Numero 12/13 - 2006

 

Mobilità e trasporti  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Le trasformazioni della mobilità obbligata. Evidenze statistiche, ragioni e politiche


Anna Moretti

Giorgio Graj


 

La mobilità sistematica casa-lavoro nel nord Italia e, in particolare, in Lombardia rappresenta un terzo di quella complessiva, come rilevato dall'Istat, che ne sottolinea il vistoso carattere evolutivo in contrasto con la staticità degli assetti infrastrutturali di riferimento. Anna Moretti e Giorgio Graj, partendo da un'analisi delle caratteristiche di autocontenimento degli spostamenti pendolari, individuano alcune questioni di fondo per una rinnovata e più efficiente politica della mobilità regionale

 CONSULTA TABELLE

 

Come è noto sul tema della mobilità esistono due livelli di studi, di ricerche, di politiche e di azioni, così come due Ministeri (due assessorati nelle grandi città) e anche due famiglie di dibattiti.

Da una parte studi, ricerche, politiche e azioni sulle infrastrutture fisiche di trasporto, ciò che poggia sul territorio (governate dal Ministero delle infrastrutture), cui corrisponde un livello di dibattito, e spesso di scontro, altissimo (condotto anche a livello nazionale) tra promotori a diverso titolo dei progetti ed enti e/o soggetti locali insediati nei territori interessati da tali progetti.

Dall’altra parte studi, ricerche, politiche e azioni su ciò che si muove sulle infrastrutture, vale a dire mezzi (pubblici e privati), merci, persone (governati, se così si può dire, perché trattasi soprattutto di comportamenti, dal Ministero dei trasporti) cui corrisponde un livello di dibattito con minore risonanza nazionale ma piuttosto minuto, quotidiano, diffuso nelle pagine locali della stampa, e complessivamente gravido di scontento (perché ciò che si muove, soprattutto sulle strade, genera per lo più rischi per la sicurezza, la salute e la qualità dello spazio urbano e ambientale).

C’è evidentemente una relazione tra questi due livelli, e il secondo si fa tradizionalmente discendere dal primo; qui proviamo a dire alcune cose sulle condizioni in cui si svolge una componente di tale secondo livello, la mobilità sistematica (o obbligata) dei lavoratori nel nord Italia e in particolare in Lombardia: tale mobilità, anche se rappresenta solo meno di un terzo dell’intera mobilità del territorio, è infatti l’unica che può essere trattata statisticamente, grazie ai risultati dei censimenti annuali dell’Istat sugli spostamenti casa-lavoro della popolazione attiva, e se pure tali risultati, ogni volta, arrivano con grave ritardo (circa cinque anni, cioè la meta dell’intervallo censuario, dunque disponibili da pochi mesi) rispetto al momento in cui sono stati rilevati.

È possibile osservare come tale mobilità cambi vistosamente nei decenni pur in un quadro infrastrutturale da molto tempo quasi immutato, come dunque si vada evolvendo in relazione più ai mutamenti socio-territoriali dei contesti fisici (il quadro insediativo e la distribuzione delle diverse attività) nonché delle più generali politiche di uso dei trasporti (accessibilità all’auto, organizzazione dei servizi di trasporto pubblico), che non a trasformazioni del sistema infrastrutturale che anzi spesso si trova oggi a dovere/volere pericolosamente rincorrere tale nuova domanda di mobilità.

Descriviamo qui le principali questioni che sono emerse da una analisi diacronica dei dati del pendolarismo, trattando ogni questione a partire da:

a) il quadro generale di riferimento lombardo, così come emerso da una analisi da noi svolta (e pubblicata su Territorio n. 35/2005) per 4 regioni del nord Italia, due sostanzialmente monocentriche, come il Piemonte e la Lombardia, e due tendenzialmente policentriche, come il Veneto e l’Emilia Romagna;

b) i dati relativi alle diverse province della Lombardia;

c) alcune rappresentazioni, a base comunale, dei fenomeni rilevati.

Le principali questioni che tratteremo riguardano:

- l’autocontenimento, e la diminuzione, ovunque, della capacità dei comuni di trattenere la propria popolazione attiva;

- l’attrattività dei capoluoghi di provincia, e le diverse dinamiche centrali e periferiche;

- i tempi e modi di trasporto e la riduzione del trasporto pubblico con l’aumento dei tempi di viaggio.

 

 

L’autocontenimento

 

Il quadro di riferimento

 

Malgrado il relativo rallentamento della crescita degli spostamenti pendolari extraurbani, che in Lombardia era stata nel decennio precedente del 26% e che ora tocca solo il 12% (dove tale valore è superato solo da quello delle regioni policentriche), rallentamento dovuto al fatto che nelle regioni monocentriche la popolazione attiva è cresciuta pochissimo, si osserva tuttavia che una ulteriore quota di essa continua a uscire dal proprio luogo di residenza per cercare lavoro, riducendo ulteriormente l’autocontenimento dei comuni.

 

I dati provinciali

 

L’autocontenimento, qui espresso come differenza tra la popolazione attiva di un ambito di riferimento e la popolazione in uscita da tale ambito, pesata sulla popolazione attiva, passa nella Regione Lombardia, per i tre decenni, dal 65%, al 58% e al 55%, pure in presenza di una popolazione attiva che, come si è detto, è rimasta pressoché immutata tra il 1991 e il 2001; decresce molto poco nella provincia forte di Milano, molto di più nelle province periferiche di Mantova, Cremona, Pavia, Brescia; i valori sono molto diversi, evidentemente, per l’insieme delle province della regione depurate dai capoluoghi (48,4% al 2001) e per la somma dei capoluoghi stessi (80,5%); nelle province senza i capoluoghi sono sopra alla media le province più periferiche, soprattutto Sondrio, ma ancora Mantova, Pavia, Cremona, Brescia, tradizionalmente caratterizzate da componenti territoriali montane e agricole, province che sono anche quelle che abbiamo detto vedere decrescere più rapidamente il loro autocontenimento a fronte del mutare delle loro attività prevalenti; i valori più bassi sono riscontrabili naturalmente nella fascia a nord di Milano, tra Como Varese e Bergamo, in province caratterizzate da una maggiore intensità di presenza territoriale di attività produttive. Tra i capoluoghi è invece sopra al dato medio solo Milano, mentre tutti gli altri capoluoghi di provincia risultano inferiori (è relativamente vicina alla media solo la città di Sondrio): ma per quanto riguarda Milano, la sua provincia, depurata dal capoluogo, risulta essere proprio l’ambito in cui è più basso, rispetto a tutta la regione, il valore dell’autocontenimento, pagando così tutta l’area metropolitana milanese il prezzo della immediata vicinanza e dunque della storica dipendenza dal capoluogo regionale.

 

La rappresentazione a base comunale

 

La rappresentazione dell’autocontenimento a base comunale (Figure 1 e 2) rende visibile il fenomeno prima descritto in modo aggregato, e soprattutto se lo si osserva alle due soglie 1991 e 2001. Le zone meno autocontenute sono evidentemente quelle intorno ai capoluoghi di provincia, che però non sempre emergono nettamente, ad esclusione di Milano (naturalmente), ma anche di Pavia, Cremona, Mantova, Brescia e Como, mentre appartengono ad una fascia di autocontenimento medio, nel 2001, capoluoghi come Bergamo, Varese e Lodi. Si presenta come poco autocontenuta tutta l’area metropolitana milanese, i cui confini di basso autocontenimento si ampliano molto passando dal 1991 al 2001 e con valori particolarmente deboli lungo le direttrici per Lodi e per Pavia; si riduce nell’arco dell’ultimo decennio anche il forte autocontenimento delle zone più marginali della regione, come l’Oltrepò mantovano e quello pavese, e in qualche misura anche la pianura bresciana e quella bergamasca; ma si riducono soprattutto alcuni ambiti che nel 1991 erano ancora visibili nell’area metropolitana milanese come zone di medio autocontenimento, quali l’asse Monza-Saronno verso Como, e la direttrice del Sempione verso Varese.

Figura 1 - Autocontenimento (popolazione attiva - flussi in uscita/popolazione attiva) dei comuni della Lombardia nel 1991

 

 

Figura 2 - Autocontenimento (popolazione attiva - flussi in uscita/popolazione attiva) dei comuni della Lombardia nel 2001

 

 

 

 

L’attrattività dei capoluoghi

 

Il quadro di riferimento

 

In tutto il nord Italia è possibile leggere l’accentuarsi di una dispersione territoriale degli spostamenti pendolari, secondo una tendenza ormai ben nota nelle sue cause e nei suoi effetti a livello territoriale (la diffusione insediativa), con una riduzione dell’incidenza degli spostamenti verso i capoluoghi di ogni regione, più rilevante per le regioni monocentriche; in Lombardia, ad esempio, l’incidenza delle entrate nel capoluogo milanese (rispetto al totale dei flussi in uscita) passa dal 22% del 1981, al 19% del 1991 fino a scendere al 13% del 2001, e questa riduzione vale per tutte le altre regioni, ma con un positivo corollario, per quanto riguarda almeno le regioni monocentriche: in particolare, in Lombardia (ma anche in Piemonte) sembra aumentare lievemente, e naturalmente sempre in percentuale, l’incidenza degli spostamenti verso tutti gli altri capoluoghi di provincia, quasi ad adombrare la formazione di una sorta di policentrismo regionale in cui assumono rilievo anche polarità tradizionalmente più deboli rispetto al capoluogo; va però sempre sottolineato che il dato della riduzione dell’incidenza percentuale su Milano è purtroppo riferito solo ai pendolari, infatti, ricordiamo, quasi nulla sappiamo di tutti i movimenti operativi che rendono le direttrici convergenti sul capoluogo sempre più congestionate di traffico quotidiano.

 

I dati provinciali

 

È possibile organizzare i dati che con i quali dare conto del grado di centralità dei capoluoghi provinciali della regione, secondo due modalità: o leggendo in che modo ogni provincia converge sul proprio capoluogo, oppure verificando quale è il contributo che ogni capoluogo provinciale riceve dai flussi provenienti da parte di tutta la regione. Secondo la prima modalità, nel 2001, tutti i capoluoghi lombardi, escluso Milano, ricevono dalla propria provincia contributi che vanno dal 18,5% di Bergamo (il più basso) al 30,8% di Mantova (il più alto), con Milano che riceve il 31% di contributi dalla propria provincia (come entrate in Milano provenienti dalla provincia, pesate su tutte le uscite dalla provincia stessa), sottolineando però che era il 39% nel 1991 e il 43,7% nel 1981, per cui il capoluogo riduce di molto la sua attrattività relativa; secondo la seconda modalità Milano raccoglie, come già detto, il 13,5% dei contributi da tutta la regione, ma tale valore, pure ridotto rispetto ai decenni precedenti, è pari alla somma dei contributi ricevuti, dall’ambito regionale, da tutte le altre province (dallo 0,3% di Sondrio, il più basso, al 2,5% di Brescia, il più alto), a sottolineare la centralità regionale del capoluogo milanese; ritorniamo però qui al fenomeno che avevamo segnalato più sopra: mentre l’attrattività relativa di Milano continua a diminuire, quella degli altri capoluoghi sembra invece crescere al 2001 (almeno secondo i dati che per primi sono comparsi sul sito dell’Istat relativo ai censimenti pendolari), dopo che tale attrattività si era ridotta tra il 1981 e il 1991, sia per quanto riguarda i contributi dalla propria provincia, sia per quelli provenienti da tutta la regione; i capoluoghi che vedono aumentare la loro attrattività locale sono soprattutto Pavia e Cremona, ben integrate nel loro territorio; i capoluoghi che vedono salire la percentuale di flussi di provenienza regionale sono invece Como (comprensiva di Lecco) e Varese, che pur partendo da valori relativamente bassi, confermano una tenuta della storica rilevanza del cosiddetto triangolo industriale milanese.

 

La rappresentazione a base comunale

 

La rappresentazione dell’andamento di quei flussi pendolari che escludono quelli che entrano ed escono da tutti i capoluoghi mostra in Lombardia (Figure 3 e 4) un significativo addensamento di relazioni dotate di proprio autosufficienza soprattutto nel nord milanese (è noto infatti che il sud milanese è molto più dipendente dal capoluogo, e con scarse relazioni intercomunali); questo fenomeno è visibile soprattutto intorno a Monza, lungo le principali radiali da Milano, che dunque si presentano anche come supporto di sostenuti scambi locali, e soprattutto lungo l’asse del Sempione che intercetta Legnano, Busto Arsizio, Gallarate, centri di media dimensione e di buona attrattività; ma molte relazioni trasversali sono leggibili anche nello spicchio del nord-est milanese, al di qua dell’Adda, fino a interessare tutto l’ambito lungo la tangenziale est di Milano. La comparazione tra la rappresentazione dei flussi, non orientati ai capoluoghi, alle due soglie del 1991 e del 2001, mostra in particolare il complessificarsi di tali relazioni, e la loro crescita soprattutto nell’est-milanese, lungo l’Adda Martesana, e nel nord-est, all’interno del Vimercatese e della Brianza orientale; rimangono invece pressoché immutati i flussi visibili (abbiamo scelto di rappresentare solo quelli superiori alle 100 unità) nel resto della regione, con presenza di reticoli significativi tra la bergamasca e il bresciano, perpendicolarmente all’asse dell’autostrada Milano-Venezia, e tra il bresciano e il mantovano, ambito particolarmente interconnesso.

Figura 3 - Spostamenti pendolari (superiori o uguali a 100), esclusi quelli da e per capoluoghi, nel 1991

 

 

Figura 4 - Spostamenti pendolari (superiori o uguali a 100), esclusi quelli da e per capoluoghi, nel 2001

 

 

 

 

Gli spostamenti nelle province per tempi e per modi di trasporto

 

Il quadro di riferimento

 

Anche in questo caso è possibile leggere in tutto il nord Italia lo stesso fenomeno: l’inarrestabile e progressiva emorragia nell’uso del mezzo pubblico, molto più forte, tra il 1991 e il 2001, di quanto non sia stata tra il 1981 e il 1991, e molto più rilevante nelle regioni monocentriche, come la Lombardia, che pure avevano sempre avuto il primato nell’uso di tale mezzo; la riduzione è sensibile in Lombardia soprattutto nella fascia sotto i 30 minuti di percorrenza (fascia che raccoglie ben il 70% di tutti gli spostamenti), e nella quale in Lombardia solo il 3,2% dei pendolari (e ancora meno nelle regioni policentriche) usa il mezzo pubblico (era il 15% nel 1981), mentre una qualche migliore tenuta vale per gli spostamenti, per altro meno numerosi, oltre i 30/60 minuti di tempo.

Va sottolineato inoltre un altro fenomeno, comune a tutte le regioni del nord Italia, vale a dire l’allungamento dei tempi di viaggio, ancora più visibile nelle regioni policentriche dove le occasioni si presentano più disperse: si tratta di un fenomeno nuovo, in controtendenza rispetto ai dati del decennio precedente, segnalato dalla riduzione, in termini percentuali, dei viaggi compiuti all’interno della fascia temporale più breve, quella tra 0 e 30 minuti: sostanzialmente i pendolari stanno dunque in viaggio più a lungo, anche se non sappiamo se questo dipende dal fatto che vanno più lontano, verso occasioni distribuite in un arco territoriale più ampio, oppure ci mettono semplicemente più tempo a coprire le stesse distanze, a causa della congestione stradale e/o della lentezza dei mezzi pubblici.

 

I dati provinciali

 

Abbiamo indagato anche per singole province quanti sono gli spostamenti sistematici svolti dai lavoratori con il mezzo pubblico (treni, tram, autobus), quanti con il mezzo privato (l’auto, come conducente o come passeggero, ma anche la moto), quanti con altre modalità (cioè effettuando spostamenti a piedi o con la bicicletta), ordinando poi queste informazioni per fasce orarie, sotto i 30 minuti, tra 30 e 60 minuti, oltre i 60 minuti, e ritrovando in tutte le province le linee di tendenza generali sopra richiamate, seppure con significative intensità diverse.

Circa l’uso del trasporto pubblico (circa il 10% del totale degli spostamenti, percentuale praticamente dimezzata ovunque rispetto al decennio precedente) è possibile identificare, nella realtà Lombarda, quattro gruppi di province con diverso comportamento: il primo gruppo, quello che presenta i maggiori valori di uso del trasporto pubblico (rispetto alla media percentuale di uso di tale mezzo) è costituito dalla Provincia di Milano, come era logico attendersi, e dalle province poste immediatamente a sud, cioè quelle di Lodi, di Pavia, dunque lungo direttrici, tra cui la via Emilia, ben servite da tale trasporto (direttrici lungo le quali abbiamo già visto disporsi i comuni in cui l’autocontenimento è più basso, e con meno relazioni trasversali, quindi fortemente dipendenti da Milano); il secondo gruppo è costituito dalle province pedemontane di Varese e di Como, e in qualche misura, per i tragitti più lunghi, anche di Lecco e di Cremona che evidentemente usano di più questa modalità per le percorrenza verso l’area centrale; il terzo gruppo è costituito dalle province di Bergamo e di Brescia, collocate in un’area caratterizzata da ampie relazioni trasversali di pendolarismo, mal servite dal trasporto pubblico, ma anche Sondrio, limitatamente però ai tragitti più brevi; l’ultimo gruppo, quello in cui l’incidenza dell’uso del trasporto pubblico è più bassa, è quello periferico della regione, rappresentato dalle Province di Mantova a sud e da quella di Sondrio a nord per quanto riguarda i tragitti più lunghi: sembrerebbe dunque che proprio le province più autocontenute siano quelle che usano di meno i mezzi pubblici.

Per quanto attiene al tempo impiegato per spostarsi, l’incidenza dei tempi più bassi, tra 0 e 30 minuti (che, abbiamo detto, è del 70% sul totale degli spostamenti, ma è percentualmente in calo ovunque), presenta valori simmetrici rispetto alle analisi precedenti: anche qui si possono osservare quattro gruppi di province, dove ancora c’è un primo gruppo formato da Milano, Lodi e Pavia, che in questo caso hanno però una incidenza di tempi brevi di percorrenza inferiore alla media, soprattutto per quanto attiene l’uso del trasporto pubblico, e sono dunque le province costrette a muoversi più lentamente o verso destinazioni più lontane (non a caso erano quelle che usavano di più, percentualmente, il trasporto pubblico); chi invece fa, percentualmente, tragitti più brevi, usando il mezzo pubblico, sono le Province di Brescia, Bergamo e Mantova, le stesse che anche usano meno tale modalità, e che evidentemente se ne servono solo per spostamenti intercomunali di breve gittata: ma queste province sono anche quelle in cui incidono di più i tragitti brevi svolti con l’auto, evidentemente per una configurazione e una distribuzione di attività più reticolare dei loro territori; impiega oltre i 60 minuti solo il 4,3% dei lombardi che vanno in auto, contro il 32% di quelli che usano i mezzi pubblici, che dunque presentano una discreta tenuta sulle lunghe distanze: ma si tratta complessivamente, per chi impiega oltre i 60 minuti di percorrenza, di una fascia che comprende solo il 7% dei pendolari, prevalentemente provenienti da Lodi, Pavia e Cremona, e sicuramente diretti a Milano.

Emergono ancora due notazioni significative delle attuali tendenze comportamentali nella scelta dei mezzi di trasporto, leggibili se si disaggregano ulteriormente le categorie pubblico e privato per le loro specifiche componenti modali: in Lombardia l’uso dell’autobus extraurbano è stato gravemente penalizzato, passando dal 12% del 1981 al quasi 5% del 1991, per scendere a meno del 2% nel 2001, almeno nella fascia da 0 a 30 minuti; cresce invece non solo l’uso, atteso, dell’auto come guidatore (mentre cala, purtroppo, quello come passeggero, a indicare una controtendenza rispetto alle speranze riposte in modalità di spostamento condiviso, quali il car pooling), ma cresce anche l’uso delle due ruote a motore, e soprattutto in Provincia di Milano, e soprattutto per tragitti brevi: era l’11% nel 1991 e diventa il 18% nel 2001, con quasi 100.000 persone su moto o motorini complessivamente in circolazione nella Provincia di Milano, contro le 35.000 che viaggiano sugli autobus intercomunali.

 

 

Le ragioni e le politiche

 

Tutti i fenomeni qui segnalati sono sicuramente correlati, e la loro dinamica dipende solo parzialmente dall’assetto infrastrutturale, mentre decisive sono state le trasformazioni economiche e insediative, con l’allontanamento dei luoghi di lavoro da quelli di residenza (ciò che riduce l’autocontenimento dei comuni), dovuto soprattutto al passaggio da una organizzazione del lavoro di tipo tayloristico, cui corrispondeva una storica organizzazione centripeta delle relazioni territoriali, e flussi convergenti lungo linee di forza radiali, a una configurazione di tipo post-tayloristico, con insediamenti diffusi e flussi di relazione orientati in direzioni molteplici, dovuti in parte al miglioramento delle infrastrutture di viabilità che favoriscono la dispersione dell’habitat, ma soprattutto a ragioni economiche e sociali da tempo indagate nella ricerca territoriale, la diffusione delle attività produttive, i costi di congestione delle aree centrali, il decentramento residenziale, per citarne solo alcuni (ciò che induce una riduzione percentuale dei flussi sui capoluoghi).

A questo punto si pongono alcune questioni di fondo:

- per la riduzione dell’autocontenimento: il fenomeno è quasi certamente tra le principali cause della congestione e del traffico stradale, ma è realistico pensare, e come, ad un arresto o comunque ad un raffreddamento di tale tendenza?

- per la dispersione territoriale dei flussi: mentre a Milano si arriva facilmente con le grandi radiali del trasporto pubblico di massa, quelle storicamente determinate da una struttura che vedeva la gran parte delle occasioni di lavoro localizzate nel centro, quali possibilità si offrono oggi ai nuovi spostamenti reticolari, che si muovono su percorsi generati da una estrema dispersione tra le sedi di residenza e quelle di lavoro, e quali alternative possono darsi all’uso dell’auto?

- per la diminuzione dell’uso del mezzo pubblico: se anche i pendolari, tradizionalmente i più propensi verso l’uso del mezzo pubblico, per cui godono di facilitazioni e di tariffe agevolate, tendono ad abbandonarlo, con quali misure sarà possibile incentivare l’utilizzo di tale modalità, per costruire una alternativa all’uso invece pervasivo e ormai insostenibile dell’auto? E si troveranno le risorse per tentare di catturare, se pure con modalità di trasporto innovative, le nuove direzioni che la mobilità sistematica sta assumendo, allontanandosi dalle linee di forza del territorio?

- per l’allungamento dei tempi di viaggio: se la mobilità si può misurare come il prodotto della popolazione attiva (pressoché stabile) per il numero di spostamenti giornalieri di ogni individuo (grandezza non comprimibile) per la lunghezza degli spostamenti, non è proprio l’allungamento di tali spostamenti a far aumentare la domanda di mobilità e a rappresentarne il principale fattore di crescita, e quindi la variabile da contenere? (sottolineando che è proprio l’aumento della domanda ciò che viene sempre utilizzato, a grande scala, come giustificazione per la proposizione di nuove infrastrutture di viabilità, spesso localmente contrastate).

Le strategie di risposta non possono evidentemente essere solo di tipo trasportistico/infrastrutturale (più infrastrutture, soprattutto stradali), ma devono intervenire all’origine della domanda di mobilità, agendo sui fenomeni che la generano, i luoghi di lavoro, di servizio e di residenza, e coordinando politiche territoriali e politiche infrastrutturali, così da tentare di ridurre se non l’entità sicuramente la lunghezza degli spostamenti. Schematizzando molto, questo potrebbe avvenire attraverso due modalità di intervento di scenario, una di scala sovralocale, l’altra più di livello locale.

La modalità sovralocale potrebbe essere quella, per altro sempre dichiarata, di localizzare le funzioni territoriali più attrattive nei nodi metropolitani del trasporto pubblico, così da godere dell’alta accessibilità che tale trasporto determina; quella più locale dovrebbe essere quella di favorire, a scala comunale, l’integrazione tra luoghi di lavoro e luoghi di residenza, evitando, soprattutto nei comuni di prima cintura, sviluppi immobiliari non correlati a iniziative orientate ad accrescere il mercato del lavoro all’interno di bacini locali, così da non aggravare ulteriormente la dipendenza dalle grandi città.

Solo contemporaneamente ad un mutato quadro degli ordini di grandezza dei modi e dei tempi di spostamento sarà poi possibile mettere positivamente in campo anche tutte quelle politiche, non di scenario, non a base territoriale, ma comportamentali e legate a modifiche di pratiche d’uso, quali il rafforzamento dell’uso del trasporto pubblico, la promozione della ciclabilità e di modalità condivise di trasporto con l’auto, i piani degli spostamenti casa-lavoro, la riorganizzazione dei tempi urbani, in grado di incidere ulteriormente sulla quantità e sulla qualità di tale mobilità.

 

 

Le immagini sono frutto di elaborazioni proprie degli autori.

 

 

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