato da un
piano generale. Questo tipo d’interventi è,
infatti, quasi sempre al di fuori della
portata previsionale e gestionale di
un’amministrazione comunale anche
importante, tenuto conto dei limiti delle
sue competenze istituzionali e dei
condizionamenti economici, temporali,
politici cui la sua attività è soggetta23.
Solo la localizzazione, più che la
dimensione, dell’espansione residenziale (e
nella maggior parte dei casi neppure delle
trasformazioni urbane indotte dalle
dismissioni di grandi attività preesistenti)
è stata, e solo in parte, prefigurata dai
piani e dalle loro continue varianti.
Ma, a ben vedere, il vero problema non è
creato da questa inevitabile incompetenza
previsionale. Esso risiede piuttosto
nell’indisponibilità o nell’incapacità di
usare – da parte dei gestori
dell’urbanistica – procedure, strumenti e
strutture operative in grado di regolare, al
momento che esso matura, l’intervento prima
non prevedibile o non previsto, e il suo
inevitabile indotto urbanistico e
ambientale, mediante un progetto
idoneo ad assicurare un ordinato sviluppo
della città.
Il fornire questi strumenti e queste
competenze, mediante figure professionali
adeguatamente preparate, è a mio avviso il
principale compito che la Tecnica
urbanistica deve essere in grado di
assolvere in favore delle amministrazioni
pubbliche e degli operatori pubblici e
privati.
Alcuni dei principali settori d’intervento
Tra i numerosi settori d’intervento nei
quali la Tecnica Urbanistica può fornire il
suo apporto specifico nelle operazioni di
pianificazione e di progettazione urbana, ne
indico nel seguito alcuni la cui rilevanza e
urgenza è particolarmente evidente e che,
richiedendo particolari competenze, offrono
anche un ampio campo di applicazione
professionale, oggi a ben vedere poco
praticato. A tal fine occorre, a mio avviso,
che nelle sedi della formazione e della
professione si abbiano le carte in regola
per superare l’insensibilità e l’incultura
della committenza, soprattutto pubblica,
intorno a questi temi.
L’integrazione tra le localizzazioni
insediative e il sistema del trasporto
pubblico
Quello che genericamente viene chiamato il
problema del traffico, che
costituisce forse il principale motivo di
disagio della vita cittadina contemporanea e
di preoccupazione degli amministratori
comunali, è in realtà un problema di tecnica
urbanistica e di politica urbana che trae la
sua motivazione dalla cattiva o inesistente
sinergia tra le due componenti della
fisiologia urbana, le sedi fisiche adibite
alle diverse funzioni e i flussi di
relazioni tra queste, attraverso i relativi
convogliatori.
Come è noto, il tema del rapporto organico
tra la forma dell’insediamento e la
struttura del trasporto è alla base di
importanti teorie dell’urbanistica moderna e
di esemplari esperienza di urbanistica
contemporanea24.
Innanzitutto i piani urbanistici dovrebbero
far si che la sinergia sopraddetta sia
assicurata o mantenuta in ogni fase della
trasformazione urbana (si consideri che alle
origini storiche dei singoli insediamenti
essa è generalmente presente), e soprattutto
vada perseguita in ogni intervento
incrementativo o nuovo, a qualsiasi livello.
Essa deve riguardare tutti e tre i tipi di
città prima descritti, con particolare
riferimento alla città compatta 2.
Nel caso della città dispersa 3, il
suo perseguimento richiede l’applicazione di
accorgimenti di progettazione e di gestione
urbana che comportino, almeno, adeguati
livelli di controllo e di attenuazione del
traffico veicolare privato, peraltro
inevitabile in quel tipo di realtà.
Purtroppo nella dinamica recente della
maggior parte delle città italiane questa
esigenza è costantemente ignorata o
sottovalutata: basti guardare ai casi
concreti, al di là di slogan come i piani
del ferro25.
Per quanto riguarda la strumentazione
tecnica, piani urbanistici e piani
della mobilità dovrebbero sempre nascere
tra loro integrati, fin dalla pianificazione
generale (se questa è tempestiva e
aggiornata), e soprattutto l’attuazione
delle loro previsioni deve costituire
precondizione per la realizzazione di nuovi
insediamenti o per l’incremento di
insediamenti esistenti in un contesto già
sviluppato. Invece nella pratica nazionale
usuale sono ancora due operazioni separate,
e in particolare i piani della mobilità sono
costituiti da provvedimenti di polizia
urbana che cercano di fornire una toppa,
che in generale risulta mal riuscita, per i
problemi di traffico che rendono sempre più
invivibile la città esistente.
In questo campo la Tecnica urbanistica ha
dato fin dalle origini, e deve continuare a
dare, il suo apporto fondamentale e
insostituibile.
Alla scala della progettazione urbana
basterà ricordare, oltre ai riferimenti
classici citati nella nota 24, anche il
contributo fornito dai testi e manuali
d’epoca, e anche più recenti26,
che forniscono, se pur rapportati al loro
specifico tempo, le buone regole per
l’organizzazione e anche il disegno degli
spazi urbani, e l’idoneo inserimento dei
mezzi per la mobilità urbana ed extraurbana.
I testi suddetti forniscono le informazioni
dimensionali e grafiche occorrenti per
realizzare strade, piazze, larghi e,
in generale nodi e assi urbani
opportunamente organizzati, con marciapiedi
e aree pedonali, sistemazioni arboree,
separazione dei diversi tipi di traffico, in
particolare percorsi ben inseriti e protetti
dei tram, che costituivano in passato un
complemento indispensabile e amichevole
della vita dei cittadini. Su queste basi (ma
in realtà erano i manuali che, come è
giusto, recepivano e trasmettevano la
cultura e l’esperienza dei progettisti) sono
stati inseriti nei primi decenni del ’900 i
sistemi del trasporto pubblico e, in
particolare, linee tramviarie diffuse ed
efficienti a Roma, Milano, Torino, nelle
altre principali città d’Italia e – più o
meno contemporaneamente – di tutto il mondo.
Inoltre nelle nuove zone delle città i
tracciati venivano inseriti in molti casi
con attenzione non solo all’efficienza
funzionale, ma all’equilibrio rispetto al
disegno delle strade, delle piazze e anche
del costruito circostante. Lo testimoniano
esempi illustri27.
In pochi casi oggi quest’equilibrio tra
infrastruttura e costruito è stato
mantenuto, e solo di recente è stato
rivalutato e reintrodotto in forma più
generale, con molte difficoltà a causa della
perdita delle situazioni previste dai
progetti originari. Non mancano, per
fortuna, buoni esempi recenti.
Ma nella maggior parte dei casi, purtroppo,
il recupero della linea su ferro avviene
ficcando alla menopeggio le rotaie o,
talvolta uno dei cosiddetti sistemi
innovativi di mobilità, nella
disordinata città odierna. È pur sempre
meglio di niente.
Con riferimento all’equilibrio tra spazi
della mobilità, o più in generale di
relazione, e costruito, viene da pensare con
rimpianto al disegno “delle masse e delle
altezze dei fabbricati lungo le principali
vie e piazze” nel piano particolareggiato
previsto dalla legge urbanistica del 1942
tuttora, al momento che scrivo, felicemente
vigente. In realtà, oggi al massimo si fa un
planovolumetrico spargendo a piacere
la densità di edificazione, prevista
dalle norme urbanistiche mediante un numero.
È quella che mi piace definire l’urbanistica
digitale rispetto a quella
tradizionale, che per contro chiamo
analogica. Si rifletta su quale delle
due modalità abbia espresso, nelle diverse
fasi di costruzione della città, gli stimoli
forniti dal genius loci, e quale
l’omologazione a modelli generalizzati.
Negli anni ’60 fu coniato il termine
urbatettura come se fosse una grande
novità; in effetti era impropriamente
riferito a discutibili modelli di
fantaurbanistica.
Si può obiettare che la città contemporanea
non è più controllabile attraverso il
progetto della forma, dell’organizzazione
dei tessuti e del loro rapporto con
l’infrastruttura; che le periferie, la città
dispersa, l’insediamento territoriale, con
le loro nuove emergenze funzionali, pongono
problemi totalmente nuovi, non solo
urbanistici e architettonici, ma anche
sociali, economici e politici.
Si può essere d’accordo, ma questo non deve
costituire un alibi all’incapacità di
intervenire opportunamente nelle situazioni
in cui sarebbe necessario e possibile,
mettendo in gioco specifiche conoscenze e
capacità disciplinari tecniche, sia pure in
rapporto con le diverse competenze fornite
da altre figure di specialisti.
La gestione della mobilità pedonale
Da quando il traffico veicolare, soprattutto
automobilistico, la fa da padrone dentro e
fuori dalla città, il movimento a piedi ha
perduto la sua classica valenza di vettore
della fruizione urbana e in particolare di
mediatore tra i cittadini e le attrezzature
e, più in generale, le polarità urbane.
Si può parcheggiare dentro un centro
commerciale o direzionale, intorno e forse
sotto a una chiesa moderna, certo non si può
godere così della qualità dell’ambiente
urbano, soprattutto di quello antico, se non
in forma incompleta ed episodica, tra un
parcheggio (molte volte difficoltoso e
costoso) e l’altro. Purtroppo anche per chi
va a piedi questo godimento è reso
impossibile dalle auto degli altri: molte
città storiche, anche piccole e
medie, che potrebbero più facilmente
conservare la loro fisionomia a misura
d’uomo, sotto questo profilo sono da
evitare. Lo testimoniano le esperienze di
tutti noi turisti e studiosi.
È scontato che nella città contemporanea non
si possano risolvere, come in quella antica,
la maggior parte degli spostamenti con il
movimento a piedi.
Credo però si possa convenire che il
movimento locale pedonale dovrebbe essere
sempre facile e sicuro; che i percorsi
pedonali, relativi almeno alle porzioni
dell’insediamento aventi una specifica
identità e unità sotto il profilo abitativo
e funzionale, dovrebbero essere connessi in
un sistema continuo; che questo sistema
debba essere complementare rispetto al
sistema del trasporto pubblico e connesso ai
suoi nodi, anche attraverso il sistema del
verde e gli spazi di pertinenza delle
attrezzature urbane.
Invece oggi nelle città, e non solo in
quelle più grandi e disperse e nelle zone
maggiormente congestionate, i requisiti
sopraddetti, che dovrebbero essere
inderogabili ai fini della buona gestione
urbana, non sono affatto rispettati, anche a
causa dell’insipienza dei responsabili
tecnici e amministrativi, e anche per una
distorta tendenza politica alla tutela di
interessi precostituiti. L’invadenza del
traffico veicolare privato (sia il
movimento sia, soprattutto, la sosta),
l’assenza o il mancato rispetto di regole e
di sanzioni certe, la diseducazione, creano
a tutti gli abitanti, soprattutto ai più
deboli, mancanza di sicurezza, rischi
per la salute, disaffezione per la vita
cittadina.
Nella città compatta, a cavallo tra ’800 e
’900, il sistema della mobilità pedonale era
uno dei connotati salienti della vita
urbana: marciapiedi continui e per quanto
possibile ampi, percorsi alberati nei
boulevards, viali commerciali, portici,
passaggi coperti e gallerie urbane,
attraversamenti di alcune grandi
attrezzature (ad esempio, gli atri delle
stazioni) costituivano un sistema di
percorsi in alcuni casi di eccezionale
coerenza ed efficienza28.
Oggi, proprio quando ci sarebbe più bisogno
di un bilanciamento dei disagi creati dal
traffico veicolare, il sistema dei percorsi
pedonali preesistenti è stato, nella maggior
parte dei casi, compromesso e reso
inefficiente, spesso pericoloso, anziché
essere rafforzato e assunto come riferimento
da proiettare nella città da riqualificare.
In particolare la pedonalizzazione dei
centri storici, che per essi è
fisiologica, viene vissuta come evento
eccezionale e drammatico (in senso
teatrale), da realizzare, quando ce la si
fa, dopo battaglie, discussioni,
contestazioni, non come linea guida generale
e doverosa.
Spesso il problema consiste nella
confusione, da parte dei gestori
responsabili, tra competenze urbanistiche,
competenze tecniche settoriali,
amministrative, di polizia urbana.
Questo problema sollecita l’esigenza di
districare il difficile rapporto tra
programmazione e progettazione, attuazione e
gestione, in questo come in tutti gli altri
campi della vita urbana, richiamando anche
in questo caso un ruolo specifico della
Tecnica urbanistica29.
Il recupero delle zone degradate e la
riutilizzazione delle zone dismesse
Le zone urbane prive di qualità o degradate,
in particolare nelle periferie residenziali,
e le zone abbandonate per la perdita delle
precedenti funzioni, in particolare
produttive o trasportuali, interessano ampie
porzioni della città 2 e talvolta
parte della 1.
Esse costituiscono i grandi giacimenti per
il rinnovamento e la riqualificazione
urbana.
Sono anche uno dei campi in cui il progetto
urbano può dispiegare al massimo grado le
sue potenzialità.
Ritengo che generalmente non sia possibile,
a causa della rigidezza dei processi di
pianificazione nel confronto con la rapidità
e l’imprevedibilità della dinamica urbana, e
anche che probabilmente non sia
indispensabile, che un piano regolatore
generale (che in sostanza è un piano
strutturale o un piano direttore
di lunga gittata) preveda luoghi, tempi e
modi per interventi di questo tipo, se non
in forma estremamente generica, quindi
sostanzialmente platonica. Ma questo
non significa che, al momento che un
intervento di questo tipo si mette in moto
perché ne sono maturate le condizioni e le
opportunità, quasi sempre ad iniziativa di
operatori pubblici o, più spesso, privati
diversi dalle autorità comunali, queste si
debbano limitare a esigere le consuete
contropartite generalmente consistenti nella
corresponsione dei cosiddetti oneri di
urbanizzazione, rinunciando ad assicurarsi
che l’intervento apporti anche le migliori
condizioni di crescita della qualità urbana
all’intorno degli spazi interessati
dall’intervento, e non solo (e non sempre)
al suo interno.
Si pensi alle tante possibilità di
applicazioni di elevato livello, sia della
tecnica sia del disegno, che questi
interventi offrono per il miglioramento
della città, quando tanto i promotori quanto
i controllori delle suddette operazioni
siano in grado di mettere in gioco le idonee
competenze, in particolare nel campo della
Tecnica urbanistica e dell’Architettura.
Infatti, al di là dell’individuazione e
dell’articolazione delle destinazioni, che
normalmente sono alla base degli accordi tra
le parti in gioco sulla scena urbana, e che
in ultima analisi costituiscono il motore
economico e socio-urbanistico delle singole
operazioni di rinnovamento, notevole è il
ruolo che possono assumere idonee soluzioni:
- per la mobilità e l’accessibilità
veicolare, mediante il trasporto collettivo
e individuale;
- per l’innervamento pedonale, anche
mediante percorsi inseriti nel contesto
urbano circostante,
- per la promozione e la regolazione, sempre
nel contesto, del potenziale urbanistico
indotto dell’intervento per quanto attiene
la residenza, il commercio e le altre
attività;
- per la ricostituzione, o la costruzione ex
novo, di una nuova forma urbana nelle zone
che hanno perduta quella originaria, o non
ne hanno mai avuta una significativa.
È quello che si fa? Potrei fare un corposo
elenco di occasioni perdute a questo
riguardo.
Il tema delle aree urbane degradate e
abbandonate ne richiama un altro analogo che
si presenta non alla scala urbana, ma a
quella territoriale: il tema dei centri
storici minori, numerosissimi e in gran
parte in situazione di abbandono e di
fatiscenza. Essi costituiscono un altro
grande giacimento di risorse insediative e
culturali, da rimettere in gioco come valore
ambientale e sociale, e anche da valorizzare
sotto il profilo economico. Anche in questo
campo idonee competenze progettuali, non
solo tecniche, possono assolvere un ruolo
importante e trovare un adeguato spazio
professionale30.
La città, l’ambiente e l’energia
Il tema della tutela dell’ambiente
dalle diverse forme di aggressione provocate
dalla vita urbana contemporanea (consumo di
territorio, di acqua, di aria, di risorse
biologiche e, più in generale, naturali, di
valori culturali) è entrato con insistenza
tra gli aspetti messi in gioco dalla
pianificazione, e ha condotto spesso alla
proposta di soluzioni settoriali e
velleitarie.
Infatti, queste sono generalmente rivolte a
forme di protezione del cosiddetto
ecosistema, ad esempio attraverso
l’individuazione di cosiddetti corridoi e
reti ecologici, tanto per citare una delle
più abusate, di discutibile traduzione in
termini di assetto territoriale.
Per contro c’è un altro campo, riconducibile
alle tematiche ambientali, in cui la società
umana in generale, e in particolare i
gestori delle politiche urbane e gli
urbanisti, sono a tutt’oggi disattenti e
impreparati: quello dei danni provocati dal
consumo di energia.
Non vi è dubbio che la città moderna è una
grande divoratrice di energia, direttamente
per la mobilità, i consumi elettrici, i
trattamenti climatici degli edifici, e così
via; indirettamente per le produzioni
industriali che sostengono i consumi degli
abitanti.
Come è noto, la produzione di energia deriva
prevalentemente, nel caso dell’Italia più
che in altri paesi, dal consumo di
combustibile di origine fossile, da cui
conseguono sul piano locale danni immediati,
dovuti agli alti costi sostenuti e
all’inquinamento provocato, e a livello
globale danni trasferiti nel tempo, a causa
dell’esaurimento di risorse limitate e non
rinnovabili e della minaccia di variazioni
climatiche incombenti.
Per il contenimento di questi consumi si fa
(e per alcuni versi si può fare) ben poco
sotto il profilo urbanistico.
In particolare si agisce in modo troppo
timido nel campo della mobilità urbana, e in
particolare della mobilità automobilistica,
massima consumatrice di risorse e
produttrice delle più diverse forme
d’inquinamento. Invece è questo il campo che
appare il più praticabile sotto il profilo
urbanistico, e anche il più flessibile ai
fini di una politica di contenimento dei
consumi.
Ho già richiamato il più generale tema del
perseguimento di opportune forme di sinergia
tra localizzazioni insediative e sistema
della mobilità, come provvedimento atto a
minimizzare all’origine le esigenze di
mobilità e a ottimizzarne le modalità.
Ovviamente nel caso degli insediamenti
esistenti è possibile agire solo su
particolari aspetti del fenomeno. In
particolare nella città 3, la città
diffusa della vita individuale, sia il
ricorso generalizzato alla mobilità
automobilistica, sia le caratteristiche
prevalenti dell’edificazione dispersa ed
estensiva, provocano il massimo dispendio
pro-capite di energia, nei confronti delle
altre compagini urbane.
Per contro, paradossalmente, proprio in
queste zone che contribuiscono maggiormente
al consumo energetico si offrono, alle
competenze dei tecnici dell’ingegneria e
dell’urbanistica, le massime possibilità di
predisposizione di soluzioni energetiche
innovative, oggi ancora niente affatto
ricercate e applicate. In quest’ambito, per
quantità di spazi liberi disponibili, per i
minori condizionamenti che si pongono al
comportamento individuale nei diversi tipi
di costruzione, per assenza o per minore
presenza – anche se non sempre – di vincoli
ambientali e culturali, si presentano le
massime possibilità di studiare e di mettere
in atto sperimentazioni di contenimento dei
consumi e di realizzazioni di produzione di
energia da fonti rinnovabili, che potrebbero
avere anche importanti ricadute sui modi
della mobilità individuale.
In questo caso, più che di un campo di
attività maturo, si tratta di un campo di
ricerca ancora tutto da percorrere da parte
dei cultori di Tecnica urbanistica, in
collaborazione con quelli di Architettura e
di Ingegneria energetica. La predisposizione
di modelli ripetibili a scala territoriale
per la produzione di energia elettrica da
fonte solare ed eliotermica, e la
generalizzazione in forme più efficienti e
standardizzate di produzione di energia
termica dal sole, da proporre sia al sistema
produttivo che ai responsabili
dell’amministrazione del territorio, vanno
segnalate, a mio avviso, come un promettente
e forse in futuro indispensabile campo
d’intervento.
Quelli che ho indicato sono alcuni dei temi
relativamente ai quali i cultori della
Tecnica urbanistica, anche a fronte di
committenze più preparate e sensibili di
quelle attuali, ritengo possano trovare un
importante spazio di specializzazione e di
attività.
Una conclusione
Mi sia permesso di rivolgere ai giovani, e
in particolare agli studenti delle materie
urbanistiche, oltre che un saluto in
occasione del mio commiato dall’Università,
qualche consiglio onesto e affettuoso.
L’Università non può da sola, nel nostro
campo come in tutti gli altri, insegnare a
diventare importanti pianificatori, grandi
progettisti urbani e così via.
È vero, ci sono i master, le
specializzazioni, ma poi ci vogliono le
occasioni giuste, il tirocinio, la pratica,
il sugo di gomito. Per operare in concreto
occorre soprattutto una bella spinta dal
nostro interno, più che la classica
spintarella dal di fuori.
Analogamente l’Università non basta, sulla
sola base dei suoi percorsi istituzionali e
burocratici, a formare e promuovere veri
ricercatori, professori, baroni accademici e
così via.
Ci sono i dottorati, i
post-dottorati e quanto altro, ma poi ci
vogliono altre cose, nel bene e nel meno
bene.
Io sono stato studente d’Ingegneria (edile),
laureato in Tecnica urbanistica.
Come professore, al pari di tutti i colleghi
(illustri molto più di me) della mia
generazione e delle precedenti, sono un
autodidatta, vengo, come si dice, dalla
gavetta.
Mi sono occupato prevalentemente, nella
ricerca e nella professione, di
pianificazione territoriale e ambientale, di
centri storici, tutte cose che in realtà
avevo studiato poco o niente all’Università.
Quello che l’Università deve dare,
soprattutto in Ingegneria, è una solida base
culturale scientifica, buoni strumenti
tecnici, la capacità di costruire metodo e
di ampliare la propria conoscenza.
Questa capacità si può continuare a
sviluppare anche nella vita dopo la laurea,
se si sono acquisite le chiavi e le basi
culturali.
Senza di queste ogni specializzazione è
costruita sul vuoto.
La Tecnica urbanistica e l’Urbanistica non
fanno eccezione a questa logica.
Note
* La lezione è stata svolta il 7 aprile 2005
presso la Facoltà d’Ingegneria
dell’Università dell’Aquila. In questo testo
sono stati introdotti alcuni aggiustamenti e
le note.
1
È opportuno precisare che la mia trattazione
è dedicata al carattere e al ruolo che
ritengo competano alla Tecnica urbanistica
come disciplina di base, presente
generalmente in uno dei primi anni del corso
di laurea specialistica in Ingegneria
edile-architettura, seguita da uno o più
altri corsi di materie urbanistiche (o anche
come corso unico nei corsi di laurea in
Ingegneria civile). Non mi occuperò quindi
dei più complessi problemi che riguardano la
formazione dell’urbanista nelle
scuole d’Ingegneria e di Architettura, e
della sua collocazione nell’ordinamento
professionale, problemi che riguardano più
specificamente gli insegnamenti degli anni
successivi delle relative lauree
specialistiche.
2
Il significato di contenitore
disciplinare attribuito all’urbanistica
è ricorrente nelle voci enciclopediche
specialistiche, tra cui quelle ben note di
Luigi Piccinato e di Giovanni Astengo.
Ambedue richiamano più o meno letteralmente
la precedente definizione adottata da Pierre
Lavedan “le mot français urbanisme
est de beaucoup le plus comprensif; on peut
le définir ‘l’étude général des conditions
et des manifestations d’existence et de
développement des villes’. Il se rapporte à
un ensemble de disciplines variées, quoique
solidaires entre elles: historique,
géographique, sociologique, économique,
juridique, artistique”.
3
Mi riferisco in particolare all’insegnamento
delle discipline urbanistiche nei corsi di
laurea in Ingegneria e in Architettura,
mentre nei corsi di laurea in Urbanistica
gli spazi d’insegnamento consentono una
maggiore specializzazione degli
insegnamenti.
4
La riorganizzazione ministeriale
dell’ordinamento universitario operata dal
Dpr 12.4.1994, che nella nostra area ha
introdotto i due settori H14A
(tecnica e pianificazione urbanistica) e
H14B (urbanistica) e la specificazione delle
relative discipline d’insegnamento (settori
divenuti nel 2000 Icar 20 e Icar 21 senza
modificazione delle discipline previste). Se
pur motivata da una esigenza di
ridefinizione e di sfoltimento dei filoni
disciplinari che si erano venuti negli anni
precedenti a moltiplicare e a incrociare
nelle scuole di Architettura e d’Ingegneria,
questa classificazione non ha contribuito
certamente a fare chiarezza dal punto di
vista dell’appartenenza all’ambito
analitico-scientifico e a quello operativo,
distinzione che a me appare essenziale dal
punto di vista didattico. Nel mio piccolo,
per non avere al momento maturato e saputo
almeno esprimere posizioni diverse, confesso
di ritenermi un po’ corresponsabile di
questo pasticcio.
Basti ricordare che nell’Icar 20 sono
riunite le discipline analitiche (la
denominazione geografia urbana, di
per sé caratterizzante, viene soppressa), le
tecniche, le pianificazioni, in un coacervo
che contrasta anche totalmente con la
impropria ridefinizione dei contenuti
scientifico-disciplinari (senza
modificazione della collocazione delle
singole discipline) operata successivamente
dal Dpr 23.12.1999. Questo relega le
tecniche per gli strumenti di pianificazione
a tutte le scale in totale subordino ai
metodi di analisi e valutazione, e non
individua un ruolo ben definito per la
pianificazione come tale.
Forse è questa ripartizione ad alimentare
una certa forma di snobismo, se non
proprio di presa di distanza, nei confronti
della tecnica da parte dei cultori di
urbanistica e di pianificazione operanti
nelle Facoltà di Architettura. Si vedano, a
titolo di esempio, diverse parti
introduttive e in particolare il par 1.5
“Malafama della tecnica” del pur ottimo
testo di Patrizia Gabellino (2001),
Tecniche urbanistiche, Carocci, Milano,
che sembra quasi non considerare che la
Tecnica urbanistica (al singolare) ha una
sua riconoscibilità, anche storica, sia nel
processo di costruzione della città, sia
nell’insegnamento universitario.
5
Il recente riconoscimento, nell’ambito
nazionale ed europeo, del titolo
professionale di architetto conferito dalla
laurea in Ingegneria edile-architettura non
è quindi che una riaffermazione dell’unità
di un percorso formativo tradizionale
nell’esperienza italiana, caratterizzata dal
fatto che una gran parte dei cosiddetti
architetti dell’800 e dei primi decenni
del ’900, anche i più noti, sono laureati in
ingegneria.
6
Come fondatori indiscussi di ambedue le
scuole ricordiamo Gustavo Giovannoni a Roma,
(ingegnere, che ha però insegnato anche
Urbanistica nella neonata facoltà di
Architettura, dove il titolare della prima
cattedra di Urbanistica è stato Marcello
Piacentini) e Cesare Chiodi nel Politecnico
di Milano (titolare di Tecnica urbanistica
fin dall’introduzione della materia nel
1929). Non disponendo delle informazione
relative alla storia dell’ordinamento
universitario non sono in grado di precisare
collocazione e denominazione (Urbanistica o
Tecnica urbanistica) degli altri docenti
fondatori della disciplina, fino al primo
dopoguerra: G. Astengo e G. Rigotti a
Torino, L. Dodi a Milano, L. Piccinato a
Napoli, e poi tutti i Maestri della
generazione in cui ero studente.
7
Questa esigenza di ricomposizione del quadro
disciplinare è ben evidente nella lettura
dei testi a carattere universitario, mentre
la contemporanea manualistica si sviluppava,
anche con ricchezza di contenuti, sul
versante della realizzazione
dell’insediamento e dei suoi elementi.
Un’esauriente documentazione relativa ai
testi e ai manuali che hanno supportato lo
sviluppo delle discipline urbanistiche in
Italia è fornita da Gemma Belli (2004),
La costruzione del sapere
tecnico-urbanistico nel ’900 in Italia,
in urbIng - quadernetti per la didattica,
due, Università di Salerno.
8
Mi riferisco in particolare a coloro che ho
avuto come docenti a Roma o con cui ho avuto
rapporti di collaborazione in altre sedi:
Cesare Valle, mio professore di Tecnica
urbanistica, Federico Gorio, allora
assistente di Valle, che ha guidato la mia
formazione, Corrado Beguinot, Fernando
Clemente e altri, con cui ho lavorato e da
cui ho appreso durante la mia esperienza
universitaria.
9
A questo proposito ricordo l’Istituto di
ricerca urbanologica e di tecnica della
pianificazione fondato da Plinio Marconi
presso la Facoltà di Architettura di Roma, e
il tuttora vigente Dipartimento di
pianificazione e di scienza del territorio
istituito da Corrado Beguinot presso la
Facoltà d’Ingegneria di Napoli (docenti
ambedue ingegneri). In entrambi i casi la
denominazione delle strutture universitarie
ribadisce opportunamente la duplice
fisionomia del percorso disciplinare
fornito.
10
Come è noto la legislazione vigente prima
del 1942 prevedeva un unico livello di
piano, il piano regolatore (urbano), avente
sostanzialmente un carattere esecutivo.
L’ottima (per allora) legge urbanistica
1150/1942, tuttora felicemente vigente (di
cui G. Giovannoni fu tra i promotori, anche
per conto dell’Inu, entro cui era
probabilmente il personaggio di maggiore
spicco), aggiungeva a valle e a monte del
piano regolatore (che diventava generale
ed esteso alla scala territoriale comunale)
il piano particolareggiato esecutivo e il
piano territoriale di coordinamento,
precisando con chiarezza finalità, contenuti
e rapporti reciproci dei tre strumenti
urbanistici preposti al controllo della
dinamica urbana e territoriale.
11
I piani territoriali di coordinamento
non si sono messi concretamente in moto fino
a molto più tardi, ben dopo l’istituzione
delle regioni avvenuta nei primi anni ’70.
Di pianificazione ambientale,
all’epoca, neanche a parlarne.
Unica eccezione, sul versante dell’ambiente
culturale, è la timida e per molti anni
inattuata introduzione dei piani paesistici,
dovuta alla benemerita e, per l’epoca, molto
avanzata legge 1497/1939, anche della quale
G. Giovannoni fu tra i promotori.
12
Riferendomi alla mia personale esperienza,
ricordo che i segni di una crisi
disciplinare in atto mi sono apparsi
evidenti forse un po’ tardi, nella seconda
metà degli anni ’70, vivendo marginalmente
la vicenda urbanistica di Roma, con il
fallimento del velleitario Prg del ’65. Sul
versante disciplinare, analoga sensazione mi
era maturata dopo avere presentato agli
studenti di più anni successivi, con sempre
minore mia convinzione, il tanto decantato
(nel nostro ambiente), ma complicato e
soprattutto inattuato (e inattuabile) Prg di
Bergamo di quegli anni. Confesso che in
ambedue i casi il fatto che alcuni degli
indiscussi e già citati Maestri delle nostre
discipline fossero gli artefici di
questi piani fu uno dei motivi della mia
disillusione. Peraltro anche più di recente
altri successivi Maestri della disciplina si
sono cimentati in discutibili (dal punto di
vista dei risultati) invenzioni
pianificatorie.
13
Non è difficile trovare nomi. Ricordo in
particolare che, verso la fine degli anni
’70, durante una presentazione del Prg di
Roma presso il relativo ufficio del piano,
che avevo organizzato per un gruppo di
colleghi stranieri (del dipartimento di
planning dell’Università di Nottingham),
questi furono sfavorevolmente impressionati
dal fatto che l’impostazione strategica
del piano, fin da allora in crisi, derivasse
in buona sostanza dalla visione di un
grande Architetto.
14
È opportuno precisare che l’attributo della
complessità viene applicato a due
diversi aspetti della pianificazione. Il
primo, di carattere concettuale e forse un
po’ abusato, è quello già richiamato, che
sottolinea il numero e l’intrico delle
variabili coinvolte nella realtà insediativa
e nei processi di pianificazione. L’altro,
di carattere gestionale e in verità più
pragmatico, deriva dall’esigenza di
controllare le interazioni tra i diversi
oggetti e soggetti coinvolti nella
predisposizione e attuazione degli strumenti
d’intervento (i programmi complessi).
15
Dopo lunghi anni d’incertezza, in cui
provvedimenti nazionali toppa e
l’attività molto disuniforme delle regioni
hanno cercato di ovviare all’invecchiamento
della legislazione vigente, la nuova legge
urbanistica nazionale sembra in dirittura di
arrivo, tra molti contrasti. Peraltro il
previsto sdoppiamento dei contenuti del Prg
(ferma restando tutta la gamma dei livelli
di piano sovra e sottordinati) che
caratterizza la proposta, e che in alcune
regioni è già stato attivato in forme anche
innovative), non contribuirà certamente, a
mio avviso, all’auspicato snellimento delle
procedure.
16
Questa, che ho chiamato evasione, da parte
di alcuni Autori, soprattutto giovani, viene
reclamata come un’imprescindibile esigenza,
che dovrebbe permeare il quadro disciplinare
e operativo, superando l’obsoleto, a loro
avviso, strumentario tecnico (una buona
selezione, tra le tante, di queste
posizioni, espresse efficacemente e per
alcuni versi condivisibili, è contenuta in:
S. Losco (2004) (a cura di), Nuove forme
del piano e partecipazione, Quaderno n.
2 del DUN, Poseidon Editore, Napoli). Emerge
in modo quasi totalizzante l’istanza della
considerazione della componente sociologica
e della presenza del social planner
nel processo di formazione del piano
urbanistico. Ma è una novità? Questi
processi e questi specialisti sono da tempo
sedimentati nell’esperienza internazionale
più evoluta, ed io ritengo che questa
esigenza non vada perseguita in particolare
nella formazione urbanistica universitaria a
spese del patrimonio tecnico-scientifico,
anche a causa della commistione dei settori
disciplinari (si veda la nota 4).
17
Nella sequenza dei piani urbanistici, anche
in alcuni relativamente recenti, non mancano
previsioni spaziali o normative che
sembrano, e anche riescono, a forzare
la trasformazione di una realtà sedimentata
che probabilmente sarebbe meglio lasciare ad
una modesta dinamica controllata, se non
proprio disincentivata. Nell’illustrare ai
miei allievi le zone di trasformazione,
di ristrutturazione, di
riqualificazione e simili previste da
molti piani, io raccomandavo di cercare di
non comportarsi, nella loro futura
(eventuale) esperienza urbanistica, come il
boy scout che obbliga la
vecchietta ad attraversare la strada con il
suo aiuto, per fare la sua doverosa buona
azione quotidiana.
18
L’influenza del trasporto collettivo sulla
formazione di questo tipo di città è, almeno
in Italia, irrilevante rispetto a quella
dell’automobile; per convincersi basta fare
alcune verifiche su sezioni storiche di
determinate realtà. Le parti di città,
soprattutto estere, pianificate e sviluppate
sulla base di un forte impianto del
trasporto su ferro appartengono piuttosto a
quella che abbiamo individuato come la
città 2, anche se poi intorno ad esse si
è diffusa la città 3.
19
Non solo gli spazi tardo ottocenteschi e
primo novecenteschi più aulici e in gran
parte firmati delle capitali e delle
altre principali città europee, ma anche
quelli spesso poco conosciuti di infinite
città minori sono una miniera di
esempi di buon disegno moderno raccordato
con l’antico.
20
Per quanto riguarda la pianificazione
istituzionale, oggetto di incarichi o di
concorsi da parte delle amministrazioni
locali e regionali, ritengo che il bagaglio
conoscitivo fornito da un corso di base
debba essere sufficiente per la redazione di
piani nei contesti urbani medi e piccoli
(dei circa 8.000 comuni italiani, circa
6.000 non superano la dimensione di poche
migliaia di abitanti). Per questi ultimi le
problematiche di carattere territoriale e
ambientale di area vasta, anziché essere
rimesse in gioco ex novo in ogni
micro-elaborazione urbanistica e ad ogni
minima occasione, dovrebbero essere sempre
fornite da piani strutturali
territoriali (tali dovrebbero essere i Ptc
provinciali o subprovinciali, come avviene,
sia pure con diverse modalità, nei vari
sistemi europei), i quali sono elaborati con
idonee modalità e strutture operative.
21
Nell’elaborazione dei piani regolatori
generali più importanti e dei piani
territoriali e ambientali di area vasta
occorre infatti districarsi tra le
problematiche delle diverse forme dei piani
(strutturali, direttori,
ecc.), della pianificazione strategica,
delle pianificazioni separate, delle
diverse fasi partecipative,
partenariali, valutative,
decisionali che coinvolgono i differenti
soggetti e oggetti all’interno del processo
di pianificazione, e via dicendo.
Una più articolata formazione sarà
acquisita, dagli allievi orientati verso la
professione dell’urbanista-pianificatore,
attraverso una o più delle diverse possibili
modalità di indirizzo e di orientamento
pre-laurea e di specializzazione
post-laurea.
22
In particolare ritengo che non sia alla
scala dei contenuti di un corso di base
presumere di fornire la qualificazione
occorrente per partecipare, da protagonisti,
ai riti urbanistici delle grandi
amministrazioni e della grande professione.
Nella pratica reale della pianificazione le
competenze più qualificate sono
sempre fornite dalla presenza degli
specialisti di più o meno chiara fama cui
viene affidata, direttamente o come
consulenti delle amministrazioni, o come
coordinatori di gruppi di pianificazione, la
redazione dei piani regolatori di maggior
rilevanza e dei piani territoriali e
ambientali.
23
Con riferimento alle città importanti di cui
conosco abbastanza i piani, non sono in
grado di segnalare che pochi casi di grandi
interventi di portata strategica nel
campo delle grandi attrezzature e
infrastrutture, realizzati sulla base delle
previsioni originarie di un Prg, e non solo
inseriti nelle sue maglie e/o recepiti da
questo.
24
I riferimenti vanno dall’utopia della
città lineare di Arturo Soria y Mata,
parzialmente realizzata, come è noto,
nell’espansione di fine ’800 a Madrid, e
ispiratrice di tanti altri progetti,
realizzati e non, di Maestri
dell’Urbanistica del primo ’900 (Berlage per
Amsterdam, Le Corbusier per la città lineare
industriale ed altro, Miljutin per la città
sovietica Stalingrado), fino alle
realizzazioni mature della metà del ’900, in
cui la debolezza del modello lineare
semplice si rafforza in una rete integrata
di sistemi insediativi serviti dal ferro.
Esemplari – sempre illustrati nella mia
pratica didattica – sono il sistema
costituito da ferrovia metro e quartieri
satelliti a Stoccolma (anni ’50) alla scala
microterritoriale, e quello della grande
Parigi (metro express régional e
centri delle villes nouvelles, anni
’60) alla scala macroterritoriale.
Forse anche questi ultimi esempi possono
essere considerati oggi vecchi dal
punto di vista urbanistico, alla luce dei
successivi sviluppi della città territorio
anche in quelle realtà. Ma la differenza dai
casi italiani anche recenti è che, al
momento della realizzazione di quei nuovi
insediamenti, la sinergia tra localizzazione
insediativa e sistema del trasporto pubblico
era assicurata concretamente fin dalla
formazione del piano, e non ricercata a
posteriori, parzialmente, con difficoltà e a
costi paralizzanti.
25
Una considerazione elementare è che quando
anche uno solo dei due terminali di un
singolo spostamento pendolare non è
raggiungibile mediante un mezzo di trasporto
pubblico efficiente, il percorso di
collegamento, o una sua parte più o meno
rilevante, è necessariamente affidato al
movimento di un’automobile. Alla luce di
questa evidenza, si pensi non solo ai
problemi attuali, ma a quelli futuri della
maggior parte delle città italiane grandi e
piccole dove il territorio, tuttora
interessato da nuovi insediamenti,
continuerà a riversare il suo indotto di
congestione sulla città compatta.
26
Ricordo, segnalandoli familiarmente, come si
usa, con il cognome dell’autore, i ben noti
libri-manuali d’epoca e anche più
recenti (il Chiodi, il Dodi, il Valle del
vecchio manuale dell’Architetto e
altri, spesso di derivazione razionalista
germanica; il più recente di Piroddi per
Zanichelli).
27
Si vedano, a proposito del rapporto tra il
tram e la città, le sistemazioni del ring
di Vienna dei primi anni del ’900 disegnate
da Otto Wagner e da Camillo Sitte (queste
ultime non realizzate e anche poco
conosciute perché, benché in sintonia con il
suo pensiero, sono pressoché trascurate
nelle edizioni italiane della sua ben nota
opera l’arte di costruire le città);
lo studio di dettaglio delle vie e degli
incroci stradali di Cerdas a Barcellona, che
funzionano bene anche con il traffico di
oggi, anche se non ci sono più i tram.
28
A Torino i sistemi di portici e passaggi
pedonali realizzati dal ’600 al primo ’900
assicurano ancora oggi percorrenze in buona
parte protette e gradevoli, quasi continue
per chilometri, pur con numerose
manomissioni a vantaggio del traffico
veicolare.
29
A mio avviso, quanto più la pianificazione è
debole e carente, a causa delle difficoltà
dei relativi processi, tanto più la gestione
dell’esistente e del quotidiano nella città
deve essere basata su più forti competenze e
responsabilità anche tecniche.
Un approfondimento di questa posizione
suggerirebbe numerose linee di azione in
campo amministrativo e professionale, ma
naturalmente non è questa la sede per farlo.
30
Relativamente al tema del recupero dei
centri storici (minori) entrano in gioco in
maggior misura il ruolo della storia e della
interpretazione delle funzioni e degli spazi
originari, e quindi è importante l’apporto
degli altri specifici corsi d’insegnamento.
Questo argomento è trattato in: G. L. Rolli
(2004), Centri storici minori:
conoscenza, rappresentazione, recupero
urbanistico, Alinea, Firenze. |