Numero 5 - 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I Campi flegrei all'epoca delle fabbriche


Pasquale Bruno

Ettore Giampaolo


 

I Campi flegrei fra industrializzazione dei primi del novecento e dismissioni degli anni '90. Una storia ricca di intrecci fra politica, economia e modernizzazioni vere e presunte. Pasquale Bruno  e Ettore Giampaolo ripercorrono un secolo di vicende nazionali e campane che hanno coinvolto pesantemente le popolazioni insediate sul territorio, proponendo l'interpretazione di una dinamica impetuosa eppur non sempre capace di attivare forme di sviluppo locale in grado di determinare una reale e duratura emancipazione sociale dell'area fregrea

 

La deindustrializzazione

 

I Campi flegrei, nel corso del ‘900, hanno avuto un’estesa e qualificata presenza di fabbriche. Le maggiori industrie italiane, dall’Olivetti alla Pirelli, dall’Italsider all’Alenia, hanno costruito propri stabilimenti, collocandoli fra Bagnoli e Bacoli, che hanno modificato in profondità sia l’assetto urbanistico dell’area, sia la sua situazione socio-economica.

Ora che la fase di deindustrializzazione è compiuta, e si cercano nuove possibilità di sviluppo produttivo ed occupazionale, diventa necessario fare un bilancio di quel periodo per verificare cosa abbia rappresentato e cosa abbia lasciato in termini di eredità negativa, ma anche di occasioni da cogliere o da far fruttare ancora.

 

 

 

 

L’industria mai nata

 

Nel procedere a questo esame, si resta colpiti da un dato che balza subito agli occhi: i cento anni di presenza industriale non hanno portato alla nascita di un sistema di piccole e medie industrie locali. Nei Campi flegrei non è accaduto quello che in genere si è verificato in altre aree ed in presenza di analoghi processi economici: la nascita di un indotto legato, in una prima fase, alle aziende maggiori dalle quali, poi, la piccola azienda si rende progressivamente autonoma conquistando propri spazi produttivi e di mercato.

Eppure vi erano molte delle condizioni necessarie affinché un simile processo si verificasse anche nella zona a sud di Napoli: la presenza di grandi stabilimenti industriali che affidano a lavorazioni esterne alcune produzioni o parti del prodotto, la varietà dei settori industriali che andavano dalla metallurgia (Armstrong ed Ilva), all’elettronica fine (Microlambda ora Alenia), alla meccanica ferroviaria (Ansaldo ora Sofer), la disponibilità, sul mercato del lavoro, delle figure e delle competenze necessarie a far vivere un sistema industriale satellite. In verità, negli anni in cui l’industria tirava, si è assistito anche al sorgere di alcune officine che assumevano commesse dalle aziende maggiori e, per esse, realizzavano componenti della produzione; ma questo è rimasto un fenomeno legato alla presenza delle commesse che è scomparso con il venir meno degli ordini e con la crisi delle fabbriche committenti.     

  

 

Investigare i perché di una mancanza

 

Investigare le cause di un simile andamento è di sicuro interesse e richiede l’attivazione di ricerche specifiche che non sono lo scopo di questo articolo; tuttavia è possibile, anche in questa sede, evidenziare alcuni elementi della situazione industriale flegrea, avanzare alcune ipotesi sul mancato decollo di un’impresa industriale locale e, in questo modo, contribuire all’avvio di un lavoro d’indagine sempre più necessario per indirizzare, al meglio, un nuovo modello di sviluppo dell’area flegrea.

 

La cultura industriale resta altrove

 

Un primo elemento che caratterizza la fase delle fabbriche è il suo articolarsi in stabilimenti di importanti aziende a carattere nazionale ed internazionale; per rendersene conto basta scorrerne l’elenco già accennato: Italsider, Olivetti, Pirelli, Alenia. Questo dato, insieme alle cronache politico-sindacali degli anni sessanta e settanta, dice con sufficiente chiarezza che i cervelli tecnici e commerciali di quelle aziende sono restati presso la casa madre e, comunque, in luoghi diversi e lontani da Bagnoli, Pozzuoli, Bacoli e perfino da Napoli. È derivato da questo il mancato riversarsi e diffondersi, sul territorio, di quella cultura dell’impresa industriale che è indispensabile per la nascita di un sistema locale di fabbriche piccole e medie.

 

Nasce la cultura operaia

 

Una simile valutazione viene convalidata da un’altra caratteristica che la storia delle fabbriche ha avuto nella zona flegrea: il rapido formarsi, diffondersi ed affermarsi di una cultura e di una professionalità operaia. Al riguardo vi sono dati incontrovertibili e, per certi versi, sorprendenti.

Quando, alla fine dell’ottocento, l’Armstrong inizia la produzione, la manodopera, tutta locale, proviene dall’agricoltura e dalla pesca, non ha esperienza di lavori collettivi eterodiretti, non ha competenze in attività di carattere metallurgico e meccanico che sono quelle proprie dell’Armstrong dove si costruiscono pezzi d’artiglieria pesante per le marine da guerra. Nel volgere di pochi mesi e sotto la direzione di istruttori provenienti direttamente dall’Inghilterra, contadini e pescatori si trasformano in ottimi operai metalmeccanici; tanto da diventare ricercatissimi sul mercato nazionale del lavoro e da realizzare, come primo prodotto, l’armamento di quattro unità della marina da guerra russa.

Il caso si ripete con la nascita della Microlambda che poi cambierà assetto societario e si chiamerà Selenia trasformatasi, a sua volta, in Alenia-Marconi che, comunque, continua l’originaria produzione di radar e di componenti elettroniche per missili. Quando, alla fine della seconda guerra mondiale, la Microlambda avvia la produzione, a Fusaro di Bacoli, nei capannoni dell’ex Silurificio di Baia, in Italia non vi sono esperienze di fabbriche che si occupino di elettronica o radaristica e, ancor di meno, ve ne sono fra le maestranze reperibili nel circondario flegreo, eppure nel 1952 viene consegnata alla marina militare americana la prima batteria di sei radar completamente realizzati nello stabilimento del Fusaro.

Ad un’analoga vicenda si assiste alcuni anni dopo, quando, a Pozzuoli, l’Olivetti avvia una produzione sperimentale per la formazione dei futuri addetti al suo stabilimento flegreo. Gli apprendisti-operai danno vita ad una produzione di così alto livello, sia sul piano quantitativo che qualitativo, da indurre la casa madre di Ivrea a decentrare a Pozzuoli una linea di costruzione di calcolatrici prim’ancora che lo stabilimento puteolano venga completato e messo in attività.

Dunque il territorio flegreo, come si è appropriato di una cultura operaia, avrebbe saputo impadronirsi anche di una cultura d’impresa industriale, se essa fosse stata portata e fatta vivere nella vita economica del comprensorio.

 

Gli altri motivi di un mancato decollo

 

Ovviamente, accanto a questi motivi, altri ve ne sono che hanno giocato un ruolo nel mancato decollo di un’industria locale. Si deve pensare alla struttura del credito, che sia agli inizi del ventesimo secolo, sia nei suoi anni sessanta e settanta, non era tale da incoraggiare un investitore a tentare una impresa industriale ancorché di modeste dimensioni; all’accumulazione del capitale locale che, di origine prevalentemente agricola e frutto di risparmi, difficilmente arrivava alla dimensione necessaria per impiantare una fabbrica o una grossa officina; alla cultura delle grandi e ricche famiglie del luogo che era lontana da una logica d’impresa e più proiettata ad esprimersi nel mondo delle professioni liberali; alla mancanza di esperienze societarie che avrebbero consentito l’incontro di piccoli capitali ed esperienze tecniche, ma una tradizione prevalentemente agricola, marinara e di piccolo commercio, su questo terreno aveva sedimentato poco o nulla; al livello di remunerazione degli investimenti che era assai più alto, e più facilmente perseguibile, operando nel campo dell’edilizia che, proprio negli anni che a cavallo fra il 1950 ed il 1970, conosceva uno sviluppo vertiginoso; basti pensare alla crescita abnorme di Quarto flegreo che nel volgere di qualche lustro passa da piccolo borgo contadino a città satellite di Napoli con oltre 40.000 abitanti.

Un intreccio di fattori che andrebbero studiati a fondo ed integrati con gli altri che certamente si individuerebbero nel corso di un’analisi sistematica; il dato che comunque emerge, anche da una ricognizione superficiale, è che quasi un secolo di presenza industriale non ha generato una piccola industria locale che, nei Campi flegrei è presente come caso sporadico e non fiorente.

 

 

 

 

Le fabbriche in spiaggia

 

Ma non è questo l’unico lascito negativo che viene dall’epoca delle fabbriche.

La maggior parte degli insediamenti industriali viene fatta sul litorale, e qui lascia enormi manufatti dismessi; questo oggi rappresenta un problema che può ancora essere convertito in occasione se si procede ad un’intelligente progettazione, ad un’attenta riforma del sistema dei vincoli che difendono il paesaggio e ad una coerente politica di spesa che sostenga ed incoraggi i necessari investimenti privati.

Comincia, nel 1865, l’Armstrong che si insedia proprio sul mare occupando ampia parte della costa che si estende fra Pozzuoli e Lucrino; segue, a ruota, nel 1907, l’insediamento Ilva, divenuta poi Italsider, che occupa l’intera baia di Coroglio, a Bagnoli; negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale, l’occupazione dei litorali continua con la ricostruzione dei capannoni dell’ex Silurificio di Baia, distrutto nel corso della ritirata tedesca e che, ristrutturato, accoglie la neonata Microlambda sulle sponde del Lago Fusaro; fra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta, sul litorale di Arco Felice, sempre sul tratto di costa compreso fra Pozzuoli e Baia, viene costruito lo stabilimento Pirelli che produce cavi elettrici sottomarini.

Bisogna dire che, in tutti i casi, l’ubicazione degli impianti industriali era determinata da esigenze tecniche non superabili, all’epoca, in altro modo. Armstrong ed Ilva erano stabilimenti siderurgici; anche l’Armstrong, la cui specifica missione produttiva era la costruzione di pezzi d’artiglieria, provvedeva in proprio alla fusione dei metalli in cui poi forgiava cannoni e mitragliatrici. Le fabbriche siderurgiche, allora come in parte ancora oggi, si approvvigionavano via mare sia dei materiali da fusione sia dei combustibili per forni ed altoforni, quindi andavano costruite sul mare per poter essere dotate dei pontili a cui far attraccare le navi da carico. Lo stabilimento Pirelli, producendo principalmente cavi elettrici sottomarini, ha avuto anch’esso l’esigenza di essere posizionato sulla costa e di poter, nella maggior parte dei casi, caricare i cavi direttamente sulle speciali imbarcazioni che ne effettuano la posa.

Evidentemente questo tipo di soluzioni è stato facilitato dalla disattenzione, allora abbastanza diffusa e radicata, per le questioni ambientali e la difesa del paesaggio oltre che dal convincimento, a quei tempi maggioritario, che il destino della zona non potesse che essere industriale e nel conseguente utilizzo, in questa direzione, di ambienti la cui valenza turistica era stata colta ed esaltata già dagli antichi romani.

Per la Microlambda/Alenia sono, in parte, diversi almeno i motivi immediati che fanno nascere una fabbrica sulle mitiche rive di quel lago Fusaro dove, per bellezza ambientale e pescosità, i Borboni avevano costruito la bellissima Casina di caccia e di pesca il cui progetto e la cui esecuzione era stata affidata all’architetto Carlo Vanvitelli. Sulle rive del lago, come già accennato, sorgeva una parte degli impianti del Silurificio di Baia che produceva, appunto, siluri ed era stato diretto fino all’inizio della seconda guerra mondiale dal professor Calosi, un eminente fisico, che poi si trasferì negli Stati Uniti dove partecipò agli studi ed alla realizzazione dei primi impianti radar. Ritornato in patria, vi portò l’esperienza acquisita negli USA e la proposta di dar vita ad una industria radaristica italiana che, una volta decisa, venne ubicata in quell’ex Silurificio ben conosciuto, con le sue maestranze, dal professor Calosi restato a dirigere la nuova industria per molti anni.

 

 

 

 

Un radicale cambio di civiltà

 

Quali che ne siano stati i motivi e le circostanze, l’insediamento delle fabbriche lungo la linea di costa rappresenta uno stravolgimento del territorio e dell’uso che, fino ad allora, ne era stato fatto.

Dall’epoca greco-romana, mare ed entroterra erano stati in una continuità diretta anche di tipo urbanistico. Pozzuoli e Lucrino erano stati i porti principali di quel mondo e di quel tempo. Al porto commerciale di Pozzuoli era affidato il rifornimento alimentare di Roma ed a Puteoli erano incardinati tutti i commerci con il Mediterraneo, tanto che Cicerone, in una sua lettera, dice di non aver mai visto tante vele quante ne vede navigare nel golfo flegreo. Il complesso costituito dal lago d’Averno, dal lago Lucrino e dall’omonimo golfo ad essi prospiciente diventa, in età augustea, il primo acquartieramento della flotta del tirreno che, per la sua posizione, ha un decisivo ruolo strategico e, per la sua diretta dipendenza dagli ordini dell’imperatore, ha una eccezionale funzione politica. La caduta dell’impero romano e gli inabissamenti dovuti al movimento discendente del bradisismo, modificano radicalmente questa situazione privandola dell’eccezionale importanza che l’ha caratterizzata durante tutta la fase imperiale di Roma.

Tuttavia, marineria, pesca e piccoli commerci restano, anche se con consistenza diversa nelle diverse epoche, le attività svolte nella zona fino alla fine dell’ottocento. Da queste funzioni economiche e produttive discende, com’è facilmente intuibile, anche un assetto urbano e sociale tutto incentrato su quei mestieri e quelle piccole produzioni. Considerazione analoga può essere fatta per gli altri siti di Coroglio, Baia e Bacoli che costituiscono la parte restante dell’area flegrea e che hanno seguito la stessa parabola storica di Puteoli.

Agli inizi del novecento, immensi capannoni ed altissimi muri di recinzione separano, fisicamente, la costa dall’entroterra, gli agglomerati urbani dal mare. La separazione, peraltro, non è solo fisica; dentro quei recinti si organizza, e scorre, una vita del tutto diversa da quella vissuta fino a poco tempo prima: il lavoro è collettivo, articolato per grandi gruppi, organizzato all’esterno del gruppo stesso che spesso non conosce, comunque non ha deciso, l’obiettivo di quello sforzo comune che però porta ad una retribuzione certa, non subordinata al verificarsi, anche, dei più ordinari fenomeni naturali; un andamento del tutto diverso, per certi versi, opposto a quello che c’era, ed in parte ancora c’è, nella pesca e nel lavoro agricolo. Il cambiamento, peraltro, non si ferma alla modificazione profonda dei modi del lavoro e di conseguenza, anche se più lentamente, dei modi del vivere; il cambiamento riguarda la natura e la struttura stessa del mondo preesistente: la fabbrica non si affianca alle altre attività e non si inserisce nel contesto che l’ha preceduta, semplicemente li divora e li sagoma in forma completamente nuova. L’origine di questo processo è essenzialmente quantitativa: basti pensare che, nel corso della prima guerra mondiale, gli operai occupati in Armstrong ed Ilva ammontano ad oltre diecimila su di una popolazione flegrea, Bacoli era ancora frazione del Comune di Pozzuoli, che contava i 28.000 abitanti censiti nel 1915. La stragrande maggioranza della forza lavoro disponibile viene drenata dalla fabbrica e sottratta alle altre attività che finiscono per assumere un carattere residuale. Com’è ovvio del lavoro agricolo rimane così come si continua a praticare un po’ di pesca, ma in molti casi, e per moltissimo tempo, essi costituiscono la seconda attività dell’operaio ex contadino o ex marinaio.

Figura 1  

  

 

D’altro canto, le fabbriche sulle spiagge contribuiscono al declino anche di altre attività: è il caso del termalismo che aveva alcuni suoi impianti ancora attivi fra Bagnoli e Pozzuoli, lungo il litorale sul quale corre via Napoli. Anche questi impianti sono arrivati al 1900 da un passato remoto e ben più glorioso che è quello del termalismo flegreo, celeberrimo in epoca romana, con le terme di Baia, ma ancora famosissimo ed attivo per tutto il medio evo come testimonia, nel 1200, il libro di Pietro da Eboli dedicato appunto alle fonti termali dell’area flegrea e come dimostra la costruzione, agli inizi del 1300, dell’ospedale per le cure termali dei poveri in località Tripergole (Lucrino). Sarà l’eruzione del 1538, con la nascita di Monte Nuovo, a distruggere questo impianto così come sarà il bradisismo a ridurre progressivamente le potenzialità di questa risorsa naturale del territorio. Quello che era sopravvissuto viene soffocato dall’inquinamento prodotto dalle grandi fabbriche metallurgiche e dall’affermarsi di una mentalità, né infondata, né negativa, che vede negli opifici il principale sbocco lavorativo. Un destino dello stesso tipo hanno la balneazione ed il connesso fitto delle case di villeggiatura per prendere bagni di mare.

 

 

 

 

Cambia il modo d’imparare un mestiere e cambia la vita

 

La vicenda delle fabbriche, nei Campi flegrei, è anche la storia della scoperta del sapere come modo per emancipare la propria condizione. Agli inizi del novecento, anche nella terra flegrea, la formazione professionale passava attraverso l’apprendistato che consisteva, per il giovane avviato ad un mestiere, nel mettersi a garzone presso un maestro d’arte e rubargliene i segreti; nel senso che l’apprendista doveva osservare e capire da solo molte più cose di quante gliene venissero spiegate o insegnate. Non si trattava di incapacità didattica dei mastri, ma del loro interesse a far apprendere nel modo più lento possibile poiché questo garantiva la disponibilità di un lavorante per un tempo più lungo e ad una paga più bassa, ma soprattutto rinviava di molto il momento in cui un nuovo concorrente si sarebbe inserito nel mercato. Dipendeva, in gran parte, da questo, il fatto che la maggioranza dei giovani si avviasse ad esercitare lo stesso mestiere del padre che si imparava quasi naturalmente e consentiva di potenziare la capacità produttiva dell’attività familiare.

L’arrivo degli stabilimenti, ma soprattutto dell’inglese Armstrong, sconvolge questo sistema e lo supera con la creazione di corsi di formazione organizzati e finalizzati a fornire agli apprendisti le conoscenze più complete nel minor tempo possibile perché questo li rende massimamente produttivi nell’attività di fabbrica. Come si è già detto, l’iniziativa funziona così bene che, nel volgere di poco tempo, contadini e pescatori diventano tornitori, fresatori, disegnatori meccanici tanto abili da essere ricercati da altre industrie italiane. Questa situazione genera una condizione materiale che modifica il senso comune di tanti giovani di allora: si scopre che imparare un mestiere mette nella condizione di contrattarsi un lavoro e, di conseguenza, di scegliersi una vita. Essere, quasi automaticamente, avviati all’attività di famiglia cessa di essere un destino che, anzi, a poco a poco, ma nemmeno troppo lentamente, diventa un costume superato anche perché la vicinanza delle fabbriche e la loro richiesta di personale facilitano di molto questo atteggiamento. Esso prende piede e si diffonde in maniera così ampia da indurre il Comune di Pozzuoli a fondare una scuola pubblica di formazione professionale il cui successo è dimostrato dal fatto che essa avvia operai professionali verso le maggiori industrie italiane.

Si è già detto che il fenomeno continua ed evolve nella seconda metà del novecento con l’inizio delle attività, anche di formazione professionale, svolte o patrocinate da Olivetti, Pirelli e Selenia.

Com’è facilmente intuibile, anche questa vicenda formativa e professionale ha risvolti positivi sul piano della crescita sociale e civile ma anch’essa lascia un’eredità di segno negativo: quando la crisi delle fabbriche evidenzierà che esse non riescono più ad essere l’unico motore economico della zona e che, di conseguenza, bisogna valorizzare altre risorse avviando altre attività, ci si scontra anche con la difficoltà di non disporre delle professionalità necessarie.

Fino agli inizi degli anni ottanta, l’attività prevalente è quella di fabbrica ed anche la scolarizzazione di massa si incrocia con questa caratterizzazione produttiva; per questo, nei Campi flegrei, nascono prevalentemente istituti tecnici, oltre ad un istituto magistrale frequentato quasi esclusivamente da donne che, ancora negli anni sessanta e settanta, raramente si orientavano verso il lavoro operaio di fabbrica, e ad un liceo classico aggregato al seminario vescovile dove si perpetuava, come altrove, il ceto dirigente della città. Con gli anni settanta la vicenda flegrea risente sempre più del clima nazionale e la presenza delle fabbriche perde, per certi aspetti, la sua forza di determinare gli assetti sociali collegati, in qualche modo, al lavoro, per altri, le lotte operaie del sessantotto, e degli anni seguenti, esercitano un ruolo significativo nella vita sociale e politica dei campi flegrei. Il sistema scolastico, comunque, risente di entrambi queste spinte e si articola, in sostanza, su tutti gli indirizzi presenti a livello nazionale, ma siamo già giunti agli anni ottanta e la forza propulsiva dell’insediamento dei grandi stabilimenti industriali è ormai consegnata al passato.

 

 

 

 

 

La chiusura delle fabbriche, il bradisismo, lo sradicamento professionale e sociale 

 

In estrema sintesi, quando le fabbriche chiudono lasciano un territorio spaccato fra fascia costiera ed entroterra, un litorale, per la gran parte, occupato da capannoni ed impianti dimessi, un mercato del lavoro nel quale è assolutamente prevalente la formazione operaia di fabbrica, una cultura imprenditoriale non ancora formata ed un ambiente cementificato per ampia parte e senza criterio anche in forza del fatto che il posto sicuro e la conseguente tranquillità economica hanno consentito a molti di farsi la casa assai spesso costruendola sul terreno nel quale la famiglia aveva praticato, per anni, l’agricoltura.

Oltre a tutto questo, la chiusura delle fabbriche crea il danno della fabbrica chiusa; cioè viene meno una fonte di reddito e la condizione materiale d’una vita e d’una disciplina collettiva mirata ad un fine. Quest’esperienza, che aveva generato nel corso del 1900 una significativa crescita sociale e civile degli strati subalterni della città, viene perdendosi abbastanza rapidamente, senza alternative di eguale tenore ed aggravata da due crisi bradisismiche. Nel 1970 e nel 1982-1984, il movimento ascendente del suolo subisce un’impennata che mette a seria prova la tenuta degli edifici e fa temere il rischio di un evento eruttivo. La conseguenza è che, nel 1970, si evacua il Rione terra, la storica rocca d’origine greco-romana di Pozzuoli, e la popolazione viene reinsediata in un rione di nuova costruzione, il Toiano, lontano dalla città e da quel mare su cui e, spesso, di cui quegli abitanti avevano vissuto. Nel 1982-1984 tocca al centro antico di Pozzuoli che viene sfoltito per migliaia di residenti anch’essi ricollocati in un città di nuova fondazione, Monterusciello, un agglomerato da trentamila vani lontano qualche chilometro dal centro della città flegrea.

Sradicamento lavorativo e sradicamento abitativo combinano i loro effetti che si sommano con quelli, altrettanto devastanti, determinati dall’arrivo di un enorme flusso di denaro pubblico, destinato a fronteggiare l’emergenza e ad avviare la ricostruzione, su cui si avventano affare, speculazione e malaffare. In questo modo la chiusura delle fabbriche dà luogo ad un problema sociale e di cultura materiale che, per il contesto in cui cala, diventa rapidamente un problema civile oltre che economico.

 Fig. 2  

 

 

 

La civiltà delle fabbriche

 

Un problema tanto più visibile poiché, fino a pochi anni prima, nei Campi flegrei si era vissuta una vera e propria civiltà delle fabbriche. Già l’Armstrong, agli inizi del 1900, si era data una significativa valenza sociale introducendo: lo sport del calcio, che avvia e facilita, un processo di aggregazione sociale; la religione protestante, che dà vita ad una piccola comunità, ancor oggi attiva, il cui merito è quello di sprovincializzare il sentimento religioso dei credenti; la cooperazione, specie quella abitativa, che viene incentivata e sostenuta con interventi a favore degli operai associati i quali, in questo modo, riescono a realizzare un nuovo rione della città. Nella seconda metà del novecento, è l’Olivetti ad avere un’intensa presenza sociale che si articola in una molteplicità di azioni che vanno dalla costruzione di case per i lavoratori, alla creazione dell’asilo nido per i piccoli delle lavoratrici-madri, alla costituzione delle colonie estive per i figli dei dipendenti, alla organizzazione di un presidio sanitario di fabbrica destinato anche alle famiglie dei lavoratori.

Ma, oltre all’impegno sociale delle aziende, vi era stato quello delle organizzazioni operaie di fabbrica cresciute di pari passo con la vicenda politico-sindacale italiana che, in alcuni passaggi, era stata precorsa dai sindacati e dai partiti operai dei Campi flegrei, come nel caso dell’incontro Dc-Pci o in quello della costituzione dei Consigli di fabbrica. L’organizzazione operaia, nata nell’Armstrong d’inizio secolo, si era gradatamente, ma rapidamente, rafforzata in fabbrica ed estesa in città, tanto da portare, al governo della Pozzuoli del 1914, il primo sindaco espressione di una lista popolare, democratica e progressista. Da allora, se si eccettua la parentesi fascista, durante la quale la fabbrica esprime gruppi di resistenza civile, i ceti subalterni sono costantemente coinvolti nel governo della città che assai spesso dirigono direttamente.

Ma la vita di fabbrica è anche qualcosa di più dell’impegno sociale e politico; come spiega bene Ermanno Rea, nel suo libro “La dismissione”, in una provincia come quella di Napoli, caratterizzata dall’abusivismo, dal contrabbando, dalla camorra, il lavoro di fabbrica rappresenta e produce valori inusuali: la solidarietà, l’orgoglio di chi si guadagna la vita, l’etica del lavoro, la solidarietà. Quando, poi, l’impegno in fabbrica tocca quasi ogni famiglia, come era nei Campi flegrei, quei valori e quegli atteggiamenti permeano l’intera vita cittadina.

Difatti le città crescono intorno alle fabbriche sul piano abitativo e su quello civile; basti pensare che il comprensorio Pozzuoli, Arco felice, Lucrino, Baia, Bacoli e Cuma, che costituiva un solo comune con 28.000 abitanti, al censimento del 1915, ora ne conta più di 100.000 con gli oltre 80.000 residenti nel Comune di Pozzuoli ed i 28.000 abitanti di Bacoli, cittadina diventata comune autonomo, con Baia e Cuma, nel 1919. Ma ancor maggiormente significativa è la crescita civile della zona che ha dimostrato la sua forza in due drammatici passaggi: quello della ricostruzione delle fabbriche e quello della difesa della città in occasione del bradisismo. Nell’immediato dopoguerra, a Bagnoli, le maestranze, smentendo i pronunciamenti d’una apposita commissione alleata che datava ad un decennio la ripresa produttiva dell’Italsider, seppero riattivarla nel giro di pochi mesi, mentre lo stesso facevano gli ex dipendenti del Silurificio di Baia che ricostruirono di sana pianta i capannoni in cui ospitare la neonata Microlambda. In occasione della crisi bradisismica del 1982-1984, furono operai ed insegnanti a tenere in attività fabbriche e scuole, nonostante il ripetersi di infinite scosse telluriche, e ad evitare, così, che prendessero corpo i progetti di spostamento della città nella piana di Villa Literno.

Il rapporto con la fabbrica, però, non è stato solo economico, politico o sociale; è stato anche un rapporto professionale di altissima qualità che ha permesso agli stabilimenti flegrei di esportare i propri prodotti in Italia e nel mondo come nel caso della Sofer (ex Armstrong), che ha fornite ruote e carrelli alla metropolitana di New York, dell’Alenia (ex Microlambda e Selenia) che continua ad avere fra i suoi clienti la Marina Militare americana, dell’Italsider i cui profilati in ferro hanno retto lo sviluppo urbano dell’Italia negli anni del boom.

Quella delle fabbriche è stata, senza dubbio, una grande vicenda che, proprio per questo, lascia grandi problemi economici ed un grande vuoto sociale.

 Fig. 3  

 

 

 

 

1. Selenia. Stabilimento Microlamba (Bacoli, Na)

2. Sofer. Veduta panoramica della fabbrica (Pozzuoli, Na)

3. Sofer. Capannone

 

 

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