Numero 5 - 2002

 

non solo tecnica

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non solo tecnica


Raffaele Rauty


 

Ulteriore nuovo capitolo della sezione recensioni è costituito da non solo tecnica, in cui sono prese in considerazione e commentate opere o eventi di varia natura, letteraria, cinematografica, pittorica, fotografica, in cui emerga evidente l'attenzione alle dinamiche territoriali nella loro dimensione vasta e pervasiva dell'organizzazione sociale ed economica delle popolazioni e dell'ambiente. Raffaele Rauty, da sociologo urbano, inquadra il racconto di una trasformazione urbanistica della quale si è vissuto pienamente il dramma della dismissione, non intravedendosi ancora e chiaramente la prospettiva della riconversione

 

La Dismissione

Ermanno Rea 

Rizzoli, Milano, 2002

 

Come in un film di fantascienza, che presenta spesso luoghi di antiche civiltà divenuti nel tempo poco più che macerie, dimenticate e prive di significato, incapaci se non in particolari condizioni di riaccendere la memoria, così passano di frequente dinanzi ai nostri occhi luoghi, più o meno celebri, della civiltà industriale, fabbriche, più o meno grandi, più o meno storiche, che hanno avuto e dato significato. Sono luoghi nei quali gli individui, fattisi classe e produttori, hanno celebrato vita e conflitto, consegnando in moltissimi casi a quelle realtà percorso e senso esistenziale, speranze e sconfitte, contraddizioni e trasparenze, microcosmo di intere vite di intere esistenze. 

Senza indugiare su celebrazioni o nostalgie, ma solo sulla memoria del presente l’immagine della modernità che travolge i propri rapporti per costruirne sempre di nuovi, molto spesso indifferente alle esistenze degli uomini, non può non ingenerare sgomento, dolore, in alcuni casi rimorso e rabbia, tanto più quando il progresso da essa proposto si contrappone in modo sostanziale alle esistenze e al futuro degli individui. E il fatto che questi luoghi siano divenuti oggetto di discipline specifiche (l’archeologia industriale) o possano essere destinati a recuperi più o meno significativi, non smorza quel senso di insoddisfazione, la consapevolezza della totale parzialità con la quale le vite degli uomini e le loro storie sono dimensionate nelle necessità del processo produttivo e ne subiscono le ragioni.

Peraltro questo processo viene considerato, nella maggior parte dei casi, a posteriori e solo per poche fabbriche vi è l’occasione di una riflessione sulla loro storia e soprattutto su quella di coloro che le hanno fate vivere, giorno dopo giorno. Dunque un elemento particolare è la possibilità di narrare o assistere a quella transizione dall’esserci al non esserci più, centinaia o migliaia di vite lavorative ridotte a ragione economica, nazionale o internazionale, a compatibilità dello sviluppo o della trasformazione.

La dismissione, di Ermanno Rea, ci consente di cogliere questo processo, a proposito dell’Ilva di Bagnoli. Rea, come evidenzia nelle ultime parole del suo libro, questa storia ce la racconta “in purezza di cuore. Del tutto onestamente”, senza indulgere in modo particolare al processo che (come tanti altri) annulla o tende ad annullare individui e storie, presenti e passate. Così la fabbrica si personifica, è anche il suo contesto, la sua realtà, ma “non c’è libro che non ruoti intorno a un problema” ricorda Rea (è così che inizia il suo volume), e dunque possiamo essere consapevoli che nella sua scelta del tema, all’interno della quale non ha importanza “stabilire l’esatto punto in cui la cronaca si fa finzione e viceversa”, vi è una attenzione a luoghi e a persone tutt’altro che casuale, che vuole raccontare e riflettere, e che apre con il lettore quel discorso tipico di chi scrive, narratore che è anche testimone e interprete di ricordi, evidenziazioni, suggestioni.

D’altro canto, in una delle molte interviste rilasciate in merito al volume, Rea ricorda alcuni dei sensi di quella specifica fabbrica (la Fabbrica, come la chiama Buonocore, l’operaio specializzato protagonista della sua dismissione, elaborazione del lutto della sua chiusura). E ne ricorda due in particolare; il primo è legato al carattere di quell’insediamento: “In molti passano da Bagnoli e dicono ‘che peccato quella fabbrica così brutta in un posto così bello’. In realtà quello stabilimento ha salvato i luoghi dalla speculazione, è stato un baluardo”. E insieme a questa celebrazione del ruolo civilizzatore del lavoro degli uomini Rea ricorda un altro elemento, il nesso cioè tra quella fabbrica e i luoghi del suo insediamento: “La fabbrica è stata una straordinaria officina di ideali: c’era una sintonia eccezionale col rione”. Si affaccia qui una testimonianza che più volte si è ripresentata tra chi difendeva l’ambiente e chi la singola fabbrica che di volta in volta lo metteva in pericolo: la fabbrica, nel suo insediamento, ha comunque un effetto sociale (e dunque anche strutturale positivo se è vero che vedere i luoghi nel loro funzionamento ha un effetto di rassicurazione e quasi di premonizione.

Figura 1  

 

Si può dire che da queste premesse, che lo rendono più che testimone di quel processo, Rea mostra un percorso (la dismissione) nel quale Buonocore è attivo, in tutta la sua contraddizione, in quella fabbrica che ha visto nel tempo l’orgoglio di una classe venire meno costretto dal processo delle cose all’impotenza., ma nel quale i segni sono stati evidentissimi, perché “ovunque passino gli uomini tendono a lasciare vistose tracce delle loro inquietudini e dei loro affetti” (119). Ma la narrazione non investe e non potrebbe investire solo la fabbrica, perché il mondo che è nella fabbrica è anche intorno alla fabbrica, in quel quartiere, in una folla di uomini e donne tra le quali la narrazione rende prorompente la figura di Marcella e i suoi sentimenti ma che accompagna quella donna con tante altre figure e immagini che sono il popolo di una realtà.

Se, come ci ricorda Heiddeger, nel processo del costruire, dell’edificare, vi è un elemento connesso all’abitare, all’insediamento, legame emotivo proprio dell’umano, in quello della dismissione, nel mettere in mora definitivamente quello che si è costruito vi dovrebbe essere qualcosa di opposto, una destrutturazione che può anche essere compiuta in piena coscienza (come la compie Vincenzo Buonocore all’Ilva di Bagnoli) ma che segna indubbiamente una disintegrazione che va oltre il luogo (e che nello stesso lo coinvolge), investendo le persone, gli individui, la classe. Essa fa pensare insomma che quel processo non si determinerà più e che la simbiosi individui-luoghi sarà irrimediabilmente modificata.

E Buonocore è capace di operare questo processo di dismissione, figura doppia, precisa nel compimento del lavoro e pure “uomo spaesato in mezzo a tanti altri uomini spaesati”, presenti in verità, proprio in moltissimi esemplari a Bagnoli.

D’altro canto la crisi di Buonocore è la crisi di un’epoca, di una civiltà, di milioni di uomini: se ri-conoscere i luoghi della propria esistenza è elemento essenziale per l’individuo, perché questo li sottrae all’indifferenza che spesso finisce per accompagnare le consuetudini, la dismissione di quei luoghi notifica in modo inappellabile quella crisi.

E Rea, come i pochi scrittori che si sono legati a questo tema, ne è testimone e cronista consapevole.

 

 

1. Italsider. La dismissione (Napoli)

 

 

 

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