La terminologia che indica oggi soggetti in situazioni di disagio è
mutata nel tempo: il termine handicap,
conclamazione manifesta di minorità, ha
lasciato il posto a diversamente abili,
nel modificarsi comunque del significante ma
non del significato. Tanto più che a
testimonianza di quella condizione di
disagio rimangono e permangono i problemi
legati all’agire quotidiano dei soggetti
interessati, primo fra tutti la loro mancata
possibilità di accesso a molti servizi e
luoghi della vita quotidiana. Così nel
presente articolo i termini handicap,
disabilità e diversamente abili sono
utilizzati tutti con lo stesso significato.
In
passato l’handicap era stato delegato
soprattutto alla cura della famiglia, che,
composta di numerosi membri, aveva la
possibilità, pur all’interno di
contraddizioni legate a realtà
territoriali, culturali, sociali diverse da
caso a caso, di occuparsi di malati,
anziani, disabili, minorati, insomma dei
soggetti deboli. In seguito tale compito è
passato alla medicina e all’assistenza,
pubblica e privata, organizzate in
associazioni ed enti ai quali erano affidati
gli individui con maggiori difficoltà.
Questo processo ha mostrato contraddizioni
sostanziali in quanto non sempre tale affido
ha corrisposto a una reale tutela di quei
soggetti: in moltissimi casi si sono
manifestate trasgressioni dei compiti di
tutela e si sono rivelati veri e propri
crudeli soprusi a carico di coloro che
maggiormente avevano bisogno di assistenza e
che venivano invece colpiti direttamente
nella loro persona e nei loro diritti.
Ora si possono anche considerare, con termine decisamente
approssimativo, le inadempienze o
inadeguatezze manifestatesi
nell’affrontare questioni relative alla
sicurezza dei vari ambienti e nel prevedere
le trasformazioni e l’aumento di quelle
patologie che sono alla base della presenza
dei soggetti disabili nella nostra società.
E tra esse si è evidenziata indubbiamente
una inadeguatezza dell’analisi contenuta
nei manuali di architettura che ancora oggi
si basano su vecchi standard per la
progettazione. In tali manuali si privilegia
l’uomo medio, cioè sano, e di altezza,
peso e facoltà neuromotorie medi: il che
conferma che non si considerano i dati
relativi all’aumento di pluripatologie
disabilitanti né quanto ne consegue per
l’adeguamento degli spazi pubblici e
privati.
I dati statistici relativi alle dimensioni dell’handicap in Italia
registrano 2.677.000 casi (il 5% della
popolazione residente): di questi, 1.028.000
maschi e 1.649.000 femmine, mentre circa
620.000 sono al di sotto dei 60 anni (Istat,
20011). Tali cifre divengono più
ampie se la categoria dei disabili viene
estesa - secondo la definizione data
dall’Istituto nazionale di statistica - a
soggetti:
- con deficit delle funzioni quotidiane: attività di cura della
persona come lavarsi, mangiare, vestirsi;
- con deficit della mobilità: camminare, chinarsi, salire e scendere
le scale;
- con deficit della comunicazione attività compromesse della vista,
della parola dell’udito.
Molti anziani, di conseguenza, sono ricompresi in questa
macro-categoria, anche se, è noto, la
senescenza non può essere considerata
sinonimo di disabilità.
Una disamina degli handicap più frequenti e una migliore conoscenza
delle eziologie e delle manifestazioni
(fattori peraltro indispensabili) non sono
attualmente sufficienti per programmare un
ambiente migliore per tutti. Programmare
ambienti vivibili, consentendo la mobilità
a tutti i diversamente abili, presuppone un
reale e integrale abbattimento delle
barriere architettoniche2, ma
anche di ogni atteggiamento che ostacoli
l’organizzazione di un sistema di vita
migliore (le barriere sono anche
psicologiche, politiche, organizzative).
Sostenere questo vuol dire peraltro avere presente che ormai da diversi
anni gli ostacoli che limitano il movimento
alle persone con handicap neuro-motori sono
diventati oggetto di intervento e
ri-pianificazione urbana da parte di
amministratori, associazioni culturali,
filantropi. L’Italia vanta rispetto a
questo una tra le legislazioni più avanzate
del mondo occidentale, seconda solo a quella
americana (cfr. American With Disabilities
Act), voluta da George Bush e, forse, alle
iniziative normative coordinate tra loro dei
paesi nordici (Svezia, Norvegia, Danimarca,
Finlandia). Inoltre, è alta nel nostro
paese la produzione scientifica relativa al
problema. Così come nel territorio
nazionale é in aumento costante il numero
di sportelli informa handicap e quello dei
convegni di sensibilizzazione e di
integrazione socio-sanitaria (legge
328/2000).
Allora come è presente la contraddizione che sottolineiamo?
Si provi per un istante a riflettere su cosa hanno rappresentato e cosa
dovrebbero rappresentare le normative di
seguito sinteticamente riportate in termini
di miglioramento della vivibilità e accesso
ai servizi per i soggetti diversamente
abili.
Art. 3 della Costituzione Italiana
“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine
economico e sociale che, limitando di fatto
la libertà e l’uguaglianza dei cittadini
impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di
tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del paese
...”.
C.M. (Lavori pubblici) 19 giugno 1968 n. 4809
Norme per assicurare l’utilizzazione degli edifici sociali da parte
dei minorati fisici per migliorare la
godibilità in generale.
Legge 30 marzo 1971 n. 118.
Conversione in legge del Dl 30 gennaio 1971 n. 5, e nuove norme in
favore dei mutilati ed invalidi civili.
Dm (Lavori pubblici e Pubblica istruzione) 18 dicembre 1975.
Norme tecniche aggiornate relative all’edilizia scolastica, ivi
compresi gli indici minimi di funzionalità
didattica, edilizia e urbanistica da
osservarsi nelle esecuzioni di opere
edilizie.
Dpr 27 aprile 1978 n. 3843.
Regolamento di attuazione dell’art. 27 della legge 30 marzo 1971 n.
118 a favore dei mutilati e invalidi civili
in materia di barriere architettoniche e
trasporti pubblici.
Legge 28 febbraio 1986 n. 41.
Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello
Stato (Legge finanziaria 1986).
Legge 9 gennaio 1989 n. 13.
Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione della
barriere architettoniche.
Dm (Lavori pubblici) 14 giugno 1989 n. 236.
Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità,
l’adattabilità e la visitabilità degli
edifici privati e di edilizia residenziale
pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini
del superamento e dell’eliminazione delle
barriere architettoniche.
C.M. (Lavori pubblici) 22 giugno 1989 n. 1669.
Circolare esplicativa della legge 9 gennaio 1989, n. 13.
Legge 9 gennaio 1989, n. 13.
“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle
barriere architettoniche negli edifici
privati”.
Legge 15 gennaio 1991 n. 15.
Norme intense a favorire la votazione degli elettori non deambulanti.
Legge 5 febbraio 1992 n. 104.
Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti
delle persone handicappate.
Il complesso di disposizioni ora elencato non lascia equivoci circa la
volontà del legislatore di determinare, in
modo integrale, il diritto alla mobilità
nella nostra società. Le barriere
architettoniche (scale, porte strette,
ascensori piccoli, marciapiedi) o gli
ostacoli all’uguaglianza che impediscono
alle persone con difficoltà motorie o
sensoriali di uscire di casa, andare a
scuola o al lavoro, attraversare gli spazi e
i tempi della socializzazione, sono già da
tempo oggetto di valutazione e intervento
istituzionali per cercare di eliminare
quegli impedimenti. Eppure questa
legislazione, nonostante i passi avanti
compiuti, trova ancora troppe difficoltà ad
essere applicata, e spesso la sua
applicazione determina anche contraddizioni.
Proviamo a fare qualche esempio.
In una grande città è stata istituita una linea con mini bus per
disabili, attrezzata per persone su sedie a
rotelle. La linea, sulla base di uno studio
che ha evidenziato i luoghi più frequentati
da soggetti con problematiche di
deambulazione, ha stabilito circa 40
fermate, tutte dotate di scivolo. Il
servizio così organizzato non è esente da
problemi: l’intervallo tra una corsa e
l’altra è di 80 minuti, condizione che
vincola le persone disabili a percorrere
alcuni luoghi/spazi in tempi prestabiliti e,
comunque, in una condizione evidentemente
non paritaria.
Altro esempio. In un grande magazzino di Milano (situazione comune allo
stesso magazzino di Roma), tra i servizi
igienici (bagni) per i clienti, si può
scegliere se andare al bagno per gli uomini,
per le donne, per gli handicappati.
Tralasciamo le questioni di carattere
socio-psicologico le quali sembrano dare
l’impressione che gli handicappati siano
asessuati. Nel bagno è stato eseguito tutto
nel rispetto della norma prevista dal Dpr
384/1978: maniglioni orizzontali, verticali,
obliqui, tazza del wc regolamentare; eppure
questi bagni per disabili (pure attrezzati)
finiscono per presentarsi come l’ennesima
forma per riconfermare una differenza, e
tutto sembra avere lo scopo di clinicizzare
l’individuo in qualsiasi spazio e in
qualsiasi momento. In altri termini ritorna
il tema del controllo, dello strutturare gli
spazi del soggetto che presenta difficoltà
di mobilità in relazione alla volontà di
affermare il proprio dominio (in questo caso
del progettista, ma più spesso dei clinici)
su coloro che necessitano di un intervento
per esperire la propria esistenza in spazi e
tempi diversi dalle proprie mura domestiche.
Ritorna, insomma, quanto Foucault
evidenziava in Sorvegliare e Punire (Foucault,
1976): c’è un esercizio volontario di chi
detiene il potere a non abbattere le
barriere della diversità, una volontà di
sancire e mantenere le difficoltà dal
diverso da noi come momento per la
costruzione di una propria identità.
Ancora un esempio: stazione di Salerno. Il sottopassaggio è stato
attrezzato con i montascale, per contenere
il problema dell’impossibilità di
installare un ascensore. Quel montascale,
che dovrebbe consentire al cittadino in
carrozzella una propria autonomia funzionale
nella mobilità in un luogo, non coincide,
come soluzione, con la sua ipotesi, perché
può funzionare solo tramite l’attivazione
di un pulsante azionato da una chiave
specifica (dunque, di volta in volta, è
necessario un ricorso ad altri).
Questo sistema di abbattimento delle barriere architettoniche non
abbatte le barriere della dipendenza del
soggetto diversamente abile dal soggetto
abile ed è utile richiamare l’esperienza
statunitense (portata ai suoi massimi
livelli in California), nella quale i
soggetti in carrozzina hanno un alto livello
di autonomia proprio sulla base di un
accesso autonomo e libero.
Un altro momento di osservazione è rappresentato dall’Università
degli Studi di Salerno, nella sua sede di
Fisciano. Il progettista dell’ateneo il
quale ha senz’altro per molti aspetti
considerato il superamento delle barriere
architettoniche, per altri non è stato
attento nello stesso modo. Si pensi ai
bagni: anche in questo caso si è creduto
che i disabili non abbiano esigenze
fisiologiche, non ci sono bagni idonei per
persone che hanno disabilità neuromotorie,
ma ad ogni modo anche gli spazi organizzati
per i bisogni fisiologici degli abili
non sono stati realizzati nel rispetto delle
norme ergonomiche. In questo caso per
garantire a tutti i soggetti pari opportunità
si è pensato di arrecare uguale svantaggio
anche a chi non ha problemi di
deambulazione. Peraltro non in tutti i
luoghi dell’ateneo è possibile un accesso
delle carrozzine, se non, in alcuni casi,
dietro percorsi tortuosi che moltiplicano le
difficoltà di chi le affronta comunque in
ogni momento della giornata. Sarebbe,
infatti, necessario che chi pensa alla
difficoltà che il diversamente abile
incontra nella sua esistenza ricordi che
l’incontro con la barriera architettonica
è solo il momento di crisi di una
quotidianità complessa in tutti i suoi
momenti.
Mi pare chiaro che alcuni errori sono evidenti a qualunque osservatore
attento e che non possono essere demonizzati
attribuendoli alla superficialità o alla
cattiva fede degli esecutori: essi sono
piuttosto radicati in motivi più profondi,
ossia nel modo in cui ci si avvicina al
problema. Probabilmente fretta, creazioni
estemporanee, scarsa conoscenza dei problemi
ma, soprattutto, una asimmetria tra un dover
essere un paese occidentale evoluto ed un
essere invece ancora legato a tradizioni di
vecchia sanità e di scarsa integrazione tra
discipline che afferiscono alla
progettazione, confermano quanto affermava
Spring: “È impossibile rendere piacevole
e accessibile l’edifico a intere categorie
di persone alle quali non si è pensato già
dalle prime fasi dell’ideazione”.
Nella Metafisica dei costumi Kant fonda l’uguaglianza innata
fra gli uomini, sulla indipendenza, per cui
“non possiamo essere costretti da altri a
nulla più di tutto ciò a cui possiamo
reciprocamente costringerli” (Kant, 1991,
44). Il che rimanda alla definizione della
persona come soggetto, le cui azioni sono
passibili di imputazione. A questo vogliamo
aggiungere che se, come afferma Sen (1994),
per avere una qualche plausibilità sociale,
una azione etica deve prescrivere una
considerazione uguale per tutti a qualsiasi
livello, centrare l’attenzione sui soli
mezzi come maniglioni, montascale, e
quant’altro per risolvere questioni molto
più considerevoli appare forse necessario
ma comunque limitativo. In effetti, la
scelta di uno spazio per l’uguaglianza
diverge da quella di un altro con tutte le
implicazioni che questo comporta rispetto al
riconoscimento di una pari cittadinanza per
tutti i soggetti dell’uguaglianza. In
altri termini, pur considerando costante
l’ideale dell’uguaglianza, esso si
applica a diversi spazi divergenti, talora
conflittuali, in quanto porre l’accento
sulle capacità abili e diversamente abili
in un sistema di pari opportunità pone dei
vincoli, per cui ad uguali opportunità non
equivalgono uguali libertà. Queste danno
maggiore rilevanza agli strumenti piuttosto
che all’estensione della libertà.
Dal momento che la società contemporanea ha subito mutamenti così
profondi da proiettare centrifugamente
l’individuo “ad una distanza sempre
maggiore dalle decisioni che lo
concernono” lasciandolo in “una
situazione di relativa impotenza”, si è
prodotta la sua trasformazione in oggetto di
una “grande inerzia”: l’obiettivo è
la ricerca dei “mezzi che consentano una
piena partecipazione a decisioni che lo
riguardano in modo così vitale” (AA.VV.,
1985).
Le enunciazioni del Ciam4 di Atene hanno chiarito, fin dal
1933, un concetto di urbanistica: [essa]
“per sua stessa natura di ordine
funzionale”, “sovrintende” alla
soddisfazione di “tre funzioni”
fondamentali:
“abitare...lavorare...ricrearsi”; e la
puntualizzazione di Piero Bottoni (1938)
illustra la specificità di una Carta,
quella di Atene, come “dottrina che si
occupa ... dell’organizzazione dei luoghi
... destinati all’abitazione, alla
produzione, alla distribuzione, alla fisicità
interagente della vita associata - dallo
“svago al riposo dell’uomo” - con i
circuiti delle “comunicazioni” e dei
“trasporti”, “nel modo più conforme
alla intrinseca funzionalità” ambientale
e alle “superiori necessità
collettive”.
Rispetto a questo le riflessioni di ricercatori quali Dhul e Jacobs
evidenziano il carattere traumatizzante e
limitativo di una pianificazione che ponga
l’individuo di fronte a fatti compiuti e
irreversibili, estraniandolo dal processo:
una ricomposizione ideale presupporrebbe la
“partecipazione degli interessati” alla
strutturazione degli spazi della loro città.
Proprio in questo contesto trova
collocazione il progetto città sane,
promosso dall’organizzazione mondiale
della sanità (Oms)5;
l’esigenza di pianificare città
sostenibili nasce, infatti, per applicare il
programma delle Nazioni unite “Salute per
tutti entro il 2000”. L’obiettivo è di
far crescere il livello di prevenzione e le
politiche sanitarie integrate, superando la
tradizionale separazione fra salute e
ambiente, igiene e programmazione
urbanistica. I piani devono riuscire a
coordinarsi perché l’inquinamento è
fonte di malessere e di malattie, e la
qualità della vita è strettamente
collegata alla storia sanitaria di ognuno di
noi e del suo territorio. Per questo uno
degli snodi del progetto, a livello
internazionale, è l’integrazione delle
politiche, sin dalla capacità di coordinare
le attività dei vari assessorati comunali
coinvolti. L’Oms, già dal 1978, con la
stesura della Carta di Ottawa6,
insiste infatti sullo strutturarsi di città
sostenibili e sul potenziamento di aree
verdi come spazi necessari dell’ambiente
urbano. Coltivare, infatti, la “civiltà
del giardino all’orizzonte” (Lévy,
1094) può essere presupposto per
l’individuazione di una diversa
interazione sociale volta alla comprensione
del nostro universo interiore, premessa per
aprirsi successivamente alla conoscenza
dell’altro.
I programmi di promozione della salute e di prevenzione delle malattie
e della disabilità7
rappresentano perciò elementi essenziali
della strategia dell’Oms per soddisfare il
mandato di tutela della salute degli
abitanti di un territorio. In questo un
ruolo primario é svolto in particolare
dagli enti locali, rispetto ai quali le
aziende sanitarie hanno funzioni di
proposta, supporto e consulenza tecnica,
secondo un modello simile a quello
realizzato nei programmi collegati al
movimento delle Città sane. Per
concorrere efficacemente al processo di
selezione dei rischi da affrontare
prioritariamente e di scelta delle azioni da
intraprendere per rimuoverli o controllarli,
le aziende sanitarie devono sviluppare
anzitutto adeguate capacità di analisi
epidemiologica, finalizzate alla sanità
pubblica, e di valutazione della efficacia
dei programmi di intervento legati alle
evidenze scientifiche. Il raggiungimento
degli obiettivi di promozione della salute e
di prevenzione delle malattie deriva,
infatti, dalle conoscenze e dalle competenze
tecniche disponibili, ma é condizionato
soprattutto dalla percezione, dai giudizi e
dai valori di tutti i soggetti che, a vario
titolo, fanno parte del problema. Occorre,
quindi, che il servizio sanitario, nel
promuovere la difesa della salute, faciliti
l’accesso all’informazione e crei le
condizioni, sviluppando le competenze
necessarie, per un efficace processo di
comunicazione del rischio tra tutti i
soggetti interessati.
Se alle riflessioni di ricercatori come Dhul, Jacobs e altri sopra
ricordati, i quali evidenziano la necessità
della “partecipazione degli interessati”
alla strutturazione degli spazi della loro
città, si aggiunge la volontà degli enti
locali che operano sui territori, ne
consegue l’esigenza di realizzare progetti
di interazione tra istituzioni e ambiente,
per il miglioramento dello stile di vita dei
cittadini diversamente abili, progetti già
sperimentati in alcune regioni.
Occorre garantire all’abitante-cittadino di (ri)appropriarsi dei
propri territori, vivendone gli spazi e i
luoghi.
Abbiamo coscienza che tutto questo non è facile da realizzarsi: ma si
può intanto auspicare l’implementazione
di modelli più o meno in grado di eliminare
barriere e disuguaglianze (nella mobilità)
e garantire una certa misura di equità.
Tali obiettivi possono essere raggiunti
attraverso l’istituzione di servizi di
prossimità8, un innalzamento
dello stato di salute psico-fisico, una
maggiore cultura nella promozione di uno
stile di vita più consono, e
un’informazione tempestiva (sin dalla loro
progettazione) che consenta il miglioramento
dell’accesso ai vari servizi.
Su queste premesse l’attenzione rivolta alle forme di urbanistica
partecipata non vuole essere
un’indicazione perseguibile per progettare
qualsiasi spazio, strategia destinata a
conclusioni standardizzate, foriere di
vecchi errori. Si vuole pensare, invece,
alla necessità di orientare, ove possibile,
una pianificazione sostenibile in grado di
garantire il miglioramento della qualità
della vita dell’individuo/abitante. Una
pianificazione urbanistica sensibile ai temi
della sostenibilità e della vivibilità di
un ambiente non può che considerare e
privilegiare le esigenze degli
abitanti-cittadini. Perciò l’azione degli
urbanisti deve sapere analizzare e
comprendere in profondità le varie forme di
disagio che si configurano per ciascun
abitante di un contesto nel quale non riesce
a trovare una propria collocazione,
presupposto di ogni dimensione esistenziale
dell’agire.
1 A partire da qualche anno lo stesso Istituto non quantizza più
numericamente i soggetti con disabilità:
tra le cause la mancanza di un osservatorio
permanente in grado di rilevare le diverse
forme di handicap.
2 Si evidenzia il termine integrale perché in molti casi ci si
trova di fronte ad aree nelle quali una
parte delle medesime viene progettata per
consentire la mobilità ai disabili mentre
altre restano loro precluse.
3 Principali disposizioni del Dpr 384/1978
Percorsi Pedonali (larghezza minima m. 1,50 - dislivello con il piano del terreno di cm
2,3 o massimo di cm. 1 - raccordi con il
livello stradale con rampe di uguale
larghezza pendenza non superiore al 15% -
pavimentazione antisdrucciolevole).
Parcheggi
(raccordi con i percorsi pedonali -
larghezza minima di m. 3, di cui m. 1,7
relativa all’auto e restante spazio per il
movimento dell’automobilista).
Accessi
(larghezza minima di m. 1,50 - zone
antistanti in piano e lunghe m. 1,50 - la
soglia, se indispensabile, non più alta di
cm. 2,5).
Piattaforma di Distribuzione (la superficie minima di mq. 6, con il lato minore non
inferiore a m. 2 e accessi con ascensori).
Scale
(gradini con altezza massima di cm. 6 -
parapetti ad altezza di m. 1 - corrimano ad
altezza cm. 90 - pavimentazione
antisdrucciolevole).
Rampe
(larghezza minima di m. 1,50 - pendenza
massima dell’8% - pavimentazione
antisdrucciolevole - ripiano di m. 1,50 di
lunghezza ogni m. 10 di sviluppo lineare).
Corridoi e Passaggi (larghezza minima di m. 1,50 - pavimentazione antisdrucciolevole).
Porte
(apertura minima di m. 1,50 - maniglia ad
altezza massima di cm. 90).
Locali Igienici (la tazza del Wc con altezza massima di cm. 50 - il lavabo con altezza
massima di cm. 80 - corrimani orizzontali
continui ad una altezza massima di cm. 80 e
distanti dalle pareti cm. 5).
Ascensori
(cabine con dimensioni di m. 1,50 di
lunghezza e m. 1,37 di larghezza - porta con
apertura di cm. 90 e a scorrimento
automatico).
Altre Disposizioni
La normativa vigente dispone:
- la precedenza agli invalidi nell’assegnazione di alloggi di
edilizia popolare situati a piano terra;
- l’eliminazione degli ostacoli negli edifici scolastici;
- la facilitazione della mobilità nei “servizi speciali di pubblica
utilità”: mezzi di trasporto, stazioni,
servizi di navigazione, aeroporti, servizi
per viaggiatori, telefoni, sale e luoghi di
riunione.
4 Il Ciam, congressi internazionali di architettura moderna, nel
1928 diventa l’organo di diffusione
dell’architettura progressista. Nel 1933
il gruppo dei Ciam propone una formulazione
dottrinale, la Carta di Atene, bene
comune degli urbanisti progressisti (Choay,
1965).
5
Esiste un manifesto delle città sane,
firmato finora da circa 400 città in tutto
il mondo: le amministrazioni si impegnano ad
aumentare la disponibilità di cibo e di
igiene, a controllare l’inquinamento
urbano, ma anche a strutturare azioni contro
l’emarginazione, l’esclusione e le
situazioni che portano in se stesse forti
componenti di rischio sociale e individuale.
6 È stata elaborata nella prima conferenza internazionale tenutasi in
Canada dal 17 al 21 novembre 1986. La carta
amplia il concetto di promozione della
salute definendolo come “… processo
che consente alla popolazione di controllare
e migliorare la salute …” negli
ambienti urbani.
7 Nel 1980 nella “Classificazione internazionale di malattia,
menomazione, disabilità e handicap”, l’Oms
definiva così la disabilità “…
limitazione o perdita delle capacità di
svolgere attività nel modo o nei limiti
considerati normali per un individuo”.
8 Disponibilità e utilizzo di una serie di servizi messi a disposizione
da enti tra loro diversi ma in rete (ad
esempio, pulmino con pedana per la mobilità
dei ragazzi disabili nel territorio).
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