Chissà se il rude Donnarumma avrebbe mai pensato, varcando quei
cancelli nell’ovattata atmosfera dei primi
anni’50, che mezzo secolo dopo sarebbe
stato accostato ad Alice nel suo viaggio
oltre lo specchio, nell’industria delle
meraviglie.
Perché “lo stabilimento” era “sorto come un’officina, un
reparto staccato degli stabilimenti
centrali. Piuttosto che allargare, nel nord,
con un nuovo edificio, la costruzione è
stata trasportata nel Mezzogiorno. Non è un
capannone: l’architetto ha progettato una
delle più belle fabbriche d’Europa,
colorata, circondata da un giardino; e
intorno ad essa l’infermeria, la
biblioteca, la mensa. Vi nasce un mondo
unitario, caduto dall’alto nelle sue
forme, ma per affondare nella terra e nello
spirito di questo paese”1.
Un paese nel quale, di lì a breve, sarebbero sorti gli economici ma
eleganti alloggi dei lavoratori, immersi nel
verde e raffinatamente arredati dall’opus
reticolatum, affiorante ovunque nei
Campi flegrei.
Ma da dentro la fabbrica si poteva e doveva guardava fuori, già tanto
tempo fa, come inconsciamente aveva proposto
quell’anonimo fotografo, forse incuriosito
dal solitario transito di un calesse,
metafora dell’integrazione possibile fra
tradizione e modernità.
Così fu all’Olivetti di Pozzuoli per quasi 40 anni, perseguendo
l’innovazione di prodotto e di processo
nei settori industriali in cui era
tradizionalmente impegnata. Nell’ultimo
decennio, a far data dal 1993,
l’originario stabilimento, intatto nella
sua architettura dal prestigio
internazionale, è stato riconvertito nel
primo parco tecnologico e scientifico della
Campania e fra i primi del paese.
Dalle non più di 1.200 unità lavorative, occupate nel periodo di
massima espansione del settore
elettromeccanico, si è giunti agli attuali
3.000 addetti in settori innovativi della
ricerca, della formazione, delle
telecomunicazioni, dei servizi alle imprese.
Con ciò sfatando il diffuso convincimento che il passaggio dalle
produzioni mature alle attività innovative
sia sempre e solo foriero di compressione
occupazionale.
Ma cosa sono state in grado di determinare quell’intuizione e
quell’esperienza? E non solo nei termini
di una sua individuale e proficua capacità
di reggere la sfida del futuro, quanto nelle
dinamiche economiche e territoriali che
avrebbero pervaso l’intero paese ed, in
particolare, il Mezzogiorno per i successivi
cinquant’anni. Per arrivare dove? Per
raggiungere quale risultato?
I divari economici e territoriali
Stime congiunte di autorevoli istituti, quali Svimez e Irpet (2003),
sostengono che, contrariamente a quanto
avvenuto nel 2002, il 2003 vedrà un
incremento del Pil al sud dell’1% (0,6%
nel 2002) contro l’1,3% del resto del
paese (0,3% nel 2002) e inferiore all’1,2%
del dato nazionale.
La tendenza alla riduzione del divario fra il Mezzogiorno e le restanti
aree del paese si andrebbe così arrestando
e le motivazioni starebbero nel sommarsi
della debolezza congiunturale con
l’effetto del blocco, formalmente
temporaneo, subito da alcune importanti
misure di politica economica, quali bonus
per investimenti e per nuove assunzioni,
considerate dagli economisti fra i
meccanismi esogeni in grado di esercitare,
nel breve periodo, un efficace effetto
anticiclico.
In loro assenza, i differenziali di sviluppo tornano a dilatarsi ed il
tasso di variazione del Pil ridiventa il più
basso, sia se riferito all’intero paese,
sia se raffrontato alle principali macroaree
in cui è tradizionalmente articolato:
centro, nord-ovest e nord-est.
Rispetto al nord-est, si registra, per altro, la divaricazione più
consistente.
L’inversione di tendenza è confermata anche sul fronte
occupazionale, il cui aumento nel 2003,
sempre secondo Svimez-Irpet, dovrebbe essere
contenuto in uno 0,5% (1,2% nel 2002),
mentre al centro-nord gli occupati
salirebbero dell’1,1%, in linea con
l’annualità precedente (+1%).
In particolare, lo studio segnala che l’incremento occupazionale
registrato nel 2002 è stato omogeneo con la
media del periodo 1998-2001.
|
Fig. 1 - Olivetti. Ingresso (Pozzuoli, Na) |
I motivi di ciò sono da individuare, principalmente, nella contestuale
presenza delle nuove flessibilità del
lavoro, introdotte dalla legge Treu,
e del protrarsi di un ciclo di crescita
economica che ha toccato il suo massimo nel
biennio 2000-2001, con effetti di
trascinamento sull’occupazione anche per
il 2002.
Secondo Prometeia2, viceversa, il Mezzogiorno resta
agganciato al resto dell’Italia sul fronte
dello sviluppo economico e vede anche
ampliarsi il reddito disponibile delle
famiglie per effetto di un allargamento
della base occupazionale. Previsioni,
quindi, più ottimistiche per le regioni
meridionali rispetto a quanto prospettato
dalle stime di Svimez e Irpet.
Nel 2003, la crescita del Pil stimata da Prometeia per il Mezzogiorno
è dell1,1%, superiore al dato nazionale, e,
nel 2004, arriverà al 2%, in linea con le
altre macro-aree del paese.
Gli investimenti in costruzioni (+2,7% e +1,9%, nel biennio 2003-2004,
per il Mezzogiorno, oltre la media delle
altre aree geografiche) risentono
favorevolmente degli interventi in opere
pubbliche previste dalla legge obiettivo,
che proprio al sud dispiegherebbe la
maggiore concentrazione.
Nel 2003, il mercato del lavoro sconta la scarsa crescita economica del
2002, motivo per il quale, nel biennio, il
tasso di disoccupazione non riesce a
discostarsi dal 9% del livello nazionale, ma
continua ad assestarsi nelle regioni
meridionali (dove però è pari al 18,2%),
fino a scendere al 17,7% nel 2006. Analoga
limatura nelle regioni del nord-ovest, dove
scenderebbe lievemente dal 4,3 al 4,2%,
mentre nel nord-est, dove l’indice del
3,4% è già molto basso, si prevede un
leggero peggioramento, imputabile
soprattutto al Veneto.
Dopo
un 2002 deludente, la ripresa delle
esportazioni si presenta piuttosto lenta nel
2003 (+2,3%). A far da traino è soprattutto
il nord-ovest (+3,6%), mentre il Mezzogiorno
rimarrebbe su tassi piuttosto bassi. Un
effettivo miglioramento in tutte le
macro-aree si avrebbe solo dal 2004 (+5,2%).
Il Mezzogiorno, però, in assenza di
mutamenti strutturali - come una maggiore
competitività delle imprese o uno sviluppo
della propensione verso mercati esteri - e
di specifiche politiche di sostegno
all’export, continuerebbe a restare
ampiamente sotto la media nazionale.
Se la crescita, per quanto riguarda il Pil, coinvolge più o meno
omogeneamente tutto il territorio, più
marcati sono gli scostamenti sul versante
del reddito disponibile. Attribuendo
all’Italia un valore base pari a 100, nel
sud si passa da quota 81, del 2002, a quota
83, nel 2006. Un miglioramento che Prometeia
spiega con l’allargamento della base
occupazione e il conseguente aumento dei
redditi da lavoro. Tuttavia, nonostante il recupero
e il leggero arretramento delle altre
macro-aree, il divario resterebbe alto:
nord-ovest, nord-est e centro si posizionano
ampiamente oltre quota 100.
Secondo l’Unioncamere (2003), tuttavia, l’attenta analisi
dell’economia reale del paese continua a
mettere in evidenza differenze macroscopiche
tra chi va bene e chi ancora stenta,
denotandosi forti squilibri territoriali.
Nell’export, tra le aree che hanno
guadagnato terreno e quelle che sono
arretrate, si evidenziano differenziali
molto alti a livello regionale, che si
accentuano maggiormente nella
disaggregazione provinciale. Per l’Unioncamere
si è in presenza di un sistema produttivo
nel complesso sano e dinamico, al di là di
alcuni aspetti congiunturali, anche se il
quadro di insieme evidenzia un paese con
sistemi economici molto articolati. Le
produzioni viaggiano a ritmi diversi e le
macchie del leopardo Italia sembrano
accentuarsi di più, soprattutto se si
prendono in esame, incrociandoli con le
realtà locali, tre parametri: l’andamento
economico generale, l’occupazione e le
performance sui mercati esteri.
|
Fig. 2 - Olivetti. Spazi interni |
Ma i differenziali più forti si registrano sul fronte dei mercati
esteri, che rappresentano un indicatore
molto significativo sia perché tende a
misurare l’effettiva competitività del made
in Italy, sia perché il settore risulta
solo parzialmente contaminato dalle
inefficienze interne, dovute, ad esempio,
alla pubblica amministrazione. Tenendo conto
che la crescita nazionale delle esportazioni
si è fermata allo 0,3% in volume,
l’incremento record è da attribuirsi alla
Basilicata dove il distretto dei salotti si
è mostrato il più dinamico. Seguono il
Lazio (+8,9%) e l’Umbria (+8,2%). Bene
anche Molise (+3,9%), Emilia Romagna
(+3,7%), Abruzzo (+3%), Trentino Alto Adige
(+2,5%), Marche (+2,1%), Veneto (+1,1),
Calabria (+0,8%).
I dati negativi sono invece registrati in Liguria (-7,3%), Sardegna
(-5,2%), Campania (-4%), Valle d’Aosta
(-3,9%), Puglia (-2%), Toscana (-1,9%),
Piemonte (-1,8%), Sicilia (-1,7%) e
Lombardia (-1%) e Friuli Venezia Giulia
(-0,6%).
È la Fondazione Edison (2003) a disaggregare il dato delle
esportazioni a livello provinciale, molte
delle quali caratterizzate dalla presenza di
distretti e filiere produttive. Nonostante
il calo del 2,8% dell’export italiano, 39
realtà hanno avuto un andamento in
controtendenza, mentre 64 hanno accusato
cali, a volte anche consistenti. Inoltre,
delle 62 principali province esportatrici
con vendite all’estero superiori a un
miliardo di euro, ben 40 hanno avuto una
diminuzione dell’export. La graduatoria
delle prime venti province esportatrici non
è cambiata rispetto al 2001: prima Milano,
seguita da Torino, Vicenza, Bergamo e
Treviso, avendo tutte subito diminuzioni
delle esportazioni in valore.
Se si analizza, invece, l’export pro capite, la graduatoria vede
prima in classifica Vicenza, una provincia
forte dei distretti della concia delle
pelli, dell’oreficeria, del tessile, della
meccanica. Mezzogiorno e Campania non si
affacciano minimamente nella suddetta
graduatoria.
Nel settore delle infrastrutture, l’Italia insegue l’Europa nei
confronti della quale ha un grosso ritardo.
Ma all’interno dello stesso paese si
registrano squilibri enormi, con punte
elevate in territori, come ad esempio la
Liguria, che hanno una dotazione tripla
rispetto ad alcune regioni del Mezzogiorno.
Ancora Unioncamere, nel suo rapporto sulle
infrastrutture (2002), tenta di misurare, in
base a una serie di indicatori quantitativi,
le differenze tra le varie zone d’Italia.
Il risultato è, ancora una volta, una mappa
da cui emerge un’Italia a macchie di
leopardo, con profonde differenze (Tabella
1).
È il centro Italia, contrariamente a ciò che si possa pensare, a
risultare l’area maggiormente ricca di
strade, ferrovie, network telefonici ed
elettrici, ecc.
Come accennato, la Liguria è la regione con il maggiore indice di
dotazione infrastrutturale, mentre il
peggiore è attribuito alla Basilicata.
Anche se nella classifica delle dotazioni infrastrutturali il
nord-ovest è l’area che, nell’ultimo
decennio, ha fatto registrare il
miglioramento più netto, la leadership
assoluta spetta invece all’Italia
centrale, mentre il nord-est si colloca al
terzo posto. Quest’area riscontra un
peggioramento rispetto alle precedenti
rilevazioni, al pari del centro Italia,
mentre il sud, pur registrando una
sostanziale stabilità, si colloca comunque
in ultima posizione.
Tramontata l’era della Cassa per il Mezzogiorno, sono state le
politiche comunitarie a farsi carico degli
interventi di riequilibrio territoriale, ma
ciò non è bastato tanto che l’ampia
rassegna di studi proposta continua ad
evidenziare differenziali più che
consistenti per il Mezzogiorno ed il resto
del paese.
Per continuare a beneficiare dei fondi strutturali destinati alle aree
in ritardo di sviluppo, più note come obiettivo
1, le regioni del Mezzogiorno dovranno avere
un Pil procapite, negli ultimi tre anni di
riferimento, inferiore al 75% della media
comunitaria. Se tale soglia verrà confermata è
più che probabile che, con l’ingresso
nell’Unione dei paesi dell’est, delle
attuali regioni del sud, che per Agenda 2000
rientrano ancora nell’obiettivo 1, ne
rimarranno solo quattro: Calabria, Campania,
Puglia e Sicilia. Ne rimarrebbero escluse
Basilicata e Sardegna (Tabella 2).
L’Italia, complessivamente, ha un reddito procapite del 101%, che, se
scorporato, diventa 120% nel centro nord e 64%
nel Mezzogiorno. I nuovi paesi della Ue
allargata hanno attualmente un Pil di circa 30
punti inferiore a quello medio europeo.
Non è ancora chiaro se la probabile riduzione delle regioni che
attualmente rientrano nell’Obiettivo 1 si
tradurrà in una diminuzione delle risorse
destinate complessivamente al Mezzogiorno o se,
invece, lo stanziamento verrà ripartito su un
territorio più ristretto. L’ultimo Qcs ha
destinato circa 51 miliardi di euro al
Mezzogiorno, tra risorse nazionali e fondi
strutturali.
Se tale importo dovesse essere confermato, a beneficiarne saranno le 4
regioni che manterranno lo status di aree in
ritardo di sviluppo, tenendo presente che dovrà
anche essere, comunque, garantito il cosiddetto sostegno
transitorio, onde evitare il verificarsi del
cosiddetto rischio boomerang nelle
regioni eventualmente uscite dall’obiettivo
1.
Buona parte del futuro della crescita del Mezzogiorno è, dunque,
legata alle risorse a disposizione dei fondi
strutturali a partire dal 2007. Poiché quasi
tutte le regioni dei nuovi 10 Stati membri
rientreranno nell’obiettivo 1, se non
verrà aumentato lo stanziamento complessivo, a
sopportare il peso dell’allargamento saranno
proprio le regioni più deboli e povere dell’Ue.
Due scenari, un dibattito unitario
Se quelli su riportati sono i fondamentali dell’azienda
Italia, questo inizio di decennio o, più
enfaticamente, di millennio appare, quindi,
pervaso da profonde incertezze, debolezze e
rischi ma, al tempo stesso, venato da cauti
ottimismi, tanto da fare dire a Cesare Romiti,
autorevole esponente del capitalismo italiano
della seconda metà del ‘900, che il
Mezzogiorno deve utilizzare le sue risorse
dormienti e puntare sempre più a uno
sviluppo autonomo3.
La Campania e il Meridione dovrebbero guardare al modello Veneto e ad
esso ispirarsi nella definizione delle loro
strategie di sviluppo.
Un ottimismo basato, innanzi tutto, sulla straordinaria carica
imprenditoriale della gente del sud, una carica assopita
che dovrebbe essere adeguatamente risvegliata e
diffusa, sostenuta da alcuni punti di forza
quali la volontà di riscatto, l’orgoglio, la
eccezionale creatività, da intrecciare ad un
aggiustamento di mentalità che privilegi una
maggiore propensione all’azione piuttosto che
alle parole.
Finito il tempo dell’intervento straordinario, delle strategie
globali per lo sviluppo calate dall’alto,
i politici, gli imprenditori … i meridionali
devono comprendere quanto lo sviluppo economico
e territoriale sia intimamente legato
all’autonomia delle iniziative, sempre meno
attivabile in forza di programmi centralizzati.
Le regioni del Mezzogiorno devono farsi
promotrici di questa nuova filosofia del fare.
La Campania, come la Puglia, principalmente, insieme a tutte le altre
regioni del Mezzogiorno possono guardare
all’esempio del Veneto, la cui robustezza
economica deriva dalla forte sintonia tra
aziende e territorio: nel nord-est le imprese
sono viste non solo come fonte di ricchezza e
posti di lavoro ma anche come espressione di una
comunità locale.
Nel mondo sviluppato è, tuttavia, in atto un processo di
deindustrializzazione con lo spostamento delle
attività produttive verso il comparto dei
servizi, moderna forma della produzione
immateriale. Romiti propone che il futuro del
Mezzogiorno ed il suo decollo economico siano
sostenute dalle attività manifatturiere che il
resto dell’Italia non ha più possibilità di
accrescere o non ritiene più convenienti da
impiantare.
È questa una prospettiva lungimirante?
Per gli analisti del nord-est, l’economia veneta è ad un bivio.
Occorre passare da un modello quantitativo, a volte disordinato, ad uno
qualitativo, ad alto valore aggiunto, più
attento alla sua sostenibilità sia in termini
di impatto ambientale sia di qualità della vita
dei residenti.
Per la Camera di commercio di Venezia, l’eco-sistema territoriale ha
pesantemente pagato la crescita di questi anni.
A dimostrazione di ciò, gli indicatori
ambientali presenterebbero valori peggiori
rispetto alla media nazionale. Una situazione
che è aggravata dalla grave insufficienza di
infrastrutture stradali e ferroviarie4.
C’è un futuro da costruire più sul medio che sul breve termine, con
attenzione alla qualità, ma anche a un mercato
del lavoro già in piena occupazione e sempre più
avaro di manodopera corrente per problemi
demografici ma anche per emancipazione delle
popolazioni insediate.
A Napoli ed in Campania, si registra una sostenuta natalità e un
dinamismo imprenditoriale, soprattutto
giovanile, anche se la dimensione d’impresa è
ancora troppo contenuta.
Prende le mosse dai suddetti fenomeni l’analisi dell’economia nel
2002, secondo la Camera di commercio di Napoli.
L’anno scorso nel napoletano si sono iscritte 19.686 nuove imprese,
in lieve rialzo sul 2001 nonostante la crisi
internazionale. Il saldo è positivo per 6.737
unità, pari a un tasso del 2.8% contro l’1.7%
nazionale.
Il
dinamismo dell’imprenditoria campana, rilevato
anche dalle altre camere di commercio della
regione, è provato anche dalla propensione a
creare società da parte dei giovani: su 10
nuove aziende napoletane, sette fanno capo a
imprenditori con meno di 35 anni. Nell’ultimo
anno si registra anche una propensione delle
piccole imprese locali a sviluppare accordi
secondo il modello della struttura a rete.
Ma, come accennato, si deve fare i conti con il nanismo e la fragilità
del tessuto imprenditoriale: il 96% del tessuto
imprenditoriale della provincia è rappresentato
da aziende con meno di 10 addetti e l’81% ha a
carico un solo dipendente, al massimo due.
Quanto pesa questa condizione per il decollo dello sviluppo economico
del territorio campano?
Secondo i teorici dei distretti industriali, le imprese italiane, come
del resto le europee, nascono già con capacità
competitive vicine a quelle dei leader di
mercato con cui si confrontano.
Per sopravvivere non hanno tanto bisogno di crescere dimensionalmente,
quanto di specializzarsi e posizionarsi meglio
sul mercato.
Nel sistema italiano le buone idee imprenditoriali non sono trattenute
e sfruttate da una sola impresa, ma si
diffondono, automaticamente, nell’ambiente del
distretto o della filiera, dando luogo a una
forma alternativa alla crescita dimensionale
concentrata, consistente nella proliferazione di
nuove imprese efficienti.
Perché questo processo vada avanti e porti i suoi frutti in termini di
produttività è necessario, da un lato,
mantenere basse le barriere all’entrata e,
dall’altro, aumentare, con investimenti in
capitale intellettuale e relazionale, quella che
gli economisti chiamano capacità di
assorbimento delle conoscenze, usando al
meglio il sapere dei potenziali fornitori e dei
concorrenti.
In definitiva, anche in Italia e nel Mezzogiorno va bene crescere, ma
equilibratamente, vale a dire sommando la
limitata crescita dimensionale delle imprese
alla maggiore crescita del numero delle imprese
presenti nei sistemi locali e nelle filiere. Se
il capitalismo italiano fa crescere le reti più
velocemente delle aziende è perché sta
esplorando una strada nuova ed originale (Rullani,
2002). In particolare, nelle aree già
caratterizzate dalla presenza di distretti
industriali e filiere di Pmi, la scarsità della
manodopera disponibile e la saturazione del
territorio, oltre al costo del lavoro,
costituiscono fattori critici che sospingono le
imprese a cercare altrove possibilità di
crescita fisica. Sarebbe riduttivo, però,
considerare la delocalizzazione esclusivamente
in senso passivo, come risposta alle negative
condizioni di base dei contesti locali.
|
Fig. 3 - Rione Olivetti |
La possibilità di spostare alcune parti delle produzioni deriva da un
insieme di motivazioni che danno risposta alle
criticità dei fattori produttivi disponibili in
loco e, soprattutto, all'opportunità di un
nuovo posizionamento sui mercati internazionali.
Più che delocalizzazione è necessario
introdurre la categoria della nuova
collocazione, creando grandi piattaforme
industriali dotate di efficienti
infrastrutture, materiali ed immateriali, in
grado di collegarle con il quadro di comando,
saldamente ancorato al nostro paese e da
estendere sempre più al Mezzogiorno.
Nei
settori maturi, dal mobile alle piastrelle, dal
calzaturificio all'agroalimentare, dalla moda ai
macchinari, in alcuni mercati esteri, si
moltiplicano concorrenti che fanno leva su costi
contenuti o si comportano come abili imitatori,
minacciando la leadership italiana. Tale forma
di concorrenza, però, può essere arginata. Per
non perdere in competitività gli industriali
italiani hanno immaginato di rifondare il
distretto produttivo in modo rivoluzionario,
trasferendo direttamente la sua capacità di
penetrazione sui mercati finali. L'idea consiste
nel riposizionare interi nuclei di filiere
produttive complete, capaci di cogliere i
vantaggi, anche logistici, di una collocazione
vicina alla clientela finale. Riprodurre
all'estero i distretti italiani, soprattutto
nelle aree mediterranea e balcanica, costituirà
una delle attività dell'imprenditoria italiana
nei prossimi anni. Ma all'estero dovranno
trovare ospitalità solo le produzioni di fascia
medio-bassa, mentre la progettazione dovrà
rimanere nel nostro paese.
Tra l’ottimismo per uno sviluppo economico possibile, ma
tradizionale, e la scommessa sulle nuove
frontiere dell’innovazione e delle reti di
sinergie e complementarietà transimprenditoriale,
si pone l’utilità di analisi e comparazioni
fra realtà diverse, per aiutare quelle in
ritardo di sviluppo, ma non solo. Scenari
differenti, quasi alternativi, ma la necessità
di un dibattito unitario per soluzioni di
respiro europeo.
1 Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, 1959.
2 Scenari per le economie locali, 2003.
3 Da un discorso tenuto a Napoli il 28 marzo 2003.
4 Camera di commercio di Venezia, 2003.
|
1. Olivetti. Ingresso (Pozzuoli, Na)
2. Olivetti. Spazi interni
3. Rione Olivetti
|
|