Numero 5 - 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La fabbrica del sogno


Roberto Gerundo

 

 

 

Chissà se il rude Donnarumma avrebbe mai pensato, varcando quei cancelli nell’ovattata atmosfera dei primi anni’50, che mezzo secolo dopo sarebbe stato accostato ad Alice nel suo viaggio oltre lo specchio, nell’industria delle meraviglie.

Perché “lo stabilimento” era “sorto come un’officina, un reparto staccato degli stabilimenti centrali. Piuttosto che allargare, nel nord, con un nuovo edificio, la costruzione è stata trasportata nel Mezzogiorno. Non è un capannone: l’architetto ha progettato una delle più belle fabbriche d’Europa, colorata, circondata da un giardino; e intorno ad essa l’infermeria, la biblioteca, la mensa. Vi nasce un mondo unitario, caduto dall’alto nelle sue forme, ma per affondare nella terra e nello spirito di questo paese”1.

Un paese nel quale, di lì a breve, sarebbero sorti gli economici ma eleganti alloggi dei lavoratori, immersi nel verde e raffinatamente arredati dall’opus reticolatum, affiorante ovunque nei Campi flegrei.

Ma da dentro la fabbrica si poteva e doveva guardava fuori, già tanto tempo fa, come inconsciamente aveva proposto quell’anonimo fotografo, forse incuriosito dal solitario transito di un calesse, metafora dell’integrazione possibile fra tradizione e modernità.

Così fu all’Olivetti di Pozzuoli per quasi 40 anni, perseguendo l’innovazione di prodotto e di processo nei settori industriali in cui era tradizionalmente impegnata. Nell’ultimo decennio, a far data dal 1993, l’originario stabilimento, intatto nella sua architettura dal prestigio internazionale, è stato riconvertito nel primo parco tecnologico e scientifico della Campania e fra i primi del paese.

Dalle non più di 1.200 unità lavorative, occupate nel periodo di massima espansione del settore elettromeccanico, si è giunti agli attuali 3.000 addetti in settori innovativi della ricerca, della formazione, delle telecomunicazioni, dei servizi alle imprese.

Con ciò sfatando il diffuso convincimento che il passaggio dalle produzioni mature alle attività innovative sia sempre e solo foriero di compressione occupazionale.

Ma cosa sono state in grado di determinare quell’intuizione e quell’esperienza? E non solo nei termini di una sua individuale e proficua capacità di reggere la sfida del futuro, quanto nelle dinamiche economiche e territoriali che avrebbero pervaso l’intero paese ed, in particolare, il Mezzogiorno per i successivi cinquant’anni. Per arrivare dove? Per raggiungere quale risultato?

 

 

I divari economici e territoriali

 

Stime congiunte di autorevoli istituti, quali Svimez e Irpet (2003), sostengono che, contrariamente a quanto avvenuto nel 2002, il 2003 vedrà un incremento del Pil al sud dell’1% (0,6% nel 2002) contro l’1,3% del resto del paese (0,3% nel 2002) e inferiore all’1,2% del dato nazionale.

La tendenza alla riduzione del divario fra il Mezzogiorno e le restanti aree del paese si andrebbe così arrestando e le motivazioni starebbero nel sommarsi della debolezza congiunturale con l’effetto del blocco, formalmente temporaneo, subito da alcune importanti misure di politica economica, quali bonus per investimenti e per nuove assunzioni, considerate dagli economisti fra i meccanismi esogeni in grado di esercitare, nel breve periodo, un efficace effetto anticiclico.

In loro assenza, i differenziali di sviluppo tornano a dilatarsi ed il tasso di variazione del Pil ridiventa il più basso, sia se riferito all’intero paese, sia se raffrontato alle principali macroaree in cui è tradizionalmente articolato: centro, nord-ovest e nord-est.

Rispetto al nord-est, si registra, per altro, la divaricazione più consistente.

L’inversione di tendenza è confermata anche sul fronte occupazionale, il cui aumento nel 2003, sempre secondo Svimez-Irpet, dovrebbe essere contenuto in uno 0,5% (1,2% nel 2002), mentre al centro-nord gli occupati salirebbero dell’1,1%, in linea con l’annualità precedente (+1%).

In particolare, lo studio segnala che l’incremento occupazionale registrato nel 2002 è stato omogeneo con la media del periodo 1998-2001.

Fig. 1 - Olivetti. Ingresso (Pozzuoli, Na)

I motivi di ciò sono da individuare, principalmente, nella contestuale presenza delle nuove flessibilità del lavoro, introdotte dalla legge Treu, e del protrarsi di un ciclo di crescita economica che ha toccato il suo massimo nel biennio 2000-2001, con effetti di trascinamento sull’occupazione anche per il 2002.

Secondo Prometeia2, viceversa, il Mezzogiorno resta agganciato al resto dell’Italia sul fronte dello sviluppo economico e vede anche ampliarsi il reddito disponibile delle famiglie per effetto di un allargamento della base occupazionale. Previsioni, quindi, più ottimistiche per le regioni meridionali rispetto a quanto prospettato dalle stime di Svimez e Irpet.

Nel 2003, la crescita del Pil stimata da Prometeia per il Mezzogiorno è dell1,1%, superiore al dato nazionale, e, nel 2004, arriverà al 2%, in linea con le altre macro-aree del paese.

Gli investimenti in costruzioni (+2,7% e +1,9%, nel biennio 2003-2004, per il Mezzogiorno, oltre la media delle altre aree geografiche) risentono favorevolmente degli interventi in opere pubbliche previste dalla legge obiettivo, che proprio al sud dispiegherebbe la maggiore concentrazione.

Nel 2003, il mercato del lavoro sconta la scarsa crescita economica del 2002, motivo per il quale, nel biennio, il tasso di disoccupazione non riesce a discostarsi dal 9% del livello nazionale, ma continua ad assestarsi nelle regioni meridionali (dove però è pari al 18,2%), fino a scendere al 17,7% nel 2006. Analoga limatura nelle regioni del nord-ovest, dove scenderebbe lievemente dal 4,3 al 4,2%, mentre nel nord-est, dove l’indice del 3,4% è già molto basso, si prevede un leggero peggioramento, imputabile soprattutto al Veneto.

Dopo un 2002 deludente, la ripresa delle esportazioni si presenta piuttosto lenta nel 2003 (+2,3%). A far da traino è soprattutto il nord-ovest (+3,6%), mentre il Mezzogiorno rimarrebbe su tassi piuttosto bassi. Un effettivo miglioramento in tutte le macro-aree si avrebbe solo dal 2004 (+5,2%). Il Mezzogiorno, però, in assenza di mutamenti strutturali - come una maggiore competitività delle imprese o uno sviluppo della propensione verso mercati esteri - e di specifiche politiche di sostegno all’export, continuerebbe a restare ampiamente sotto la media nazionale.

Se la crescita, per quanto riguarda il Pil, coinvolge più o meno omogeneamente tutto il territorio, più marcati sono gli scostamenti sul versante del reddito disponibile. Attribuendo all’Italia un valore base pari a 100, nel sud si passa da quota 81, del 2002, a quota 83, nel 2006. Un miglioramento che Prometeia spiega con l’allargamento della base occupazione e il conseguente aumento dei redditi da lavoro. Tuttavia, nonostante il recupero e il leggero arretramento delle altre macro-aree, il divario resterebbe alto: nord-ovest, nord-est e centro si posizionano ampiamente oltre quota 100.

Secondo l’Unioncamere (2003), tuttavia, l’attenta analisi dell’economia reale del paese continua a mettere in evidenza differenze macroscopiche tra chi va bene e chi ancora stenta, denotandosi forti squilibri territoriali. Nell’export, tra le aree che hanno guadagnato terreno e quelle che sono arretrate, si evidenziano differenziali molto alti a livello regionale, che si accentuano maggiormente nella disaggregazione provinciale. Per l’Unioncamere si è in presenza di un sistema produttivo nel complesso sano e dinamico, al di là di alcuni aspetti congiunturali, anche se il quadro di insieme evidenzia un paese con sistemi economici molto articolati. Le produzioni viaggiano a ritmi diversi e le macchie del leopardo Italia sembrano accentuarsi di più, soprattutto se si prendono in esame, incrociandoli con le realtà locali, tre parametri: l’andamento economico generale, l’occupazione e le performance sui mercati esteri.

Fig. 2 - Olivetti. Spazi interni

Ma i differenziali più forti si registrano sul fronte dei mercati esteri, che rappresentano un indicatore molto significativo sia perché tende a misurare l’effettiva competitività del made in Italy, sia perché il settore risulta solo parzialmente contaminato dalle inefficienze interne, dovute, ad esempio, alla pubblica amministrazione. Tenendo conto che la crescita nazionale delle esportazioni si è fermata allo 0,3% in volume, l’incremento record è da attribuirsi alla Basilicata dove il distretto dei salotti si è mostrato il più dinamico. Seguono il Lazio (+8,9%) e l’Umbria (+8,2%). Bene anche Molise (+3,9%), Emilia Romagna (+3,7%), Abruzzo (+3%), Trentino Alto Adige (+2,5%), Marche (+2,1%), Veneto (+1,1), Calabria (+0,8%).

I dati negativi sono invece registrati in Liguria (-7,3%), Sardegna (-5,2%), Campania (-4%), Valle d’Aosta (-3,9%), Puglia (-2%), Toscana (-1,9%), Piemonte (-1,8%), Sicilia (-1,7%) e Lombardia (-1%) e Friuli Venezia Giulia (-0,6%).

È la Fondazione Edison (2003) a disaggregare il dato delle esportazioni a livello provinciale, molte delle quali caratterizzate dalla presenza di distretti e filiere produttive. Nonostante il calo del 2,8% dell’export italiano, 39 realtà hanno avuto un andamento in controtendenza, mentre 64 hanno accusato cali, a volte anche consistenti. Inoltre, delle 62 principali province esportatrici con vendite all’estero superiori a un miliardo di euro, ben 40 hanno avuto una diminuzione dell’export. La graduatoria delle prime venti province esportatrici non è cambiata rispetto al 2001: prima Milano, seguita da Torino, Vicenza, Bergamo e Treviso, avendo tutte subito diminuzioni delle esportazioni in valore.

Se si analizza, invece, l’export pro capite, la graduatoria vede prima in classifica Vicenza, una provincia forte dei distretti della concia delle pelli, dell’oreficeria, del tessile, della meccanica. Mezzogiorno e Campania non si affacciano minimamente nella suddetta graduatoria.

Nel settore delle infrastrutture, l’Italia insegue l’Europa nei confronti della quale ha un grosso ritardo. Ma all’interno dello stesso paese si registrano squilibri enormi, con punte elevate in territori, come ad esempio la Liguria, che hanno una dotazione tripla rispetto ad alcune regioni del Mezzogiorno. Ancora Unioncamere, nel suo rapporto sulle infrastrutture (2002), tenta di misurare, in base a una serie di indicatori quantitativi, le differenze tra le varie zone d’Italia. Il risultato è, ancora una volta, una mappa da cui emerge un’Italia a macchie di leopardo, con profonde differenze (Tabella 1).

È il centro Italia, contrariamente a ciò che si possa pensare, a risultare l’area maggiormente ricca di strade, ferrovie, network telefonici ed elettrici, ecc.

Come accennato, la Liguria è la regione con il maggiore indice di dotazione infrastrutturale, mentre il peggiore è attribuito alla Basilicata.

Anche se nella classifica delle dotazioni infrastrutturali il nord-ovest è l’area che, nell’ultimo decennio, ha fatto registrare il miglioramento più netto, la leadership assoluta spetta invece all’Italia centrale, mentre il nord-est si colloca al terzo posto. Quest’area riscontra un peggioramento rispetto alle precedenti rilevazioni, al pari del centro Italia, mentre il sud, pur registrando una sostanziale stabilità, si colloca comunque in ultima posizione.

Tramontata l’era della Cassa per il Mezzogiorno, sono state le politiche comunitarie a farsi carico degli interventi di riequilibrio territoriale, ma ciò non è bastato tanto che l’ampia rassegna di studi proposta continua ad evidenziare differenziali più che consistenti per il Mezzogiorno ed il resto del paese.

 

Tabella 1

 

 

Per continuare a beneficiare dei fondi strutturali destinati alle aree in ritardo di sviluppo, più note come obiettivo 1, le regioni del Mezzogiorno dovranno avere un Pil procapite, negli ultimi tre anni di riferimento, inferiore al 75% della media comunitaria. Se tale soglia verrà confermata è più che probabile che, con l’ingresso nell’Unione dei paesi dell’est, delle attuali regioni del sud, che per Agenda 2000 rientrano ancora nell’obiettivo 1, ne rimarranno solo quattro: Calabria, Campania, Puglia e Sicilia. Ne rimarrebbero escluse Basilicata e Sardegna (Tabella 2).

L’Italia, complessivamente, ha un reddito procapite del 101%, che, se scorporato, diventa 120% nel centro nord e 64% nel Mezzogiorno. I nuovi paesi della Ue allargata hanno attualmente un Pil di circa 30 punti inferiore a quello medio europeo.

Non è ancora chiaro se la probabile riduzione delle regioni che attualmente rientrano nell’Obiettivo 1 si tradurrà in una diminuzione delle risorse destinate complessivamente al Mezzogiorno o se, invece, lo stanziamento verrà ripartito su un territorio più ristretto. L’ultimo Qcs ha destinato circa 51 miliardi di euro al Mezzogiorno, tra risorse nazionali e fondi strutturali.

Se tale importo dovesse essere confermato, a beneficiarne saranno le 4 regioni che manterranno lo status di aree in ritardo di sviluppo, tenendo presente che dovrà anche essere, comunque, garantito il cosiddetto sostegno transitorio, onde evitare il verificarsi del cosiddetto rischio boomerang nelle regioni eventualmente uscite dall’obiettivo 1.

Buona parte del futuro della crescita del Mezzogiorno è, dunque, legata alle risorse a disposizione dei fondi strutturali a partire dal 2007. Poiché quasi tutte le regioni dei nuovi 10 Stati membri rientreranno nell’obiettivo 1, se non verrà aumentato lo stanziamento complessivo, a sopportare il peso dell’allargamento saranno proprio le regioni più deboli e povere dell’Ue.

 

 

Due scenari, un dibattito unitario

 

Se quelli su riportati sono i fondamentali dell’azienda Italia, questo inizio di decennio o, più enfaticamente, di millennio appare, quindi, pervaso da profonde incertezze, debolezze e rischi ma, al tempo stesso, venato da cauti ottimismi, tanto da fare dire a Cesare Romiti, autorevole esponente del capitalismo italiano della seconda metà del ‘900, che il Mezzogiorno deve utilizzare le sue risorse dormienti e puntare sempre più a uno sviluppo autonomo3.

La Campania e il Meridione dovrebbero guardare al modello Veneto e ad esso ispirarsi nella definizione delle loro strategie di sviluppo.

Un ottimismo basato, innanzi tutto, sulla straordinaria carica imprenditoriale della gente del sud, una carica assopita che dovrebbe essere adeguatamente risvegliata e diffusa, sostenuta da alcuni punti di forza quali la volontà di riscatto, l’orgoglio, la eccezionale creatività, da intrecciare ad un aggiustamento di mentalità che privilegi una maggiore propensione all’azione piuttosto che alle parole.

Finito il tempo dell’intervento straordinario, delle strategie globali per lo sviluppo calate dall’alto, i politici, gli imprenditori … i meridionali devono comprendere quanto lo sviluppo economico e territoriale sia intimamente legato all’autonomia delle iniziative, sempre meno attivabile in forza di programmi centralizzati. Le regioni del Mezzogiorno devono farsi promotrici di questa nuova filosofia del fare.

La Campania, come la Puglia, principalmente, insieme a tutte le altre regioni del Mezzogiorno possono guardare all’esempio del Veneto, la cui robustezza economica deriva dalla forte sintonia tra aziende e territorio: nel nord-est le imprese sono viste non solo come fonte di ricchezza e posti di lavoro ma anche come espressione di una comunità locale.

Nel mondo sviluppato è, tuttavia, in atto un processo di deindustrializzazione con lo spostamento delle attività produttive verso il comparto dei servizi, moderna forma della produzione immateriale. Romiti propone che il futuro del Mezzogiorno ed il suo decollo economico siano sostenute dalle attività manifatturiere che il resto dell’Italia non ha più possibilità di accrescere o non ritiene più convenienti da impiantare.

È questa una prospettiva lungimirante?

Per gli analisti del nord-est, l’economia veneta è ad un bivio.

Occorre passare da un modello quantitativo, a volte disordinato, ad uno qualitativo, ad alto valore aggiunto, più attento alla sua sostenibilità sia in termini di impatto ambientale sia di qualità della vita dei residenti.

 

Tabella 2

 

 

Per la Camera di commercio di Venezia, l’eco-sistema territoriale ha pesantemente pagato la crescita di questi anni. A dimostrazione di ciò, gli indicatori ambientali presenterebbero valori peggiori rispetto alla media nazionale. Una situazione che è aggravata dalla grave insufficienza di infrastrutture stradali e ferroviarie4.

C’è un futuro da costruire più sul medio che sul breve termine, con attenzione alla qualità, ma anche a un mercato del lavoro già in piena occupazione e sempre più avaro di manodopera corrente per problemi demografici ma anche per emancipazione delle popolazioni insediate.

A Napoli ed in Campania, si registra una sostenuta natalità e un dinamismo imprenditoriale, soprattutto giovanile, anche se la dimensione d’impresa è ancora troppo contenuta.

Prende le mosse dai suddetti fenomeni l’analisi dell’economia nel 2002, secondo la Camera di commercio di Napoli.

L’anno scorso nel napoletano si sono iscritte 19.686 nuove imprese, in lieve rialzo sul 2001 nonostante la crisi internazionale. Il saldo è positivo per 6.737 unità, pari a un tasso del 2.8% contro l’1.7% nazionale.

Il dinamismo dell’imprenditoria campana, rilevato anche dalle altre camere di commercio della regione, è provato anche dalla propensione a creare società da parte dei giovani: su 10 nuove aziende napoletane, sette fanno capo a imprenditori con meno di 35 anni. Nell’ultimo anno si registra anche una propensione delle piccole imprese locali a sviluppare accordi secondo il modello della struttura a rete.

Ma, come accennato, si deve fare i conti con il nanismo e la fragilità del tessuto imprenditoriale: il 96% del tessuto imprenditoriale della provincia è rappresentato da aziende con meno di 10 addetti e l’81% ha a carico un solo dipendente, al massimo due.

Quanto pesa questa condizione per il decollo dello sviluppo economico del territorio campano?

Secondo i teorici dei distretti industriali, le imprese italiane, come del resto le europee, nascono già con capacità competitive vicine a quelle dei leader di mercato con cui si confrontano.

Per sopravvivere non hanno tanto bisogno di crescere dimensionalmente, quanto di specializzarsi e posizionarsi meglio sul mercato.

Nel sistema italiano le buone idee imprenditoriali non sono trattenute e sfruttate da una sola impresa, ma si diffondono, automaticamente, nell’ambiente del distretto o della filiera, dando luogo a una forma alternativa alla crescita dimensionale concentrata, consistente nella proliferazione di nuove imprese efficienti.

Perché questo processo vada avanti e porti i suoi frutti in termini di produttività è necessario, da un lato, mantenere basse le barriere all’entrata e, dall’altro, aumentare, con investimenti in capitale intellettuale e relazionale, quella che gli economisti chiamano capacità di assorbimento delle conoscenze, usando al meglio il sapere dei potenziali fornitori e dei concorrenti.

In definitiva, anche in Italia e nel Mezzogiorno va bene crescere, ma equilibratamente, vale a dire sommando la limitata crescita dimensionale delle imprese alla maggiore crescita del numero delle imprese presenti nei sistemi locali e nelle filiere. Se il capitalismo italiano fa crescere le reti più velocemente delle aziende è perché sta esplorando una strada nuova ed originale (Rullani, 2002). In particolare, nelle aree già caratterizzate dalla presenza di distretti industriali e filiere di Pmi, la scarsità della manodopera disponibile e la saturazione del territorio, oltre al costo del lavoro, costituiscono fattori critici che sospingono le imprese a cercare altrove possibilità di crescita fisica. Sarebbe riduttivo, però, considerare la delocalizzazione esclusivamente in senso passivo, come risposta alle negative condizioni di base dei contesti locali.

Fig. 3 - Rione Olivetti

 

La possibilità di spostare alcune parti delle produzioni deriva da un insieme di motivazioni che danno risposta alle criticità dei fattori produttivi disponibili in loco e, soprattutto, all'opportunità di un nuovo posizionamento sui mercati internazionali. Più che delocalizzazione è necessario introdurre la categoria della nuova collocazione, creando grandi piattaforme industriali dotate di efficienti infrastrutture, materiali ed immateriali, in grado di collegarle con il quadro di comando, saldamente ancorato al nostro paese e da estendere sempre più al Mezzogiorno.

Nei settori maturi, dal mobile alle piastrelle, dal calzaturificio all'agroalimentare, dalla moda ai macchinari, in alcuni mercati esteri, si moltiplicano concorrenti che fanno leva su costi contenuti o si comportano come abili imitatori, minacciando la leadership italiana. Tale forma di concorrenza, però, può essere arginata. Per non perdere in competitività gli industriali italiani hanno immaginato di rifondare il distretto produttivo in modo rivoluzionario, trasferendo direttamente la sua capacità di penetrazione sui mercati finali. L'idea consiste nel riposizionare interi nuclei di filiere produttive complete, capaci di cogliere i vantaggi, anche logistici, di una collocazione vicina alla clientela finale. Riprodurre all'estero i distretti italiani, soprattutto nelle aree mediterranea e balcanica, costituirà una delle attività dell'imprenditoria italiana nei prossimi anni. Ma all'estero dovranno trovare ospitalità solo le produzioni di fascia medio-bassa, mentre la progettazione dovrà rimanere nel nostro paese.

Tra l’ottimismo per uno sviluppo economico possibile, ma tradizionale, e la scommessa sulle nuove frontiere dell’innovazione e delle reti di sinergie e complementarietà transimprenditoriale, si pone l’utilità di analisi e comparazioni fra realtà diverse, per aiutare quelle in ritardo di sviluppo, ma non solo. Scenari differenti, quasi alternativi, ma la necessità di un dibattito unitario per soluzioni di respiro europeo.

 

1 Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, 1959.

2 Scenari per le economie locali, 2003.

3 Da un discorso tenuto a Napoli il 28 marzo 2003.

4 Camera di commercio di Venezia, 2003.

 

 

1. Olivetti. Ingresso (Pozzuoli, Na)

2. Olivetti. Spazi interni

3. Rione Olivetti

 

 

 

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