La deindustrializzazione
I Campi flegrei, nel corso del ‘900, hanno avuto un’estesa e
qualificata presenza di fabbriche. Le
maggiori industrie italiane, dall’Olivetti
alla Pirelli, dall’Italsider all’Alenia,
hanno costruito propri stabilimenti,
collocandoli fra Bagnoli e Bacoli, che hanno
modificato in profondità sia l’assetto
urbanistico dell’area, sia la sua
situazione socio-economica.
Ora che la fase di deindustrializzazione è compiuta, e si cercano
nuove possibilità di sviluppo produttivo ed
occupazionale, diventa necessario fare un
bilancio di quel periodo per verificare cosa
abbia rappresentato e cosa abbia lasciato in
termini di eredità negativa, ma anche di
occasioni da cogliere o da far fruttare
ancora.
L’industria mai nata
Nel procedere a questo esame, si resta colpiti da un dato che balza
subito agli occhi: i cento anni di presenza
industriale non hanno portato alla nascita
di un sistema di piccole e medie industrie
locali. Nei Campi flegrei non è accaduto
quello che in genere si è verificato in
altre aree ed in presenza di analoghi
processi economici: la nascita di un indotto
legato, in una prima fase, alle aziende
maggiori dalle quali, poi, la piccola
azienda si rende progressivamente autonoma
conquistando propri spazi produttivi e di
mercato.
Eppure vi erano molte delle condizioni necessarie affinché un simile
processo si verificasse anche nella zona a
sud di Napoli: la presenza di grandi
stabilimenti industriali che affidano a
lavorazioni esterne alcune produzioni o
parti del prodotto, la varietà dei settori
industriali che andavano dalla metallurgia (Armstrong
ed Ilva), all’elettronica fine (Microlambda
ora Alenia), alla meccanica ferroviaria
(Ansaldo ora Sofer), la disponibilità, sul
mercato del lavoro, delle figure e delle
competenze necessarie a far vivere un
sistema industriale satellite. In verità,
negli anni in cui l’industria tirava,
si è assistito anche al sorgere di alcune
officine che assumevano commesse dalle
aziende maggiori e, per esse, realizzavano componenti
della produzione; ma questo è rimasto un
fenomeno legato alla presenza delle commesse
che è scomparso con il venir meno degli
ordini e con la crisi delle fabbriche
committenti.
Investigare i perché di una mancanza
Investigare le cause di un simile andamento è di sicuro interesse e
richiede l’attivazione di ricerche
specifiche che non sono lo scopo di questo
articolo; tuttavia è possibile, anche in
questa sede, evidenziare alcuni elementi
della situazione industriale flegrea,
avanzare alcune ipotesi sul mancato decollo
di un’impresa industriale locale e, in
questo modo, contribuire all’avvio di un
lavoro d’indagine sempre più necessario
per indirizzare, al meglio, un nuovo modello
di sviluppo dell’area flegrea.
La cultura industriale resta altrove
Un primo elemento che caratterizza la fase delle fabbriche è il
suo articolarsi in stabilimenti di
importanti aziende a carattere nazionale ed
internazionale; per rendersene conto basta
scorrerne l’elenco già accennato:
Italsider, Olivetti, Pirelli, Alenia. Questo
dato, insieme alle cronache
politico-sindacali degli anni sessanta e
settanta, dice con sufficiente chiarezza che
i cervelli tecnici e commerciali di
quelle aziende sono restati presso la casa
madre e, comunque, in luoghi diversi e
lontani da Bagnoli, Pozzuoli, Bacoli e
perfino da Napoli. È derivato da questo il
mancato riversarsi e diffondersi, sul
territorio, di quella cultura dell’impresa
industriale che è indispensabile per la
nascita di un sistema locale di fabbriche
piccole e medie.
Nasce la cultura operaia
Una simile valutazione viene convalidata da un’altra caratteristica
che la storia delle fabbriche ha avuto nella
zona flegrea: il rapido formarsi,
diffondersi ed affermarsi di una cultura e
di una professionalità operaia. Al riguardo
vi sono dati incontrovertibili e, per certi
versi, sorprendenti.
Quando, alla fine dell’ottocento, l’Armstrong inizia la produzione,
la manodopera, tutta locale, proviene
dall’agricoltura e dalla pesca, non ha
esperienza di lavori collettivi eterodiretti,
non ha competenze in attività di carattere
metallurgico e meccanico che sono quelle
proprie dell’Armstrong dove si
costruiscono pezzi d’artiglieria pesante
per le marine da guerra. Nel volgere di
pochi mesi e sotto la direzione di
istruttori provenienti direttamente
dall’Inghilterra, contadini e pescatori si
trasformano in ottimi operai metalmeccanici;
tanto da diventare ricercatissimi sul
mercato nazionale del lavoro e da
realizzare, come primo prodotto,
l’armamento di quattro unità della marina
da guerra russa.
Il caso si ripete con la nascita della Microlambda che poi cambierà
assetto societario e si chiamerà Selenia
trasformatasi, a sua volta, in
Alenia-Marconi che, comunque, continua
l’originaria produzione di radar e di
componenti elettroniche per missili. Quando,
alla fine della seconda guerra mondiale, la
Microlambda avvia la produzione, a Fusaro di
Bacoli, nei capannoni dell’ex Silurificio
di Baia, in Italia non vi sono esperienze di
fabbriche che si occupino di elettronica o
radaristica e, ancor di meno, ve ne sono fra
le maestranze reperibili nel circondario
flegreo, eppure nel 1952 viene consegnata
alla marina militare americana la prima
batteria di sei radar completamente
realizzati nello stabilimento del Fusaro.
Ad un’analoga vicenda si assiste alcuni anni dopo, quando, a
Pozzuoli, l’Olivetti avvia una produzione
sperimentale per la formazione dei futuri
addetti al suo stabilimento flegreo. Gli apprendisti-operai
danno vita ad una produzione di così
alto livello, sia sul piano quantitativo che
qualitativo, da indurre la casa madre di
Ivrea a decentrare a Pozzuoli una linea di
costruzione di calcolatrici prim’ancora
che lo stabilimento puteolano venga
completato e messo in attività.
Dunque il territorio flegreo, come si è appropriato di una cultura
operaia, avrebbe saputo impadronirsi
anche di una cultura d’impresa
industriale, se essa fosse stata portata e
fatta vivere nella vita economica del
comprensorio.
Gli altri motivi di un mancato decollo
Ovviamente, accanto a questi motivi, altri ve ne sono che hanno giocato
un ruolo nel mancato decollo di
un’industria locale. Si deve pensare alla
struttura del credito, che sia agli inizi
del ventesimo secolo, sia nei suoi anni
sessanta e settanta, non era tale da
incoraggiare un investitore a tentare una
impresa industriale ancorché di modeste
dimensioni; all’accumulazione del capitale
locale che, di origine prevalentemente
agricola e frutto di risparmi, difficilmente
arrivava alla dimensione necessaria per
impiantare una fabbrica o una grossa
officina; alla cultura delle grandi e ricche
famiglie del luogo che era lontana da una
logica d’impresa e più proiettata ad
esprimersi nel mondo delle professioni
liberali; alla mancanza di esperienze
societarie che avrebbero consentito
l’incontro di piccoli capitali ed
esperienze tecniche, ma una tradizione
prevalentemente agricola, marinara e di
piccolo commercio, su questo terreno aveva
sedimentato poco o nulla; al livello di
remunerazione degli investimenti che era
assai più alto, e più facilmente
perseguibile, operando nel campo
dell’edilizia che, proprio negli anni che
a cavallo fra il 1950 ed il 1970, conosceva
uno sviluppo vertiginoso; basti pensare alla
crescita abnorme di Quarto flegreo che nel
volgere di qualche lustro passa da piccolo
borgo contadino a città satellite di Napoli
con oltre 40.000 abitanti.
Un intreccio di fattori che andrebbero studiati a fondo ed integrati
con gli altri che certamente si
individuerebbero nel corso di un’analisi
sistematica; il dato che comunque emerge,
anche da una ricognizione superficiale, è
che quasi un secolo di presenza industriale
non ha generato una piccola industria locale
che, nei Campi flegrei è presente come caso
sporadico e non fiorente.
Le fabbriche in spiaggia
Ma non è questo l’unico lascito negativo che viene dall’epoca
delle fabbriche.
La maggior parte degli insediamenti industriali viene fatta sul
litorale, e qui lascia enormi manufatti
dismessi; questo oggi rappresenta un
problema che può ancora essere convertito
in occasione se si procede ad
un’intelligente progettazione, ad
un’attenta riforma del sistema dei vincoli
che difendono il paesaggio e ad una coerente
politica di spesa che sostenga ed incoraggi
i necessari investimenti privati.
Comincia, nel 1865, l’Armstrong che si insedia proprio sul mare
occupando ampia parte della costa che si
estende fra Pozzuoli e Lucrino; segue, a
ruota, nel 1907, l’insediamento Ilva,
divenuta poi Italsider, che occupa
l’intera baia di Coroglio, a Bagnoli;
negli anni immediatamente successivi alla
fine della seconda guerra mondiale,
l’occupazione dei litorali continua con la
ricostruzione dei capannoni dell’ex
Silurificio di Baia, distrutto nel corso
della ritirata tedesca e che, ristrutturato,
accoglie la neonata Microlambda sulle sponde
del Lago Fusaro; fra la fine degli anni
cinquanta e l’inizio degli anni sessanta,
sul litorale di Arco Felice, sempre sul
tratto di costa compreso fra Pozzuoli e
Baia, viene costruito lo stabilimento
Pirelli che produce cavi elettrici
sottomarini.
Bisogna dire che, in tutti i casi, l’ubicazione degli impianti
industriali era determinata da esigenze
tecniche non superabili, all’epoca, in
altro modo. Armstrong ed Ilva erano
stabilimenti siderurgici; anche l’Armstrong,
la cui specifica missione produttiva era la
costruzione di pezzi d’artiglieria,
provvedeva in proprio alla fusione dei
metalli in cui poi forgiava cannoni e
mitragliatrici. Le fabbriche siderurgiche,
allora come in parte ancora oggi, si
approvvigionavano via mare sia dei materiali
da fusione sia dei combustibili per forni ed
altoforni, quindi andavano costruite sul
mare per poter essere dotate dei pontili a
cui far attraccare le navi da carico. Lo
stabilimento Pirelli, producendo
principalmente cavi elettrici sottomarini,
ha avuto anch’esso l’esigenza di essere
posizionato sulla costa e di poter, nella
maggior parte dei casi, caricare i cavi
direttamente sulle speciali imbarcazioni che
ne effettuano la posa.
Evidentemente questo tipo di soluzioni è stato facilitato dalla
disattenzione, allora abbastanza diffusa e
radicata, per le questioni ambientali e la
difesa del paesaggio oltre che dal
convincimento, a quei tempi maggioritario,
che il destino della zona non potesse che
essere industriale e nel conseguente
utilizzo, in questa direzione, di ambienti
la cui valenza turistica era stata colta ed
esaltata già dagli antichi romani.
Per la Microlambda/Alenia sono, in parte, diversi almeno i motivi
immediati che fanno nascere una fabbrica
sulle mitiche rive di quel lago Fusaro dove,
per bellezza ambientale e pescosità, i
Borboni avevano costruito la bellissima
Casina di caccia e di pesca il cui progetto
e la cui esecuzione era stata affidata
all’architetto Carlo Vanvitelli. Sulle
rive del lago, come già accennato, sorgeva
una parte degli impianti del Silurificio di
Baia che produceva, appunto, siluri ed era
stato diretto fino all’inizio della
seconda guerra mondiale dal professor Calosi,
un eminente fisico, che poi si trasferì
negli Stati Uniti dove partecipò agli studi
ed alla realizzazione dei primi impianti
radar. Ritornato in patria, vi portò
l’esperienza acquisita negli USA e la
proposta di dar vita ad una industria
radaristica italiana che, una volta decisa,
venne ubicata in quell’ex Silurificio ben
conosciuto, con le sue maestranze, dal
professor Calosi restato a dirigere la nuova
industria per molti anni.
Un radicale cambio di civiltà
Quali che ne siano stati i motivi e le circostanze, l’insediamento
delle fabbriche lungo la linea di costa
rappresenta uno stravolgimento del
territorio e dell’uso che, fino ad allora,
ne era stato fatto.
Dall’epoca greco-romana, mare ed entroterra erano stati in una
continuità diretta anche di tipo
urbanistico. Pozzuoli e Lucrino erano stati
i porti principali di quel mondo e di quel
tempo. Al porto commerciale di Pozzuoli era
affidato il rifornimento alimentare di Roma
ed a Puteoli erano incardinati tutti i
commerci con il Mediterraneo, tanto che
Cicerone, in una sua lettera, dice di non
aver mai visto tante vele quante ne vede
navigare nel golfo flegreo. Il complesso
costituito dal lago d’Averno, dal lago
Lucrino e dall’omonimo golfo ad essi
prospiciente diventa, in età augustea, il
primo acquartieramento della flotta del
tirreno che, per la sua posizione, ha un
decisivo ruolo strategico e, per la sua
diretta dipendenza dagli ordini
dell’imperatore, ha una eccezionale
funzione politica. La caduta dell’impero
romano e gli inabissamenti dovuti al
movimento discendente del bradisismo,
modificano radicalmente questa situazione
privandola dell’eccezionale importanza che
l’ha caratterizzata durante tutta la fase
imperiale di Roma.
Tuttavia, marineria, pesca e piccoli commerci restano, anche se con
consistenza diversa nelle diverse epoche, le
attività svolte nella zona fino alla fine
dell’ottocento. Da queste funzioni
economiche e produttive discende, com’è
facilmente intuibile, anche un assetto
urbano e sociale tutto incentrato su quei
mestieri e quelle piccole produzioni.
Considerazione analoga può essere fatta per
gli altri siti di Coroglio, Baia e Bacoli
che costituiscono la parte restante
dell’area flegrea e che hanno seguito la
stessa parabola storica di Puteoli.
Agli inizi del novecento, immensi capannoni ed altissimi muri di
recinzione separano, fisicamente, la costa
dall’entroterra, gli agglomerati urbani
dal mare. La separazione, peraltro, non è
solo fisica; dentro quei recinti si
organizza, e scorre, una vita del tutto
diversa da quella vissuta fino a poco tempo
prima: il lavoro è collettivo, articolato
per grandi gruppi, organizzato all’esterno
del gruppo stesso che spesso non conosce,
comunque non ha deciso, l’obiettivo di
quello sforzo comune che però porta ad una
retribuzione certa, non subordinata al
verificarsi, anche, dei più ordinari
fenomeni naturali; un andamento del tutto
diverso, per certi versi, opposto a quello
che c’era, ed in parte ancora c’è,
nella pesca e nel lavoro agricolo. Il
cambiamento, peraltro, non si ferma alla
modificazione profonda dei modi del lavoro e
di conseguenza, anche se più lentamente,
dei modi del vivere; il cambiamento riguarda
la natura e la struttura stessa del mondo
preesistente: la fabbrica non si affianca
alle altre attività e non si inserisce nel
contesto che l’ha preceduta, semplicemente
li divora e li sagoma in forma
completamente nuova. L’origine di questo
processo è essenzialmente quantitativa:
basti pensare che, nel corso della prima
guerra mondiale, gli operai occupati in
Armstrong ed Ilva ammontano ad oltre
diecimila su di una popolazione flegrea,
Bacoli era ancora frazione del Comune di
Pozzuoli, che contava i 28.000 abitanti
censiti nel 1915. La stragrande maggioranza
della forza lavoro disponibile viene drenata
dalla fabbrica e sottratta alle altre
attività che finiscono per assumere un
carattere residuale. Com’è ovvio del
lavoro agricolo rimane così come si
continua a praticare un po’ di pesca, ma
in molti casi, e per moltissimo tempo, essi
costituiscono la seconda attività
dell’operaio ex contadino o ex marinaio.
D’altro canto, le fabbriche sulle spiagge contribuiscono al declino
anche di altre attività: è il caso del
termalismo che aveva alcuni suoi impianti
ancora attivi fra Bagnoli e Pozzuoli, lungo
il litorale sul quale corre via Napoli.
Anche questi impianti sono arrivati al 1900
da un passato remoto e ben più glorioso che
è quello del termalismo flegreo,
celeberrimo in epoca romana, con le terme di
Baia, ma ancora famosissimo ed attivo per
tutto il medio evo come testimonia, nel
1200, il libro di Pietro da Eboli dedicato
appunto alle fonti termali dell’area
flegrea e come dimostra la costruzione, agli
inizi del 1300, dell’ospedale per le cure
termali dei poveri in località Tripergole
(Lucrino). Sarà l’eruzione del 1538, con
la nascita di Monte Nuovo, a distruggere
questo impianto così come sarà il
bradisismo a ridurre progressivamente
le potenzialità di questa risorsa naturale
del territorio. Quello che era sopravvissuto
viene soffocato dall’inquinamento
prodotto dalle grandi fabbriche
metallurgiche e dall’affermarsi di una
mentalità, né infondata, né negativa, che
vede negli opifici il principale sbocco
lavorativo. Un destino dello stesso tipo
hanno la balneazione ed il connesso fitto
delle case di villeggiatura per prendere
bagni di mare.
Cambia il modo d’imparare un mestiere e
cambia la vita
La vicenda delle fabbriche, nei Campi flegrei, è anche la storia della
scoperta del sapere come modo per
emancipare la propria condizione. Agli inizi
del novecento, anche nella terra flegrea, la
formazione professionale passava
attraverso l’apprendistato che consisteva,
per il giovane avviato ad un mestiere, nel
mettersi a garzone presso un maestro
d’arte e rubargliene i segreti; nel
senso che l’apprendista doveva osservare e
capire da solo molte più cose di quante
gliene venissero spiegate o insegnate. Non
si trattava di incapacità didattica dei mastri,
ma del loro interesse a far apprendere nel
modo più lento possibile poiché questo
garantiva la disponibilità di un lavorante
per un tempo più lungo e ad una paga più
bassa, ma soprattutto rinviava di molto il
momento in cui un nuovo concorrente
si sarebbe inserito nel mercato. Dipendeva,
in gran parte, da questo, il fatto che la
maggioranza dei giovani si avviasse ad
esercitare lo stesso mestiere del padre che
si imparava quasi naturalmente e consentiva
di potenziare la capacità produttiva
dell’attività familiare.
L’arrivo degli stabilimenti, ma soprattutto dell’inglese
Armstrong, sconvolge questo sistema e lo
supera con la creazione di corsi di
formazione organizzati e finalizzati a
fornire agli apprendisti le conoscenze più
complete nel minor tempo possibile perché
questo li rende massimamente produttivi
nell’attività di fabbrica. Come si è già
detto, l’iniziativa funziona così bene
che, nel volgere di poco tempo, contadini e
pescatori diventano tornitori, fresatori,
disegnatori meccanici tanto abili da essere
ricercati da altre industrie italiane.
Questa situazione genera una condizione
materiale che modifica il senso comune
di tanti giovani di allora: si scopre che
imparare un mestiere mette nella condizione
di contrattarsi un lavoro e, di conseguenza,
di scegliersi una vita. Essere, quasi
automaticamente, avviati all’attività di
famiglia cessa di essere un destino
che, anzi, a poco a poco, ma nemmeno troppo
lentamente, diventa un costume superato
anche perché la vicinanza delle fabbriche e
la loro richiesta di personale facilitano di
molto questo atteggiamento. Esso prende
piede e si diffonde in maniera così ampia
da indurre il Comune di Pozzuoli a fondare
una scuola pubblica di formazione
professionale il cui successo è dimostrato
dal fatto che essa avvia operai
professionali verso le maggiori industrie
italiane.
Si è già detto che il fenomeno continua ed evolve nella seconda metà
del novecento con l’inizio delle attività,
anche di formazione professionale, svolte o
patrocinate da Olivetti, Pirelli e Selenia.
Com’è facilmente intuibile, anche questa vicenda formativa e
professionale ha risvolti positivi sul piano
della crescita sociale e civile ma
anch’essa lascia un’eredità di segno
negativo: quando la crisi delle fabbriche
evidenzierà che esse non riescono più ad
essere l’unico motore economico della zona
e che, di conseguenza, bisogna valorizzare
altre risorse avviando altre attività, ci
si scontra anche con la difficoltà di non
disporre delle professionalità necessarie.
Fino agli inizi degli anni ottanta, l’attività prevalente è quella
di fabbrica ed anche la scolarizzazione di
massa si incrocia con questa
caratterizzazione produttiva; per questo,
nei Campi flegrei, nascono prevalentemente
istituti tecnici, oltre ad un istituto
magistrale frequentato quasi esclusivamente
da donne che, ancora negli anni sessanta e
settanta, raramente si orientavano verso il
lavoro operaio di fabbrica, e ad un liceo
classico aggregato al seminario vescovile
dove si perpetuava, come altrove, il ceto
dirigente della città. Con gli anni
settanta la vicenda flegrea risente sempre
più del clima nazionale e la presenza delle
fabbriche perde, per certi aspetti, la sua
forza di determinare gli assetti sociali
collegati, in qualche modo, al lavoro, per
altri, le lotte operaie del sessantotto, e
degli anni seguenti, esercitano un ruolo
significativo nella vita sociale e politica
dei campi flegrei. Il sistema scolastico,
comunque, risente di entrambi queste spinte
e si articola, in sostanza, su tutti gli
indirizzi presenti a livello nazionale, ma
siamo già giunti agli anni ottanta e la forza
propulsiva dell’insediamento dei
grandi stabilimenti industriali è ormai
consegnata al passato.
La chiusura delle fabbriche, il bradisismo, lo
sradicamento professionale e sociale
In estrema sintesi, quando le fabbriche chiudono lasciano un territorio
spaccato fra fascia costiera ed
entroterra, un litorale, per la gran parte,
occupato da capannoni ed impianti dimessi,
un mercato del lavoro nel quale è
assolutamente prevalente la formazione
operaia di fabbrica, una cultura
imprenditoriale non ancora formata ed un
ambiente cementificato per ampia parte e
senza criterio anche in forza del fatto che
il posto sicuro e la conseguente
tranquillità economica hanno consentito a
molti di farsi la casa assai spesso
costruendola sul terreno nel quale la
famiglia aveva praticato, per anni,
l’agricoltura.
Oltre a tutto questo, la chiusura delle fabbriche crea il danno della fabbrica
chiusa; cioè viene meno una fonte di
reddito e la condizione materiale d’una
vita e d’una disciplina collettiva mirata
ad un fine. Quest’esperienza, che aveva
generato nel corso del 1900 una
significativa crescita sociale e civile
degli strati subalterni della città, viene
perdendosi abbastanza rapidamente, senza
alternative di eguale tenore ed aggravata
da due crisi bradisismiche. Nel 1970 e nel
1982-1984, il movimento ascendente del suolo
subisce un’impennata che mette a seria
prova la tenuta degli edifici e fa temere il
rischio di un evento eruttivo. La
conseguenza è che, nel 1970, si evacua il Rione
terra, la storica rocca d’origine
greco-romana di Pozzuoli, e la popolazione
viene reinsediata in un rione di
nuova costruzione, il Toiano, lontano dalla
città e da quel mare su cui e, spesso, di
cui quegli abitanti avevano vissuto. Nel
1982-1984 tocca al centro antico di Pozzuoli
che viene sfoltito per migliaia di residenti
anch’essi ricollocati in un città di
nuova fondazione, Monterusciello, un
agglomerato da trentamila vani lontano
qualche chilometro dal centro della città
flegrea.
Sradicamento lavorativo e sradicamento abitativo combinano i loro
effetti che si sommano con quelli,
altrettanto devastanti, determinati
dall’arrivo di un enorme flusso di denaro
pubblico, destinato a fronteggiare
l’emergenza e ad avviare la ricostruzione,
su cui si avventano affare, speculazione e
malaffare. In questo modo la chiusura delle
fabbriche dà luogo ad un problema sociale e
di cultura materiale che, per il contesto in
cui cala, diventa rapidamente un problema
civile oltre che economico.
|
Fig.
2 |
La civiltà delle fabbriche
Un problema tanto più visibile poiché, fino a pochi anni prima, nei
Campi flegrei si era vissuta una vera e
propria civiltà delle fabbriche. Già
l’Armstrong, agli inizi del 1900, si era
data una significativa valenza sociale
introducendo: lo sport del calcio, che avvia
e facilita, un processo di aggregazione
sociale; la religione protestante, che dà
vita ad una piccola comunità, ancor oggi
attiva, il cui merito è quello di
sprovincializzare il sentimento religioso
dei credenti; la cooperazione, specie quella
abitativa, che viene incentivata e sostenuta
con interventi a favore degli operai
associati i quali, in questo modo, riescono
a realizzare un nuovo rione della città.
Nella seconda metà del novecento, è l’Olivetti
ad avere un’intensa presenza sociale che
si articola in una molteplicità di azioni
che vanno dalla costruzione di case per i
lavoratori, alla creazione dell’asilo nido
per i piccoli delle lavoratrici-madri, alla
costituzione delle colonie estive per i
figli dei dipendenti, alla organizzazione di
un presidio sanitario di fabbrica destinato
anche alle famiglie dei lavoratori.
Ma, oltre all’impegno sociale delle aziende, vi era stato quello
delle organizzazioni operaie di fabbrica
cresciute di pari passo con la vicenda
politico-sindacale italiana che, in alcuni
passaggi, era stata precorsa dai sindacati e
dai partiti operai dei Campi flegrei, come
nel caso dell’incontro Dc-Pci o in quello
della costituzione dei Consigli di fabbrica.
L’organizzazione operaia, nata nell’Armstrong
d’inizio secolo, si era gradatamente, ma
rapidamente, rafforzata in fabbrica ed
estesa in città, tanto da portare, al
governo della Pozzuoli del 1914, il primo
sindaco espressione di una lista popolare,
democratica e progressista. Da allora, se si
eccettua la parentesi fascista, durante la
quale la fabbrica esprime gruppi di
resistenza civile, i ceti subalterni
sono costantemente coinvolti nel governo
della città che assai spesso dirigono
direttamente.
Ma la vita di fabbrica è anche qualcosa di più dell’impegno sociale
e politico; come spiega bene Ermanno Rea,
nel suo libro “La dismissione”, in una
provincia come quella di Napoli,
caratterizzata dall’abusivismo, dal
contrabbando, dalla camorra, il lavoro di
fabbrica rappresenta e produce valori
inusuali: la solidarietà, l’orgoglio di
chi si guadagna la vita, l’etica del
lavoro, la solidarietà. Quando, poi,
l’impegno in fabbrica tocca quasi ogni
famiglia, come era nei Campi flegrei, quei
valori e quegli atteggiamenti permeano
l’intera vita cittadina.
Difatti le città crescono intorno alle fabbriche sul piano abitativo e
su quello civile; basti pensare che il
comprensorio Pozzuoli, Arco felice, Lucrino,
Baia, Bacoli e Cuma, che costituiva un solo
comune con 28.000 abitanti, al censimento
del 1915, ora ne conta più di 100.000 con
gli oltre 80.000 residenti nel Comune di
Pozzuoli ed i 28.000 abitanti di Bacoli,
cittadina diventata comune autonomo, con
Baia e Cuma, nel 1919. Ma ancor maggiormente
significativa è la crescita civile della
zona che ha dimostrato la sua forza
in due drammatici passaggi: quello della
ricostruzione delle fabbriche e quello della
difesa della città in occasione del
bradisismo. Nell’immediato dopoguerra, a
Bagnoli, le maestranze, smentendo i
pronunciamenti d’una apposita commissione
alleata che datava ad un decennio la ripresa
produttiva dell’Italsider, seppero
riattivarla nel giro di pochi mesi, mentre
lo stesso facevano gli ex dipendenti del
Silurificio di Baia che ricostruirono di
sana pianta i capannoni in cui ospitare la
neonata Microlambda. In occasione della
crisi bradisismica del 1982-1984, furono
operai ed insegnanti a tenere in attività
fabbriche e scuole, nonostante il ripetersi
di infinite scosse telluriche, e ad evitare,
così, che prendessero corpo i progetti di
spostamento della città nella piana di
Villa Literno.
Il rapporto con la fabbrica, però, non è stato solo economico,
politico o sociale; è stato anche un
rapporto professionale di altissima qualità
che ha permesso agli stabilimenti flegrei di
esportare i propri prodotti in Italia e nel
mondo come nel caso della Sofer (ex
Armstrong), che ha fornite ruote e carrelli
alla metropolitana di New York, dell’Alenia
(ex Microlambda e Selenia) che continua ad
avere fra i suoi clienti la Marina Militare
americana, dell’Italsider i cui profilati
in ferro hanno retto lo sviluppo urbano
dell’Italia negli anni del boom.
Quella delle fabbriche è stata, senza dubbio, una grande vicenda che,
proprio per questo, lascia grandi problemi
economici ed un grande vuoto sociale.
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Fig.
3 |
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1. Selenia. Stabilimento Microlamba (Bacoli, Na)
2. Sofer. Veduta panoramica della fabbrica (Pozzuoli, Na)
3. Sofer. Capannone |
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