Con deliberazione 25 ottobre 2002, n. 4854, pubblicata sul Burc n. 58
del 25 novembre 2002, la Giunta regionale
della Campania ha emanato le “Direttive
regionali in materia di Accordo di Programma
- Approvazione testo (con allegati)”.
Esse si collocano, meritoriamente, nell’ambito dell’attività
amministrativa regionale volta a supportare
l’operato degli enti locali, in primis
i comuni, con l’intento di chiarire,
indirizzare, suggerire, uniformare le prassi
correntemente adottate. Ulteriore obiettivo,
più ostico da conseguire ma non meno
meritorio, consiste nell’innovare
interpretazioni consolidate e, a volte,
riduttive o eccessivamente burocratiche o
prudenziali, inaugurando dinamiche nuove e
percorsi operativi virtuosi, principalmente
resi tali da una maggiore snellezza e
velocità rispetto al passato.
La capacità di innovazione sarà, tuttavia, assoggettata al duplice
giudizio di merito e metodo.
Il primo, conseguente agli esiti qualitativi prodotti; il secondo,
derivante dalla ammissibilità formale
dell’innovazione, in grado di resistere in
sede di contenzioso innanzi alla giustizia
amministrativa. Ad esempio, la realizzazione
di un insediamento alberghiero lungo la
costiera sorrentina, in luogo di un impianto
per la produzione di cemento dismesso da
molti decenni, in località Pozzano nel
Comune di Castellammare di Stabia, ha
resistito sotto il profilo della legittimità
amministrativa, ma ha dato pessima prova
quale contributo alla valorizzazione
paesistica dei luoghi, determinandone,
viceversa un ampiamente riconosciuto
depauperamento.
Ne consegue che la soluzione amministrativa, apparentemente neutrale,
finisce con l’essere coinvolta nel
giudizio sugli esiti concreti delle
modifiche territoriali che ha contribuito a
determinare, in particolare, quando ha avuto
un taglio innovativo.
Le direttive in questione si orientano decisamente verso la seconda
prospettiva, ponendo al centro la
potenzialità dell’accordo di programma
(AdiP) in grado di determinare “le
eventuali e conseguenti variazioni degli
strumenti urbanistici”, così come
previsto dal 4° comma, dell’art. 34 del
DLgs 267/2000 che lo recepisce dalla
precedente legge 142/1990.
Per strumenti urbanistici si intendono, naturalmente, la vasta gamma
dei piani comunali, generali ed attuativi,
ma anche i piani territoriali di
coordinamento ed i piani territoriali
paesistici (Ptp).
La prima innovazione sta nell’avere inglobato negli strumenti
urbanistici i Ptp. Questi ultimi sono piani
ascrivibili alla tipologia delle cosiddette pianificazioni
separate, volti a tutelare i beni
paesistici che ricomprendono, per i quali vi
è una presunzione di oggettiva qualità,
che deve essere preservata.
Analogamente
per i piani dei parchi e delle riserve
naturali, in cui tale qualità consiste
nell’equilibrio eco-biologico di ambienti
scarsamente antropizzati o per i piani di
bacino idrografico, nei quali è il suolo
pericoloso l’oggetto della qualità da cui
tutelarsi, che le direttive regionali non
citano, tuttavia, esplicitamente.
Le oggettive qualità individuate e gli usi del suolo ammessi in tali
piani sono, per alcuni versi, obbligati: la
flora e la fauna di una riserva naturale
deve essere tutelata al pari di un lago,
come non può essere alterata una zona
instabile, se non per rimuovere i rischi
conseguenti.
Gli strumenti urbanistici comunali scelgono liberamente come utilizzare
il suolo, nei limiti imposti dalle normative
quadro e dai piani preposti alla sua tutela
sovraordinata, a mezzo dei tre strumenti
citati.
Per fare un esempio ai limiti del paradosso, i Faraglioni a Capri sono
un bene da tutelare in quanto inclusi in un
Ptp o non costituiscono uno scoglio
insuperabile ricorrendo ad un AdiP?
È evidente che con l’AdiP si pensava ad uno strumento agile che
consentisse di applicare procedure molto più
snelle in luogo di una giudicata
farraginosa, vale a dire la variazione delle
destinazioni d’uso incluse nei piani
comunali. Ma non modificando le regole al
contorno alle quali essi avrebbero dovuto
comunque fare riferimento.
Il problema sta, evidentemente, nella limitata o quasi nulla
autorevolezza che hanno, in Campania, i
piani di tutela paesistica ed ambientale,
per cui, se essi individuano porzioni di
territorio di particolare pregio o
pericolosità, la circostanza può non di
rado essere riconosciuta come poco
credibile.
Ma allora sarebbe meglio rendere credibili le previsioni di tali piani
- attività, per altro, in corso da parte
della Regione Campania -e varare una norma
urbanistica transitoria che autorizzasse il
ricorso ad AdiP nelle more della loro
revisione. Così facendo, viceversa, anche
se e quando diventeranno credibili, i Ptp e
gli altri strumenti di tutela e difesa del
suolo potranno continuare ad essere violati.
Peraltro, l’approccio adottato non sembra comunque poter incidere sulla
madre di tutti i piani paesistici della
Campania, vale a dire il piano
urbanistico-territoriale della penisola
sorrentino-amalfitana, in quanto vigente in
forza di una legge regionale e non di un
atto amministrativo quali sono, di norma, i
piani comunali e sovracomunali.
Ulteriore innovazione interpretativa su cui si cimentano le direttive
regionali consiste nella definizione
dell’oggetto dell’AdiP.
Prendendo le mosse dalla dizione “di opere, di interventi o di
programmi di intervento”, riportate al
comma 1 dell’art. 34 del DLgs 267/2000, ne
fa discendere che “l’accordo può
senz’altro essere promosso per la
definizione e l’attuazione di iniziative
ad ampio raggio, quali, ad esempio,
programmi di industrializzazione, piani
integrati di intervento, piani di
insediamenti produttivi, piani di riassetto
territoriale, progetti a sostegno
dell’occupazione”, come si evince dai
preliminari considerata alle
direttive, nel cui testo, sono
sinteticamente travasati in termini di
“ivi compresi gli strumenti di
pianificazione attuativi”.
Gli strumenti di pianificazione attuativi del Prg sono,
tradizionalmente, i piani particolareggiati
di esecuzione, i piani di lottizzazione
convenzionata, i piani di edilizia economica
e popolare, i piani degli insediamenti
produttivi e i piani di recupero, citati
nell’ordine cronologico che ne ha scandito
l’introduzione nel quadro normativo
statale. Ad essi si aggiunge l’ampia gamma
dei cosiddetti programmi urbani complessi,
attivati a far data dai primi anni ’90,
almeno per la componente degli stessi in
grado di incidere sugli assetti urbanistici
modificando le previsioni degli strumenti di
pianificazione vigenti.
Non a caso, questi ultimi sono stati rinominati programmi e non piani,
in quanto il fattore tempo,
nell’attuazione degli interventi previsti
assume particolare risalto, mentre nei piani
attuativi tradizionali, esso scandisce
l’arco temporale di efficacia dello
strumento, oltre il quale la proprietà
privata dei suoli non è più comprimibile,
ad esempio ai fini spropriativi.
Quest’ultima rimane assoggettata al quadro
regolamentare in termini di assetto
planovolumetrico del suolo definito dal
piano attuativo che, essendo a tempo
indeterminato, non li ascrive alla categoria
dei programmi.
Prendiamo ad esempio un Pip. Una volta vigente, si deve provvedere
all’esproprio dei suoli nell’arco dei
successivi dieci anni, pena la decadenza del
piano e la retrocessione dei suoli ad aree
sprovviste di piano regolatore generale.
Qualora l’acquisizione delle aree fosse
effettuata nei tempi prefissati, il comune
procedente potrà assegnare le aree ed
articolarne la trasformazione edilizia nei
tempi e modi che riterrà opportuni, in
pratica secondo ampia discrezionalità
politica ed amministrativa, nel rispetto,
ovviamente, del quadro normativo generale.
Ciò assume esplicita evidenza nel caso primigenio del piano
particolareggiato di esecuzione, per il
quale i nuovi assetti infrastrutturali
devono essere attuati nell’arco del
decennio, “rimanendo soltanto fermo a
tempo indeterminato l’obbligo di osservare
nella costruzione di nuovi edifici e nella
modificazione di quelli esistenti gli
allineamenti e le prescrizioni di zona
stabiliti dal piano stesso”. Poiché
oggetto dell’AdiP può essere un piano
attuativo, anche in variante al Prg, ne
consegue che un territorio potrebbe
teoricamente essere regolamentato,
progressivamente e nella sua interezza, per
piani di dettaglio, evitando il ricorso alla
pianificazione ordinaria.
Condizione inammissibile, solo considerando il quadro di riferimento
statale e regionale che impone formalmente
la unitarietà della pianificazione
urbanistica del territorio comunale, anche
se perseguibile in via gradata, con
procedure integrative di quelle canoniche.
Naturalmente, l’ipotesi appena formulata
costituisce un paradosso, ma è procedendo
per paradossi che si riescono a valutare
eccessi di potere annidabili in procedure
amministrative.
Si potrebbe obiettare come la conclusione di un AdiP sia subordinata
alla sussistenza di un interesse generale,
circostanza che va, tuttavia, sempre più
sfumando, attesa la tendenza politica e
culturale in atto di associare in modo
integrato interessi pubblici e privati nei
processi di trasformazione del territorio.
La pianificazione urbanistica è fallita, fu rilevato negli anni
passati, non senza ragione, poiché perseguiva
in astratto interessi pubblici, senza conseguire
nella pratica interessi circoscritti.
Si pensi, ad esempio, alle teorie sulla perequazione urbanistica che ne
sono scaturite.
Ne deriva che la cura degli interessi privati è di fatto rientrata, in
sede di pianificazione urbanistica, fra i più
generali interessi collettivi cui mirare, per
cui il recupero di un centro storico, di
proprietà privata, è ascrivibile al
perseguimento di un interesse pubblico, la
lottizzazione di suoli, con creazione di
attrezzature, di un comparto urbano fatiscente
può esserlo parimente, come lo è la creazione
di occupazione che scaturisce da un piano di
insediamento di aziende, rigorosamente a
capitale privato che legittimamente intendono
perseguire il profitto imprenditoriale.
Le direttive regionali riservano, giustamente, molto spazio alla
procedura di conclusione dell’AdiP, ritenendo
di applicarvi le procedure indicate dagli artt.
14 e successivi della legge 241/1990 e sue
modifiche ed integrazioni.
Ciò in forza della ricorrenza del termine “conferenza” contenuto
al comma 3 dell’art. 34 del DLgs 267/2000, che
le direttive assimilano alla “conferenza di
servizi” di cui alla citata legge 241/1990.
A sostegno di tale interpretazione ricorrono ad una sentenza della
Corte dei Conti che rileva come l’AdiP
costituisca la “specie di un istituto in via
generale introdotto nell’ordinamento dalla
legge 241 del 7/8/1990 …” (crf.
CC, sez. contr. Stato,
sent. n. 30 del 10/4/2000).
Certo è che le due normative richiamate non si citano, pur
avendone avuto tutto il tempo, per oltre dieci
anni dalla loro iniziale formulazione. Inoltre,
entrambe non accennano minimamente a piani
urbanistici, tanto meno attuativi, fra gli
oggetti della loro attenzione.
La legge 241/1990, si dilunga su “progetti di particolare complessità”,
su progetti preliminari o definitivi, su
valutazioni di impatto ambientale, ma giammai fa
riferimento a strumenti di pianificazione né
accenna al potere di variare gli stessi in sede
di conferenza di servizi.
Miscelando le due procedure si sarebbe dovuto praticare, per usare una
metafora insiemistica, una intersezione
delle normative e non l’unione. Ad esempio,
l’AdiP definito dal DLgs 267/2000 precisa che
esso è subordinato al “consenso unanime del
presidente della Regione, del presidente della
Provincia, del sindaco e delle altre
amministrazioni interessate”.
Limitazione che cade nel corpo delle direttive regionali, applicandosi
le disposizioni della legge 241/1990.
È buona norma, in casi di studio complessi come il presente,
riguardare l’operato di altre regioni
italiane.
Nella legislazione urbanistica recente, approvata a valle delle leggi
142 e 241/1990, spiccano i richiami all’AdiP
nel caso di Umbria, Lazio, Emilia Romagna,
Liguria, nelle cui norme quadro ci si limita a
riproporlo per la realizzazione di opere o
programmi di intervento e non di piani
urbanistici attuativi.
Altre regioni, fra cui Lombardia, Calabria e Puglia, indicano nell’AdiP
lo strumento, obbligatorio o possibile, per
l’approvazione, anche in variante agli
strumenti urbanistici generali, di programmi
urbani complessi.
Da ultimo, Toscana, Basilicata e Liguria istituiscono gli accordi di
pianificazione, vale adire procedure
all’interno delle quali si provvede ad
approvare o variare strumenti di pianificazione
generali o attuativi.
Dall’esame della citata legislazione regionale emerge, inoltre,
l’ampia attenzione riservata alle procedure di
partecipazione o di diffusione
dell’informazione inerente ai contenuti degli
AdiP e degli accordi di pianificazione.
Aspetto che le direttive regionali ignorano, rimandandole agli ordinari
meccanismi di partecipazione al procedimento
amministrativo, in generale, ed a quello
espropriativo, in particolare, che nulla hanno a
che vedere con quella che una volta veniva
definita, forse con eccessiva enfasi, la costruzione
sociale del piano.
Rilevandosi, per altro, che mentre nel caso dell’approvazione con
AdiP di un piano attuativo conforme al piano
urbanistico generale, i potenziali interessati
sarebbero ben individuabili, coincidendo, ad
esempio, con i relativi proprietari immobiliari,
qualora sia in variante ad esso, gli interessati
al procedimento amministrativo sarebbero tutti
coloro che risultano abilitati a proporre
osservazioni ad una variante al Prg adottata.
Come mai tante regioni, fra le quali alcune di riconosciuta tradizione
nella gestione del territorio, si preoccupano di
provvedere con norme proprie al fine di
perseguire risultati che la Regione Campania ha
ritenuto di centrare con un mero atto
amministrativo?
E, probabilmente, la domanda da porsi è anche un’altra.
Cosa succederà quando tutti i comuni chiederanno a province e regione
di sottoscrivere un’AdiP per uno qualsiasi dei
piani attuativi in variante anche sostanziale ai
propri Prg, brandendo un facilmente sostenibile
interesse pubblico e accampando il diritto che
vengano attuate le direttive rese ufficiali?
Quale sarà il distinguo per l’amministrazione
regionale e per quella provinciale per procedere
e non?
Meglio sarebbe stato, viceversa, anche qualora determinata ad
utilizzare l’AdiP per approvare piani
attuativi, che la Regione Campania vi fosse
ricorsa adducendo ragioni di straordinaria
urgenza, da motivare politicamente, operando sui
rarissimi casi che avrebbe ritenuto di
individuare o riconoscere.
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