La Dismissione
Ermanno Rea
Rizzoli, Milano, 2002
Come in un film di fantascienza, che presenta spesso luoghi di antiche
civiltà divenuti nel tempo poco più che
macerie, dimenticate e prive di significato,
incapaci se non in particolari condizioni di
riaccendere la memoria, così passano di
frequente dinanzi ai nostri occhi luoghi, più
o meno celebri, della civiltà
industriale, fabbriche, più o meno
grandi, più o meno storiche, che
hanno avuto e dato significato. Sono luoghi
nei quali gli individui, fattisi classe
e produttori, hanno celebrato vita e
conflitto, consegnando in moltissimi casi a
quelle realtà percorso e senso
esistenziale, speranze e sconfitte,
contraddizioni e trasparenze, microcosmo di
intere vite di intere esistenze.
Senza
indugiare su celebrazioni o
nostalgie, ma solo sulla memoria del
presente l’immagine della modernità che
travolge i propri rapporti per costruirne
sempre di nuovi, molto spesso indifferente
alle esistenze degli uomini, non può non
ingenerare sgomento, dolore, in alcuni casi
rimorso e rabbia, tanto più quando il
progresso da essa proposto si contrappone in
modo sostanziale alle esistenze e al futuro
degli individui. E il fatto che questi
luoghi siano divenuti oggetto di discipline
specifiche (l’archeologia industriale) o
possano essere destinati a recuperi
più o meno significativi, non smorza quel
senso di insoddisfazione, la consapevolezza
della totale parzialità con la quale le
vite degli uomini e le loro storie sono
dimensionate nelle necessità del
processo produttivo e ne subiscono le
ragioni.
Peraltro questo processo viene considerato, nella maggior parte dei
casi, a posteriori e solo per poche
fabbriche vi è l’occasione di una
riflessione sulla loro storia e soprattutto
su quella di coloro che le hanno fate
vivere, giorno dopo giorno. Dunque un
elemento particolare è la possibilità di narrare
o assistere a quella transizione
dall’esserci al non esserci più,
centinaia o migliaia di vite lavorative
ridotte a ragione economica, nazionale o
internazionale, a compatibilità dello
sviluppo o della trasformazione.
La dismissione, di Ermanno Rea, ci consente di cogliere questo
processo, a proposito dell’Ilva di
Bagnoli. Rea, come evidenzia nelle ultime
parole del suo libro, questa storia ce la
racconta “in purezza di cuore. Del tutto
onestamente”, senza indulgere in modo
particolare al processo che (come tanti
altri) annulla o tende ad annullare
individui e storie, presenti e passate. Così
la fabbrica si personifica, è anche il suo
contesto, la sua realtà, ma “non c’è
libro che non ruoti intorno a un problema”
ricorda Rea (è così che inizia il suo
volume), e dunque possiamo essere
consapevoli che nella sua scelta del
tema, all’interno della quale non ha
importanza “stabilire l’esatto punto in
cui la cronaca si fa finzione e
viceversa”, vi è una attenzione a luoghi
e a persone tutt’altro che casuale, che
vuole raccontare e riflettere, e che apre
con il lettore quel discorso tipico di chi
scrive, narratore che è anche testimone e
interprete di ricordi, evidenziazioni,
suggestioni.
D’altro canto, in una delle molte interviste rilasciate in merito al
volume, Rea ricorda alcuni dei sensi di
quella specifica fabbrica (la Fabbrica,
come la chiama Buonocore, l’operaio
specializzato protagonista della sua dismissione,
elaborazione del lutto della sua chiusura).
E ne ricorda due in particolare; il primo è
legato al carattere di quell’insediamento:
“In molti passano da Bagnoli e dicono
‘che peccato quella fabbrica così brutta
in un posto così bello’. In realtà
quello stabilimento ha salvato i luoghi
dalla speculazione, è stato un baluardo”.
E insieme a questa celebrazione del ruolo
civilizzatore del lavoro degli uomini Rea
ricorda un altro elemento, il nesso cioè
tra quella fabbrica e i luoghi del suo
insediamento: “La fabbrica è stata una
straordinaria officina di ideali: c’era
una sintonia eccezionale col rione”. Si
affaccia qui una testimonianza che più
volte si è ripresentata tra chi difendeva
l’ambiente e chi la singola fabbrica che
di volta in volta lo metteva in pericolo: la
fabbrica, nel suo insediamento, ha comunque
un effetto sociale (e dunque anche
strutturale positivo se è vero che vedere i
luoghi nel loro funzionamento ha un effetto
di rassicurazione e quasi di premonizione.
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Figura 1 |
Si può dire che da queste premesse, che lo rendono più che testimone
di quel processo, Rea mostra un percorso (la
dismissione) nel quale Buonocore è attivo,
in tutta la sua contraddizione, in quella
fabbrica che ha visto nel tempo l’orgoglio
di una classe venire meno costretto dal
processo delle cose all’impotenza., ma nel
quale i segni sono stati evidentissimi,
perché “ovunque passino gli uomini
tendono a lasciare vistose tracce delle loro
inquietudini e dei loro affetti” (119). Ma
la narrazione non investe e non potrebbe
investire solo la fabbrica, perché il mondo
che è nella fabbrica è anche intorno alla
fabbrica, in quel quartiere, in una folla di
uomini e donne tra le quali la narrazione
rende prorompente la figura di Marcella e i
suoi sentimenti ma che accompagna quella
donna con tante altre figure e immagini che
sono il popolo di una realtà.
Se, come ci ricorda Heiddeger, nel processo del costruire,
dell’edificare, vi è un elemento connesso
all’abitare, all’insediamento, legame
emotivo proprio dell’umano, in quello
della dismissione, nel mettere in
mora definitivamente quello che si è
costruito vi dovrebbe essere qualcosa di
opposto, una destrutturazione che può anche
essere compiuta in piena coscienza (come la
compie Vincenzo Buonocore all’Ilva di
Bagnoli) ma che segna indubbiamente una
disintegrazione che va oltre il luogo (e che
nello stesso lo coinvolge), investendo le
persone, gli individui, la classe.
Essa fa pensare insomma che quel processo
non si determinerà più e che la simbiosi
individui-luoghi sarà irrimediabilmente
modificata.
E Buonocore è capace di operare questo processo di dismissione, figura
doppia, precisa nel compimento del lavoro e
pure “uomo spaesato in mezzo a tanti altri
uomini spaesati”, presenti in verità,
proprio in moltissimi esemplari a Bagnoli.
D’altro canto la crisi di Buonocore è la crisi di un’epoca, di una
civiltà, di milioni di uomini: se
ri-conoscere i luoghi della propria
esistenza è elemento essenziale per
l’individuo, perché questo li sottrae
all’indifferenza che spesso finisce per
accompagnare le consuetudini, la dismissione
di quei luoghi notifica in modo
inappellabile quella crisi.
E Rea, come i pochi scrittori che si sono legati a questo tema, ne è
testimone e cronista consapevole.
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1. Italsider. La dismissione (Napoli)
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