Numero 4 - 2001

 

la politica dei trasporti 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Politiche delle infrastrutture, dei trasporti e del territorio


Roberto Gerundo

 

 

 

Il 2002 volge rapidamente alla conclusione e non sarà ricordato come un anno rutinario dai pianificatori territoriali e dagli urbanisti, bensì di svolta, per almeno un duplice ordine di motivi: l’epocale inondazione dell’Europa centrale e l’affermarsi di una nuova politica del territorio in Italia.

Con il primo, per sorprendente coincidenza seguito dal Summit Onu della Terra (Sot) di Johannesburg, i temi dell’energia inquinante, del mutamento del clima, della desertificazione, delle inondazioni, della povertà e dell’inquinamento nei paesi in via di sviluppo, oltre ad essere stati iscritti stabilmente nell’agenda dei governi del pianeta, sono diventati un problema per un’opinione pubblica sempre più sensibile ed allarmata dai contraccolpi che l’ambiente, in maniera episodica ma sempre più frequentemente, comincia ad infliggere alla quotidianità della vita.

Anche se gli sconvolgimenti ambientali, secondo le stime più accreditate, dovrebbero impattare sulla terra in maniera appariscente e sistematica non prima di cinquant’anni, lasciando un margine di tempo che spinge a fare domani quello che si sarebbe potuto fare oggi.

Il nostro paese si è positivamente distinto fra i più attenti alla questione ecologica in sede di Sot, sebbene, sia per la dimensione globale del problema, sia per i tempi oggettivamente lunghi, l’impatto sul precario assetto territoriale italiano rischia di non essere ricompresso nelle aspettative di vita di gran parte della popolazione oggi matura per età, sensibilità e formazione.

Al contrario, la politica del territorio, che il Governo italiano ha intrapreso e che, proprio in questo 2002, ha formalizzato, mira alla realizzazione di infrastrutture e può essere riassunta nello slogan molte, benedette e subito.

Problemi globali e locali hanno così trovato la sintesi auspicata: per il prossimo mezzo secolo siamo con l’Europa per la salvaguardia dell’ambiente, nell’immediato reinfrastrutturiamo rapidamente il paese.  

Fra l’intervento sul breve e sul lungo periodo, viene così a mancare quello a medio termine, tipico dei processi di pianificazione territoriale che dovrebbero conferire all’ambiente, che vivremo di qui al prossimo ventennio, una organizzazione spaziale e funzionale adeguata a meglio vivere la quotidianità, nel mentre si provvede a curare i mali del pianeta, i cui risultati saranno visti e goduti, qualora conseguiti, dai nostri figli e nipoti. 

La nuova politica del territorio trova, per altro, enfasi nella stessa ridenominazione del Ministero competente che diventa delle infrastrutture e dei trasporti, in luogo dei lavori pubblici.

Ancora una volta, l’idea di varare un Ministero del territorio che governasse gli assetti urbanistici del paese alla scala di competenza dello Stato, con attinenza alle problematiche paesistico-ambientali, infrastrutturali e di assetto territoriale sovraregionale, non è risultata vincente. Il nuovo Ministero restringe emblematicamente il proprio campo di azione ai processi di infrastrutturazione sovraordinandoli agli assetti territoriali.

In questo, l’azione di Governo assume connotazioni paradigmatiche che fanno registrare un salto di qualità culturale.

 

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Il metodo della pianificazione, a far data dal 1942, con la pionieristica legge 1150, rivisitata dai numerosi interventi normativi varati negli ultimi sessanta anni anche se non riformata, era stato molto spesso contraddetto nei fatti ma mai superato. 

La motivazione politico-sociologica che se ne può dare è che, nel nostro paese, la leadership culturale è sempre stata riconosciuta alla sinistra, anche se, nel concreto, la gestione del potere e, quindi, del territorio, è stata ampiamente praticata dalla destra, che tuttavia non aveva mai avuto interesse a forzarne i suoi presidi intellettuali.

Mi sia consentito, solo ai fini esemplificativi ed assolutamente privo della pretesa di associarvi specifici movimenti o partiti, di collegare al termine sinistra la propensione a praticare politiche che favorissero la crescita del benessere collettivo dal quale fare emergere l’individuale; al termine destra l’esatto contrario, vale a dire politiche che liberassero la propensione al benessere individuale, ipotizzando che la sua diffusione potesse determinare quello collettivo.

Nel settore della pianificazione urbanistica, anche se la destra ha molto lavorato per renderla, in questi anni, poco efficace, essa stessa ha ritenuto di mantenerla in essere per un duplice motivo: da un lato, per accusarla di effetti paralizzanti, in modo da poterla agevolmente superare in specifiche congiunture politiche; dall’altro, per mantenere un freno a tendenze speculative eccessive e smodate sul breve periodo, che avrebbero avuto contraccolpi negativi su quelle ordinarie e più controllate ma di lungo periodo.

Il tentativo che sta maturando e sortendo i suoi primi effetti consiste nel ritenere definitivamente superato il metodo della pianificazione del territorio per sostituirlo con il metodo della infrastutturazione del territorio stesso.

In passato, la politica della infrastrutturazione non era connotata da una sua cultura propria e dichiarata.

Oggi si propone una cultura delle infrastrutture esplicita: esse devono realizzarsi, laddove emergano criticità immediatamente verificabili, nel tempo più breve possibile; avranno, inoltre, funzione conformatrice degli assetti urbanistico-territoriali.

Il progetto infrastrutturale diventa ordinatorio dell’organizzazione dello spazio, assume il ruolo di opera motore di insediamento delle funzioni connesse e che dall’infrastruttura possono trarre il maggior beneficio: gli usi del suolo si autoorganizzano per drenare i maggiori vantaggi dalle potenzialità d’uso offerte dalle singole infrastrutture.

Il Governo ha più volte affermato di non credere ad una pianificazione strategica delle infrastrutture ma di puntare alla realizzazione di infrastrutture strategiche, quindi, implicitamente, di non riguardarle come archi che innervino un sistema territoriale complesso, ma come degli indicatori di emergenza, di mancata funzionalità a parità di domanda e di offerta di un determinato servizio reso dalla singola infrastruttura: al più, sempre per il Governo, si può parlare di pianificazione dell’emergenza.

C’è da notare, inoltre, come i sostenitori del progetto ed in contrapposizione al piano, attivi nel dibattito che catalizzò l’attenzione del mondo accademico negli anni ’80, per proseguire nei primi del decennio successivo, vedono incoraggiate le loro tesi e ritornano a far sentire la propria voce secondo la quale, in puro spirito marinettiano, l’urbanistica è morta e sepolta1.

 

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Al di là delle interpretazioni che si possono dare dell’azione di Governo o delle dichiarazioni da esso rese, quali sono i provvedimenti amministrativamente formalizzati nel corrente anno? 

Per le nuove infrastrutture, il Governo ha operato con due azioni concentriche: la legge obiettivo (443/2001) ed il collegato infrastrutturale (166/2002), volendo perseguire il traguardo di una generale accelerazione di opere pubbliche o di uso pubblico. 

 

Sul versante della legge obiettivo (Lo) sono stati individuati, con successivi documenti di programmazione progressivamente affinatisi e confluiti nella delibera Cipe 121/2001, circa un centinaio di interventi, per la maggior parte dei quali l’inclusione in elenco servirà ad attivare le deroghe procedurali introdotte, per le opere cosiddette strategiche, dal decreto legislativo di attuazione dell’agosto 2002, il cui finanziamento è riservato a solo 21 di esse.

Su un aspetto della manovra governativa non può esservi che larga condivisione: tentare di snellire le procedure burocratiche che oggi risultano defatiganti, senza per altro garantire una maggiore qualità dell’opera, per la cui realizzazione, mediamente, è stato calcolato necessitino 2.410 giorni, di cui la metà impiegati per attraversare il labirinto autorizzatorio.

Se lo sforzo è condivisibile, lascia qualche perplessità il metodo: è sbagliato, ad esempio, guadagnare tempo comprimendo le possibilità d’interlocuzione degli enti locali.

Invece di sottrarre loro capacità decisionale, si dovrebbe fare giusto il contrario: responsabilizzarli, individuando tempi certi, pena l’attivazione dell’intervento sostitutivo dello Stato per l’espletamento delle procedure di pianificazione, progettazione e realizzazione degli interventi.

Tali fasi sono, viceversa, avocate all’autorità centrale, non solo allorquando si tratti di infrastrutture che attraversino più territori regionali, per le quali, sebbene si possano imporre tempi certi anche per la concertazione interistituzionale, si troverebbe una qualche utilità pratica, ma anche per opere ricadenti in una sola regione o provincia o, addirittura, in un solo comune.

Caso quest’ultimo in cui l’organico inserimento nei contesti urbani di riferimento, mediante le indispensabili revisioni funzionali e normative delle strumentazioni di piano, appare indispensabile e non può essere realizzato (quando raramente lo si fa) sempre e soltanto ex post, ad opera conclusa ed a criticità conclamata, ma on going. Tutto ciò a fronte di finanziamenti altrettanto certi. Aspetto che, invece, ritorna incerto stando al decreto legge 194, cosiddetto taglia spese, varato dal Governo nel settembre 2002.

Si ha l’impressione che il principio di sussidiarietà, ormai norma costituzionale, sia stato puntualmente ribaltato: invece di favorire l’azione decentrata, contingentata nei tempi, con forme di controllo e di possibilità di sostituzione centralizzata, in un quadro definito di trasferimenti finanziari, si propone un’azione accentrata, senza forme efficaci di controllo (il controllato ed il controllore coincidono nel Governo) e senza certezze finanziarie.

 

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Le problematiche di natura territoriale che si pongono per le singole opere contenute nel programma Cipe pongono questioni relative a scelta, localizzazione e impatto ambientale.

Nella citata delibera Cipe di individuazione delle opere c’è di tutto: opere di cui si discute, per le quali si cercano soluzioni progettuali o si invocano le risorse necessarie alla realizzazione da anni o decenni.

Sono tutte utili e urgenti? La risposta del Governo è stata aprioristicamente positiva.

Subito dopo il Governo ha fatto i suoi passi per la richiesta di redazione, in sede europea, di un master plan per gli assi di trasporto ed, in ambito nazionale, per l’aggiornamento del Pgt, così come recita l’art.1 del collegato infrastrutturale (Ci). Ma nei trascorsi 18 mesi di avvio della legislatura attualmente in corso, non sarebbe stato opportuno varare proprio quest’ultimo strumento, indispensabile per conseguire decisioni tecnicamente coerenti e trasparenti?

E non si sarebbe dovuta compulsare la Commissione europea, essendo favoriti anche dalla presidenza italiana pro-tempore, per l’inserimento di alcune opere considerate strategiche come il ponte sullo stretto di Messina, fiore all’occhiello della Lo, nel piano dei trasporti europeo presentato nel luglio 2002?

Ma restando al ponte: si tratta di un’opera paradigmatica o emblematica? A valore trasportistico o esclusivamente simbolico?

Da considerazioni tecnico-economiche rese note, emerge che esso è chiamato a smaltire un traffico valutato nell’ordine di un ventesimo di quello ordinariamente domandato, ad esempio, sul grande raccordo anulare della capitale, con una offerta infrastrutturale di gran lunga superiore a qualsiasi altra esistente o progettata in Italia. 

Il sovra-dimensionamento può essere, tuttavia, accettabilmente praticato in un quadro di riassetto territoriale alla scala interregionale (Calabria e Sicilia in primis) e di programmazione economica di livello europeo e mediterraneo che bisogna cominciare a costruire con azioni politico-istituzionali, se non prima, per lo meno, insieme alla realizzazione dell’infrastruttura stessa.

Ma, a quanto pare, la pianificazione territoriale è estranea alle prospettive culturali del Governo, coerentemente alla sua natura liberista.

Si può riflettere, inoltre, sulla circostanza che a ricoprire la carica di Ministro al ramo sia stato chiamato un esperto costruttore di infrastrutture (gallerie) e non di pianificazione dei trasporti: ciò sta a significare che, per supportare la complessiva strategia di Governo, serve fare le opere più che le opere servano.

Con ciò non si vogliono sostenere dubbi diffusi sull’insieme delle opere accelerate dalla Lo, quanto evidenziare il legittimo sospetto che si sarebbe potuto effettuare, nei tempi già trascorsi infruttuosamente a questo fine, una programmazione più chiara, articolata e convincente.

Alle questioni localizzative si è già accennato e ci si ritorna solo per sostenere la scelta federalista già operata in sede di riforma costituzionale in merito alla legislazione concorrente, che prevede la piena competenza regionale relativamente all’ubicazione anche delle grandi opere di rilievo nazionale.

Queste ultime sono tali per l’impegno finanziario necessario per la loro realizzazione e per i benefici macroeconomici che conseguiranno a favore del paese, ma sono riguardabili, anche qualora non avessero soluzione di continuità lungo il territorio nazionale, come un insieme di opere interconnesse di medie dimensioni, per le quali, provincia dopo provincia, i temi dell’inserimento territoriale, ambientale e funzionale non possono che essere proficuamente gestiti in prima battuta e direttamente dalle regioni, anziché vederle giocare un ruolo di sponda, sia pur reso obbligatorio dal Ci, in sede di correzione della Lo.

Ci si augura, quindi, che la riforma della riforma che il Governo ha dichiarato voler apportare al Titolo V della Costituzione, non riproponga la competenza statale progettuale e realizzativa sulle infrastrutture di rilevanza nazionale, ma solo la definizione della strategia programmatica (piano generale dei trasporti), e finanziaria ed i poteri sostitutivi in caso di inerzia locale. Va da sé che le problematiche dell’impatto ambientale, ricondotte dalla Lo alla piena sfera politica, sarebbero condivisibili solo una volta risolti gli aspetti connessi alle scelte ed alla localizzazione delle infrastrutture nella direzione prima auspicata. 

Altrimenti, in assenza di protagonismo degli enti locali, di programmazione nazionale e di pianificazione territoriale, la gestione politica della valutazione di impatto 

ambientale così come prefigurata diventa addirittura pleonastica.

 

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E le opere medie e piccole, per le quali, un recente studio di parte imprenditoriale2 dichiara rimanere “poco corrisposto il bisogno urgente … sia in termini di progettazione, sia di realizzazione o di completamento”? 

Il secondo corno della manovra governativa riguarda, opportunamente, l’altra metà delle infrastrutture. Una metà nominalistica e non geometrica, in quanto le opere di piccola e media dimensione rappresentano la gran parte dell’investimento dello Stato, nelle sue articolazioni territoriali, e costituiscono il background nel quale si inseriscono funzionalmente le grandi, altrimenti destinate a sicura inefficacia.

Il Ci, sotto il profilo territoriale, segna alcuni passi avanti ed altri indietro. Fra i primi si annoverano l’esonero dalla norma generale sui lavori pubblici delle opere di urbanizzazione cosiddette a scomputo degli oneri concessori, per importi sotto la soglia Ue; il superamento del limite trentennale per la durata delle concessioni; il miglioramento delle procedure per il project financing. Ai secondi, è ascrivibile l'incrinazione della tenuta del programma triennale delle opere pubbliche, escludendo dalle sue previsioni i lavori al di sotto dei 100.000 euro e consentendo l’accompagnamento del solo studio di fattibilità per quelli sotto il milione. Perché questo stravolgimento, proprio ora che i comuni, sia grandi sia piccoli, iniziavano a mettere a regime procedure di programmazione della spesa sulla base di informazioni (i progetti preliminari) che cominciavano ad uscire dalla precarietà tecnica per approdare ad adeguatezza di formulazione?

Da ultimo, se il Governo ha ritenuto affidabili le nuove norme procedurali per i grandi lavori, perché non le ha estese all’insieme di tutte le nuove realizzazioni?

Si spera, per concludere, che gli sforzi tesi all’accelerazione della spesa non siano vanificati dalla sua potenziale inutilità. Pericolo storicamente in agguato.

 

1 Lei non ha paura delle grandi opere, del rischio paventato dagli ambientalisti della grande colata di cemento? “Io ho paura delle infrastrutture solo quando sono fini a sé stesse e non hanno senso per la collettività. Ma chi potrebbe dire di essere contrario al treno ad alta velocità tra Roma e Milano, che consente di percorrere quella distanza in tre ore, come già succede con il Tgv tra Parigi e Marsiglia?”. E l’urbanistica, che ruolo può giocare? “Nessuno. L’urbanistica non c’è più. E’ morta. Si è ostinata a pensare modelli per porzioni limitate di territorio. Non ha futuro” (Da un’intervista all’architetto Massimiliano Fuksas a IlSole24Ore del 23 agosto 2002). torna su

2 Infrastrutture, servizi e amministrazione che accompagna, Confartigianato, 2002.torna su

 

 

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