Numero 4 - 2001

 

il rischio 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Approcci innovativi alla gestione del rischio territoriale


Mario Elia


a cura di

Isidoro Fasolino

 

Trasformazione, coevoluzione, partecipazione. Nuovi paradigmi d’intervento sul fragile territorio del nostro paese aiutano ad abbandonare progressivamente prassi consolidate volte a contrapporsi in luogo di accompagnare, mitigandoli, i fenomeni di dissesto idrogeologico. Mario Elia*, prendendo le mosse da una tesi di laurea in Tecnica Urbanistica discussa presso l’Università di Salerno, si sofferma sulle suggestive quanto ancora poco diffuse pratiche dell’ingegneria naturalistica

 

 

 

 

 

Il lavoro si pone come obiettivo quello di studiare i principi e le pratiche innovative, necessarie ad una gestione efficace del rischio territoriale rispetto alle esigenze delle persone e del territorio. La vicinanza alle zone colpite dagli eventi alluvionali del 5 maggio 1998, ha garantito la possibilità di conoscere in modo dettagliato tutti gli strumenti e le scelte messe in atto per una situazione straordinaria d’emergenza, come quella di Sarno. Infatti, il primo passo è stato quello di studiare e di catalogare tutti gli interventi (sia di tipo urbanistico, che di tipo strutturale) realizzati sul territorio dell’agro nocerino sarnese e del Vallo di Lauro nell’intervallo tra il dicembre 1999 e il gennaio 2001. Quest’esperienza, fatta direttamente sul territorio, ha permesso di individuare quelle che erano le problematiche da approfondire giacché, per il territorio in esame, non erano state tenute in considerazione. Si fa qui, in particolare, riferimento all’ingegneria naturalistica e alla pianificazione partecipata. Queste due tipologie d’intervento, infatti, nel territorio di cui sopra, non sono state utilizzate ma si è preferito realizzare un’estesa cementificazione delle montagne e la realizzazione d’interventi a volte lontani dalle reali esigenze degli abitanti del posto.

Le opere più importanti attuate in quest’area sono state realizzate nei Comuni di Quindici e di Sarno. L’intervento è stato diviso in due fasi, una relativa alla messa in sicurezza del territorio, ed una relativa alla ricostruzione degli edifici danneggiati. Relativamente alla messa in sicurezza sono state realizzate opere di canalizzazione con briglie e vasche finali di raccolta. Le briglie tendono a stabilizzare il fondo dell’alveo, a ridurre il rischio d’erosione delle sponde, a diminuire le pendenze e a contenere la velocità delle correnti. I canali tendono a contenere, senza esondazioni, le massime portate previste; hanno larghezza di quattro o cinque metri, tale da consentire agevolmente le operazioni di pulizia con mezzi meccanici. Le vasche terminali raccolgono le acque e il fango convogliati dai canali, esercitando un effetto di forte contenimento delle portate uscenti, rallentando in modo decisivo la velocità dei flussi, consentendo così il deposito della maggior parte del materiale solido trasportato, agendo inoltre come un valido presidio per le zone sottostanti e come contributo per l’alleggerimento delle portate scaricanti a valle. Le più imponenti opere per la difesa dalle colate sono state realizzate nel Comune di Quindici e consistono in due vasche per l’accumulo di fango. La prima, realizzata a valle del vallone San Francesco, con un volume pari a circa 35.000 mc, presenta un manufatto attraverso il quale il flusso è convogliato direttamente verso il canale di recapito, mentre le eventuali portate di fango di maggiore entità sono inviate verso un canale a sezione molto variabile che ne integra il percorso verso la sottostante vasca. La seconda vasca, realizzata nella parte alta del vallone, ha dei muri di sponda di altezza ridotta rispetto al canale di monte e di valle. In tal modo le portate più elevate, che non sono contenute nel canale centrale lungo 150 m, esondano in dodici sacche laterali limitate da muri longitudinali e setti trasversali in grado di contenere un volume complessivo di circa 10.000 mc. Inoltre, si stanno studiando gli effetti di una terza vasca già progettata, anch’essa di un volume di accumulo pari a 35.000 mc e dotata di un dispositivo per la separazione delle portate idriche separate da quella delle eventuali portate di fango, mediante la realizzazione di un dispositivo in scala 1/40 che è realizzato nel Comune di Quindici. Per quanto riguarda invece la fase di ricostruzione, è necessario rilevare che ben 67 miliardi sono stati stanziati a seguito di ordinanza nell’ambito del Dl 132/1999, ma che la legge giace inapplicata. Infatti, lo stesso subcommissario responsabile della messa in sicurezza e della ricostruzione del territorio, dopo l’evento Sarno, spiega che la prima citata ordinanza avrebbe voluto dire abbandonare i luoghi distrutti. Per evitare questo, è stata creata la carta della pericolosità, attraverso la quale ogni cittadino potrà essere informato sulla possibilità di ricostruzione del proprio edificio danneggiato nello stesso posto in cui si trovava prima degli eventi calamitosi, se questo non sarà possibile si provvederà a garantire un risarcimento. Il cittadino, allora, sarà lasciato libero di decidere se avere un rimborso pari alle spese di ricostruzione o di riavere la propria casa ricostruita. Si sarebbe già dovuto essere in grado di ripartire con la ricostruzione, salvo problemi di illegittimità che potrebbero sorgere nell’applicazione del decreto prima citato. Questi problemi riguardano solo il Comune di Sarno, giacché, per gli altri comuni commissariati (Bracigliano, Siano e Quindici) non è ancora in programma la realizzazione di una carta della pericolosità, e sarà quindi necessario più tempo per iniziare la ricostruzione. 

Figura 1

Ritornando alla prima fase di messa in sicurezza, c’è da notare che la maggior parte delle opere realizzate consistono nel rifacimento, in cemento armato, dei canaloni naturali interessati dalle colate. La logica seguita per la realizzazione di quest’intervento, quindi, poco ha a che fare con quelli che sono i problemi della tutela dell’ambiente e della sua integrità, ma mira esclusivamente alla riduzione del rischio.

Ma siamo sicuri che questo sia il metodo migliore? La forte cementificazione appena descritta sarà in grado di garantire, da sola, la stabilità richiesta?

Certo è che in nessuno di questi luoghi, si è pensato di provvedere al recupero del patrimonio forestale che era presente prima degli eventi calamitosi. Molto banalmente, chiunque potrebbe pensare che questo tipo di catastrofi avvengano perché non ci sono più alberi in grado di garantire la stabilità ai pendii. Questo aspetto sembra non aver minimamente interessato i vari organi tecnici e istituzionali preposti alla difesa dell’area in esame. A tal fine l’ingegneria naturalistica propone metodi alternativi alla risoluzione dei problemi in questione. L’ingegneria naturalistica è una tecnica che studia la possibilità di uso di piante in unione con materiali non viventi (pietrame, terra, legname) come pure materiali da costruzione. L’efficacia di questa tecnica è proporzionata alla capacità di attenuare l’azione battente della pioggia, alla capacità di trattenere acqua e alla densità dell’apparato radicale delle piante utilizzate. Bisogna, inoltre, fare in modo che il manto vegetale utilizzato sia in grado di svilupparsi nel minore tempo possibile nel rispetto, s’intende, delle specie arboree preesistenti. Utilizzare, infatti, piante completamente estranee al luogo prescelto, oltre a comportare chiari impatti negativi sull’ecosistema originario, potrebbe non garantire l’attecchimento della specie prescelta, con evidenti conseguenze sulla stabilità desiderata. Le tipologie di intervento possono essere classificate in due gruppi: interventi di tipo radicante intensivo e interventi di tipo radicante estensivo. Il primo gruppo riguarda il rivestimento arboreo e consiste nell’utilizzare alberi che riescono a radicare in maniera profonda nel terreno. Il secondo gruppo riguarda per lo più le piante erbacee, che espandono le loro radici in maniera meno profonda rispetto alla tipologia prima descritta, ma in ogni modo efficace per la formazione di fitti cespi di radici che ricoprono totalmente il volume di suolo interessato dall’intervento. È inutile rilevare che gli alberi garantiscono un miglior aggrappamento al suolo, ma su versanti fragili il peso proprio di un tale tipo di intervento (radicante intensivo) può essere gravemente pericoloso perché capace di favorire il denudamento integrale in caso di frane e slittamenti. I processi mediante i quali le piante influenzano la stabilità dei pendii possono essere raggruppati in processi meccanici e idrologici. I primi sono collegati alla capacità delle radici di interagire fisicamente con lo strato di suolo di cui fanno parte, i secondi sono collegati ai rapporti che s’instaurano fra ciclo idrologico e vegetazione. La massa delle radici può raggiungere valori compresi tra la metà e un terzo della massa epigea dell’albero, dove per massa epigea s’intende la parte della pianta che si trova fuori del terreno. La possibilità di formare radici estese, inoltre, è influenzata anche dalle condizioni locali: il salice, ad esempio, forma radici piatte in un terreno fertile e radici laterali in ambiente secco. La capacita delle radici di bonificare terreni franosi è maggiore per terreni che sono soggetti a scivolamenti tipo earth flow e debris flow (la classificazione cui si è accennato divide le frane da scivolamento in due categorie: la prima caratterizzata dalla presenza di materiale sciolto, la seconda caratterizzata dalla presenza di materiale più compatto). In generale si può affermare che la profondità della zona di influenza varia dai 10 cm circa per le piante erbacee ai 2-3 m per gli arbusti. 

Figura 2 - Schema idraulico della vasca Petraro; invaso fuori linea per la raccolta dei materiali fangosi in eccesso relativi al vallone San Francesco (Quindici, Av)

 

È fondamentale che le piante approfondiscano le loro radici in uno strato più resistente di quello da stabilizzare. Per avere questa condizione è necessario che sia presente o un substrato fratturato e, quindi, raggiungibile, oppure sia presente uno strato di transizione attraverso il quale si verifichi un incremento della resistenza dall’alto verso il basso. Uno degli esempi più interessanti, classificabili tra gli interventi di tipo radicante estensivo, è quello fornito dall’azienda della Lomellina Vetivaria nella quale si studiano e si applicano gli effetti stabilizzanti del vetiver nella sistemazione dei pendii. Il vetiver è una pianta perenne che può essere innestata come pianta sterile, evitando così i problemi di impatto ambientale cui prima si è accennato. Una delle caratteristiche peculiari di questa pianta è di essere supportata da una grossa massa di radici spugnose che crescono verticalmente in maniera relativamente rapida, in questo modo si può garantire un robusto attecchimento al suolo senza copromettere la vita delle piante preesistenti. Questo tipo di intervento si distingue dagli interventi strutturali classici (calcestruzzo armato, massicciate, terrapieni, eccetera) giacché il vetiver non è una barriera strutturale morta, ma una barriera vegetale naturale viva ed autoadattante: mentre le sue radici penetrano profondamente nel terreno, la parte aerea della pianta cresce formando una siepe fitta, alta fino a due metri che trattiene la terra e, nel caso di esondazioni, rallenta il flusso dell’acqua, trattenendone nello stesso tempo fango e detriti. Vengono così a crearsi dei terrazzamenti a monte che comportano, per il loro effetto consolidante, una forte riduzione dell’erosione superficiale dovuta alle acque ruscellanti. Questa pianta, resiste in terreni con ph variabile tra 4 e 12, e può sopportare intervalli di temperatura compresi tra -35°C e +45°C. A questo proposito ricordiamo che esistono due specie di vetiver: il vetiver grass e il cold vetiver, la prima particolarmente indicata per le zone a grossa escursione termica, la seconda ai climi freddi.

Figura 3 - Schema idraulico a doppio invaso fuori linea, a monte della vasca Petraro per la sistemazione idraulica del vallone San Francesco (Quindici, Av)

L’ingegneria naturalistica da sola, sicuramente, non riuscirebbe a risolvere problemi così grandi come quelli che si sono avuti nel sarnese, ma dimenticarsene totalmente non è certo una scelta corretta.

Come già precedentemente accennato, il lavoro si pone come obiettivo finale quello di creare le basi per la redazione di una proposta innovativa per la gestione del rischio territoriale, mirata, fra l’altro, ad un coinvolgimento maggiore degli abitanti delle aree a rischio. Per fare questo si sono approfondite le metodologie urbanistiche della pianificazione partecipata. Pianificare in maniera partecipata vuol dire, in generale, coinvolgere le persone nelle scelte relative alla gestione del territorio in modo da cercare, quanto più possibile, di rispondere ad esigenze concrete. Nelle aree a rischio questo metodo di pianificazione permette di creare un interessante scambio d’opinioni e d’informazioni con i residenti. Purtroppo la pianificazione partecipata nelle aree a rischio e, in particolare, nelle aree a rischio idrogeologico, è una disciplina che non trova larga applicazione. Il motivo di questa mancanza potrebbe risalire ad un’ignoranza storica. Infatti, fin dai secoli scorsi proprio nell’Italia meridionale e, più in particolare, nella zona di Sarno e comuni limitrofi (Nocera, S. Egidio del monte Albino ecc.) erano in vigore leggi che ponevano le basi per un approccio partecipato alla gestione del rischio territoriale. Uno dei primi decreti è quello n. 168, anno 1806, in cui si ordina l’osservanza delle leggi e degli stabilimenti anteriori per la conservazione delle strade e canali e si stabilisce che le terre, piane e montuose, prospicienti strade o canali, non possono modificare il loro stato nel caso in cui fosse stato prescritto che i terreni non potevano essere coltivati.

 Figura 4

Analogamente boschi o fratte non si potevano abbattere o diradarsi senza permesso regio, concesso con le debite regole su supporto del Ministro dell’interno. I possessori delle terre vicine alle strade avevano l’obbligo di tenere sempre puliti i fossi per facilitare lo scolo delle acque. Ma il riferimento originario per tutti i decreti su esposti rimane “lo Editto per la salvaguardia delle selve e dei boschi” del 1749. Questo non solo imponeva la tutela e la vigilanza sui boschi e le foreste affinché non fossero devastate e distrutte, ma proibiva anche di tagliare gli alberi il cui frutto era adatto all’ingrasso degli animali, come querce, cerri, esiche, olmi, pini, faggi, ecc. “I terreni dovranno restare adibiti all’uso delle selve, che non potranno mai essere tagliate per ridurre i terreni a coltura”. I trasgressori sarebbero stati sottoposti a severa pena.

 Figura 5

Tornando alla redazione di una proposta innovativa si può osservare che, lì dove l’urbanizzazione è già presente, può essere creata una vera e propria struttura di controllo e monitoraggio costituita dagli stessi abitanti del posto. Le persone diventano così delle sentinelle sempre presenti sul territorio che controllano l’eventuale istaurarsi di fenomeni ad alto rischio. Uno degli strumenti migliori per l’acquisizione di questo tipo di dati da parte delle strutture preposte alla gestione del rischio è Internet. In breve, le persone via e-mail, o mediante la connessione ad un sito specifico, potrebbero informare le autorità su eventuali fenomeni d’allarme che verrebbero a verificarsi sul territorio in cui vivono. Tutto questo, inoltre, andrebbe supportato dall’istituzione di un programma di informazione e di coinvolgimento sul territorio da realizzarsi con delle scadenze precise e prefissate. In ogni area interessata dal rischio dovrebbero costituirsi, quindi, delle strutture a carattere locale che fissino degli incontri, ad esempio settimanali, attraverso i quali i dati siano resi pubblici allo scopo di un aggiornamento periodico dello sviluppo dei possibili eventi di allarme. Parallelamente a quest’attività va istituita una struttura (questa volta costituita da tecnici e da esperti) che analizzi in modo scientifico i problemi e che contribuisca, per quanto possibile, alla loro risoluzione. Indispensabile, quindi, realizzare dei comitati scientifici che lavorano esclusivamente su zone limitate di territorio effettuando un monitoraggio costante.

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I passi fondamentali da seguire nella creazione di un modello innovativo di gestione del rischio territoriale sono quindi i seguenti:

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1. individuazione e perimetrazione delle aree in cui il rischio è evidente: per fare questo sono coinvolti non solo comitati tecnici e scientifici locali, ma particolare importanza assume il coinvolgimento degli abitanti del posto;

2. creazione di una struttura finalizzata alla gestione di dati acquisiti: per fare questo bisogna partire dalle autonomie locali già esistenti che si occupano di tutela e gestione del territorio, spingendole verso la creazione di un vero e proprio centro di smistamento dei dati che, oltre a contribuire alla creazione delle aree di cui al punto precedente, si occupi dell’incentivazione sul territorio di stimoli e sensibilizzazioni per una migliore gestione del rischio territoriale;

3. sovrapposizione delle scelte fatte con le esigenze sul territorio: è importante controllare che le scelte effettuate per la gestione del rischio territoriale vadano a tenere conto di tutte le esigenze sul territorio per far sì che gli interventi non risultino inadeguati e, quindi, poco efficaci.

 

Figura 8

 

* Mario Elia si è laureato in ingegneria civile nel luglio 2001, presso l’Università di Salerno, discutendo una tesi di Tecnica Urbanistica su “Principi e pratiche per un approccio innovativo alla gestione del rischio territoriale”, relatore il Prof. Ing. Roberto Gerundo, correlatore il Dott. Ing. Isidoro Fasolino

 

 

 

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