Numero 3 - 2001

 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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...in bilico tra poteri federali e spinte neocentraliste


Roberto Gerundo

 

 

 

Sui temi dell’assetto e del controllo del territorio, questo fine 2001 si presenta denso di novità e gravido d’incognite.

S’incrociano, nell’angusta intersezione istituzionale, le politiche del precedente governo di centro-sinistra con quelle dell’attuale compagine di centro-destra.

Le une, reduci dallo sforzo di avere varato la riforma costituzionale, confermata dal referendum del 7 ottobre scorso, e sistemato in due corposi testi unici la farraginosa materia edilizia ed espropriativa; le altre, impegnate nella cosiddetta legge obiettivo, con qualche preoccupante caduta di stile rappresentata dalle procedure di condono edilizio sulle aree demaniali, inserite per emendamento nella finanziaria 2002, e, più in generale, nel tentativo di smontare sistematicamente i risultati conseguiti dai predecessori: vale per tutti lo slittamento dell’entrata in vigore degli appena citati testi unici, dal 1 gennaio al 30 giugno, con il non malcelato proposito di modificarli consistentemente nei contenuti.

Le diverse politiche territoriali, portate avanti in competizione ed in contrasto fra loro, sono facilmente riconducibili ai più tradizionali modelli di governo della cosa pubblica di derivazione liberista e liberal riformista.

L’approccio liberista tende ad intervenire sul territorio attraverso la realizzazione di grandi infrastrutture, in linea di massima a spese dello Stato centrale e senza particolari attenzioni alle cosiddette integrazioni di sistema, finanziandole a carico della fiscalità generale, in un quadro di sgravi per i redditi più alti, quindi, facendone gravare il carico prevalente su quelli medio bassi (è significativo come simulazioni sugli esiti della riforma Tremonti, che riduce l’imposizione fiscale a due aliquote secche, del 23 e del 33%, eliminando l’attuale meccanismo di progressività, dimostrino come ciò porti ad un aggravio di tasse per i redditi annui sotto i 20.000 euro, vale a dire per la gran parte dei lavoratori dipendenti). Tale politica è accompagnata da forme di compensazione di forte impatto popolare, del tipo padroni in casa propria, introdotte nella legge obiettivo, mediante le quali si tende a liberare da lacci e lacciuoli le popolazioni da incombenze burocratico-amministrative, come concessioni ed autorizzazioni edilizie – almeno in alcuni casi – dando la sensazione di una ritrovata libertà.

L’approccio liberal riformista, viceversa, ripone grande attenzione alle politiche di organizzazione territoriale tese alla riduzione degli squilibri economici e sociali, che, generalmente, si perseguono elevando progressivamente e contestualmente l’efficienza della struttura urbanistica del paese.

La riforma federalista della Costituzione persegue quest’ultima strategia, includendo fra le materie assoggettate a legislazione concorrente, da parte dello Stato e delle regioni, il “.... governo del territorio, porti e aeroporti civili, grandi reti di trasporto e di navigazione, ...”.

La legge obiettivo, in sostanziale contrasto di orientamento, esordisce affermando che “Il Governo, nel rispetto delle attribuzioni costituzionali delle regioni, individua le infrastrutture pubbliche e private e gli insediamenti produttivi strategici e di preminente interesse nazionale da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese”. 

Si tratta, senza dubbio, di un arretramento neocentralista che non solo sferza gli organismi in cui si articola la Repubblica oltre lo Stato, vale a dire comuni, città metropolitane, province e regioni, ma che, introducendo, a mezzo di decreti legislativi, un futuro “quadro normativo finalizzato alla celere realizzazione delle infrastrutture e degli insediamenti individuati”, apre ad un mercato delle opere pubbliche parallelo e distorcente dell’ordinario regime di concorrenza fra le imprese del settore.

Tanto che il presidente dell’Ance si interroga su “come si può dimenticare che l’Italia è il paese delle città che sono i nodi di un sistema e che questi nodi sono le vere cause dello scarso dinamismo dell’economia italiana e che per rimuoverle occorre realizzare e completare una miriade di medie e piccole opere lasciate invece in ostaggio di quelle pastoie legislative e burocratiche dalle 

quali vengono salvate le grandi opere?” (l’ANCEinforma, dicembre 2001).

Sul versante dei meccanismi di produzione delle scelte, con connesso necessario svecchiamento dei relativi contenuti e procedure, l’armamentario degli strumenti di governo del territorio, alle diverse scale di operatività, viene completamente ignorato.

 “Il programma tiene conto del Piano generale dei trasporti. L’inserimento nel programma di infrastrutture strategiche non comprese nel Piano generale dei trasporti costituisce automatica integrazione dello stesso”, recita la legge obiettivo, quando sarebbe stato opportuno trasformare la macchina che lo ha messo in piedi, opportunamente asciugandola, in uno snello ufficio del piano generale dei trasporti, preposto al suo continuo e processuale aggiornamento ed alla verifica delle integrabilità di sistema da applicare agli elementi della rete che vi si vanno, di volta in volta, ad aggiungere.

La stessa riforma urbanistica, su cui colpevolmente i precedenti governi del centro sinistra si erano trastullati per anni senza condurla in porto, non è iscritta all’ordine del giorno delle priorità dell’esecutivo né del Parlamento.

Concettualmente, la pianificazione d’area vasta, a livello provinciale e regionale, è il naturale strumento, oltre che di verifica e controllo, di proposta per l’individuazione e la soluzione delle criticità che rendono inefficiente il sistema infrastrutturale nazionale.

Anche perché, le opere che il governo ritiene strategiche per il paese, riconducibili, nel campo prevalentemente dei trasporti, a quelle strade e ferrovie che consentiranno di percorrerlo in tempi più accettabili e con maggiore confortevolezza, nel perseguire il loro obiettivo non dovranno fare terra bruciata dei territori che attraversano. 

E qui si fa riferimento non solo alla riduzione dell’impatto, visto esclusivamente in chiave naturalistico-ambientale, quanto all’inserimento delle nuove infrastrutture nel complesso delle articolazioni territoriali interessate, per le quali esse dovranno svolgere una innovativa funzione di risistemazione ed efficientizzazione dei preesistenti assetti urbanistici.

Sulla base della citata riforma federalista della Costituzione e preso atto degli orientamenti dell’attuale governo, alle regioni e province del paese, indipendentemente dal colore politico che le caratterizza, non rimane che prendere atto definitivamente del ruolo che hanno da assolvere: migliorare l’efficienza del proprio territorio, difendendolo da possibili sconvolgimenti e dalle ricadute negative che essi possono determinare sulle popolazioni e sulle economie locali; fare in modo che la realizzazione di grandi infrastrutture strategiche, da possibile indebolimento dell’armatura urbana, si converta in fattore di irrobustimento della stessa; tutelare i diritti politici delle popolazione insediate ad esprimersi per tempo, attraverso il funzionamento delle assemblee elettive, sui progetti di assetto del territorio e non essere, al più, chiamati a ratificare scelte sovraordinate sulle quali eventuali osservazioni migliorative, spesso, sono strumentalmente assimilate a manovre dilatorie, messe in campo per mera difesa di posizioni precostituite.

Da queste considerazioni deriva il rinnovato convincimento sulla necessità ed utilità, oggi, della pianificazione d’area vasta, regionale e provinciale, da cui consegue l’impegno nel portare avanti la nostra rivista.

 

 

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