Numero 12/13 - 2006

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riforma urbanistica e questione meridionale


Roberto Gerundo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riparte il cammino della riforma urbanistica statale che dovrebbe rinnovare, dopo oltre un sessantennio, la storica legge 1150/1942.

Dal dopo guerra ai giorni nostri, ci si è tentato in molte occasioni.

Numerose proposte furono elaborate, sin a partire dagli anni ’60, fra gli altri, da Fiorentino Sullo e da Giuseppe Pieraccini; per tutti gli anni ’90 si sono succedute, a cavallo del passaggio fra le cosiddette prima e seconda repubblica, le iniziative sottoscritte da Cutrera-Pagano (1990), Campo-Pinto (1995) e Lorenzetti (1999-2000), citandole con i nomi di coloro che ne sono stati i sostenitori, a volte, strenui, per concludere con il disegno di legge (ddil) Lupi, approvato alla sola Camera dei deputati nel 2005.

Nel frattempo, un gran numero di regioni italiane, a far data dal 1995, epoca di celebrazione a Bologna del XXI congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu), hanno radicalmente rinnovato il previgente apparato normativo in materia di governo del territorio, ispirandosi alle posizioni culturali e programmatiche che quell’assise aveva autorevolmente sancito.

L’assenza di una legge cornice statale, di indirizzo e orientamento per la produzione legislativa regionale, ha cominciato, tuttavia, a farsi avvertire, in particolare, al fine di dare certezza nelle attività di governo del territorio, sempre più spesso censurate dalla giustizia amministrativa, proprio perché carenti di principi a monte acclarati nell’ordinamento generale della Repubblica.

Da più parti e dallo stesso Inu, viene la sollecitazione a definire, in maniera quanto più chiara e rapida possibile, nel corso della corrente XV legislatura parlamentare, i suddetti principi per il governo del territorio.

Il precedente ddil Lupi titolava proprio in tal senso, individuando, nel corpo di soli undici articoli – si consideri che il ddil Lorenzetti ne annoverava ben 35 – un numero stringato di questioni essenziali, cui, indipendentemente dalla qualità della soluzione proposta, è ormai indispensabile dare risposte, quali, la perequazione urbanistica e territoriale, la compensazione e negoziazione dei diritti edificatori, la fiscalità urbana e intercomunale, gli standard urbanistici, l’articolazione degli strumenti di pianificazione nelle componenti strutturale e operativa, la indennizzabilità delle diverse tipologie di vincolo e la relativa decadenza, l’efficacia delle misure di salvaguardia.

Nelle argomentazioni che seguiranno, si utilizzerà la parola urbanistica quale sinonimo di governo del territorio, non perché non si colga la differenza evidenziata nella legge di riforma del titolo V della Costituzione1, ma per semplice convenzione.

Fermo restando che l’innovazione costituzionale non è stata certo tale anche in termini scientifico-disciplinari, rispetto ai quali i pianificatori hanno da tempo inteso l’unitarietà strategica dei processi di assetto territoriale multiscalare e multisettoriale, da integrarsi con le politiche di sviluppo locale e la sostenibilità ambientale.

È evidente che un nuovo quadro di certezze in campo urbanistico è fortemente atteso da tutte le regioni italiane, indipendentemente dalla latitudine geografica e dagli orientamenti politici.

Sempre tali certezze che non vengano periodicamente incrinate dall’operato della Corte costituzionale che, in questi ultimi cinquant’anni, ha non di rado messo in crisi la legislazione statale in materia, sancendo la incostituzionalità di alcune soluzioni che il Parlamento aveva rimediato a fatica, quadrando, spesso precariamente, il cerchio dell’armonizzazione fra interessi pubblici e privati.

Anche nel Mezzogiorno, un rinnovato e duraturo quadro di certezze non potrà fare altro che contribuire al miglioramento della condizione in cui versa il territorio.

Ci si domanda, tuttavia, se sia tutto ciò sufficiente ad avviare un riequilibrio dello stato e della qualità del governo del territorio, in quella parte del paese.

Nel centro-nord, è molto avvertito il problema dell’efficienza e dell’efficacia della pianificazione urbanistica e territoriale.

Si pone al centro dell’attenzione il divario temporale fra dinamiche economiche e risposte previsionali di riassetto territoriale, contenute negli strumento di pianificazione urbanistica.

Un mercato globalizzato, all’interno del quale le economie delle regioni centro- settentrionali si trovano a proprio agio, esige scelte di governo del territorio, rapide, condivise e di alta qualità progettuale.

La sostenibilità ambientale delle scelte urbanistiche non è considerata una deriva tardo-intellettualistica o frutto di mecenatismo, ma come la necessaria difesa dello stesso sistema capitalistico di produzione.

Il problema non è governare il territorio attraverso strumenti di pianificazione urbanistica, ormai diffusamente approdati alla seconda se non alla terza generazione; non è sensibilizzare la classe politica alla indispensabilità della programmazione territoriale; non è educare le popolazioni insediate alla tutela e vigilanza attiva della propria dimensione antropica.

Tutto ciò rappresenta, infatti, traguardi sufficientemente raggiunti.

Il problema è ottenere sempre maggiore efficienza, rapidità, creatività dei contesti normativi e delle procedure di scelta.

Una riforma urbanistica che detti adeguati principi, in grado di soddisfare tali domande, è la richiesta che emerge dal centro-nord del paese.

Il Mezzogiorno chiede qualcosa in più, senza la quale, il rinnovato quadro di efficienza che si verrebbe a creare, limitatamente alla modernizzazione dell’apparato istituzionale e amministrativo, stenterebbe a produrre effetti positivi, se non, addirittura, rischierebbe di impantanarsi nella difficoltà di adeguarsi alle novità intervenute.

Tale richiesta scaturisce dal gigantesco divario esistente, in tema di governo del territorio, fra centro-nord e sud.

Esaminiamo i termini del prospettato divario, partendo dai dati contenuti nel Rapporto dal territorio 20052, meritoriamente allestito e diffuso dall’Inu.

Si inizia a prendere in considerazione lo stato della pianificazione territoriale, di livello regionale e provinciale.

La pianificazione territoriale regionale risulta assente in tutto il Mezzogiorno (Figura 1).

Figura 1 - Regioni/Stato della pianificazione territoriale al 2005

Fonte: Rapporto dal territorio 2005

 

Per la Campania essa è in fase di formazione, risultando allo stato di adozione, mentre per tutte le altre regioni, compresa la Sicilia, l’elaborazione non è in atto o è sospesa, come nel caso della Puglia.

Ciò non significa solo che le politiche territoriali finiscono per risultare scoordinate ma che gli stessi flussi finanziari comunitari, a sostegno dell’emancipazione dei territori in ritardo di sviluppo, rischiano di essere meno efficaci dell’auspicabile, per obiettiva carenza di organicità nell’allocazione della spesa.

Scendendo di scala, analoga condizione si ritrova in relazione ai piani territoriali di coordinamento provinciale (Ptcp).

I Ptcp vigenti non sono stati riscontrati in nessuna delle province meridionali (Figura 2), se non in un solo caso riguardante la Sicilia, risultando, in gran parte degli altri, nella generica fase elaborativa.

Figura 2 - Province/Stato della pianificazione al 2005

Fonte: Rapporto dal territorio 2005

 

Ciò si traduce, in particolare nelle regioni che hanno delegato le funzioni amministrative in materia di approvazione dei piani urbanistici comunali alle province, in una oggettiva assenza di riferimento nell’esercizio della delega, che finisce, nella maggioranza dei casi, con l’alimentare discrezionalità, precarietà e inefficienza nella costruzione dei processi di formazione delle scelte sul territorio, al livello di integrazione intercomunale, con gravi ricadute negative sulla razionalizzazione degli assetti funzionali delle aree metropolitane e urbane del Mezzogiorno.

Dallo sfondo prevalente della generale condizione meridionale, si distacca la Sardegna, che dimostra una vitalità paragonabile alle regioni centro-settentrionali.

La situazione sembra lievemente migliorare facendo riferimento alla pianificazione territoriale paesistica o, come l’ha rinominata il Codice Urbani, paesaggistica (Figura 3).

Figura 3 - Regioni/Stato della pianificazione paesistica al 2005

Fonte: Rapporto dal territorio 2005

 

In realtà, Molise, Basilicata e Campania dispongono di piani territoriali paesistici riguardanti porzioni di territorio molto ristrette, in quanto derivanti dalla legge 431/1985, cosiddetta Galasso, che aveva individuato ambiti transitori di inedificabilità assoluta in prospettiva della redazione di piani territoriali paesistici o urbanistico-territoriali, estesi alle aree dotate di pregressi vincoli paesistici, denominati galassini.

La Puglia è regolamentata da piani a valenza paesistica, ma di antica concezione, essendo derivanti dalla sua prima legge regionale urbanistica, risalente agli anni ’80, rimanendo escluse da processi di pianificazione paesistica Calabria e Sicilia, con la Sardegna in controtendente fase di accelerazione di tali attività.

Scendendo ancora nella scala della pianificazione territoriale, la stessa strumentazione urbanistica comunale mostra carenze eccezionali, consolidando il divario già evidenziato.

Una elaborazione sulla vetustà dei piani urbanistici generali, vale a dire estesi all’interezza del territorio comunale, rivela come decisamente rari siano gli strumenti con meno di dieci anni di servizio, mentre quasi inesistenti risultano quelli per i quali non essere ancora trascorso un quinquennio dall’adozione (Figura 4).

Figura 4 - Piani comunali vigenti post 1995 e post 2000

Fonte: Rapporto dal territorio 2005

 

Il duplice arco di riferimento temporale assunto, con riferimento al decennio e al lustro, è funzionale ad una riflessione articolata.

I piani con meno di dieci anni di vigenza sono, in linea di massima e in considerazione della tradizione, per lungo tempo generalmente adottata, di prefigurare gli assetti urbanistici comunali su archi di riferimento temporali commisurati al decennio, nel pieno della loro potenzialità previsionale, quindi, ancora strategicamente validi a esplicare i proprie effetti sul territorio.

I piani con meno di cinque anni, vedono ancora vigenti il complesso delle disposizioni preordinate all’esproprio di suoli per pubblica utilità, mentre tutti gli altri hanno vincoli scaduti e faticosamente rinnovabili, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 179/1999, in base alla quale la reiterazione dei suddetti vincoli assoggetta l’ente locale a reperire le risorse finanziarie ai fini del risarcimento a favore dei soggetti proprietari dei diritti di proprietà compressi.

Ne consegue l’estrema fragilità di una pianificazione urbanistica posta in tali condizioni di precarietà decisionale, in difficoltà nella realizzazione di opere pubbliche, e con un territorio pervaso dalla cosiddette zone bianche, formalmente prive di regolamentazione urbanistica e assoggettate a trasformazioni edilizie, sia pur minimali, che, tuttavia, contribuiscono legalmente ad aumentare l’entropia del sistema urbano, oltre a incoraggiare più gravi fenomeni di abusivismo edilizio.

Quest’ultimo è l’ulteriore fenomeno inquietante che incide sul territorio meridionale, che, anche in questo caso, fa registrare il triste primato delle regioni meridionali rispetto alle centro-settentrionali.

Si consideri, inoltre, che l’abusivismo edilizio, in realtà come Campania, Calabria, Sicilia e, in maniera più limitata, Puglia, non solo produce ricadute negative sugli enti locali in termini di generali disservizi, di disarticolazione delle funzioni territoriali, di aggravio di costi per urbanizzazioni primarie e secondari, di erosione del suolo agricolo produttivo e incremento del rischio idrogeologico che, nella quasi totalità dei casi, determina, ma è anche uno dei canali della filiera di approvvigionamento della malavita organizzata, relativamente alla fornitura illegale di materiali da costruzione e all’impiego di manodopera irregolare, in particolare extracomunitaria (Figura 5).

Figura 5 - Regioni/Stato e distribuzione dell'abusivismo edilizio (dati 2003)

Il trend di illegalità nel ciclo del cemento (tutte quelle attività che afferiscono al settore delle costruzioni) è stato calcolato confrontando i dati annuali delle infrazioni accertate e dei sequestri effettuati dalle forze dell'ordine. Fonte: Legambiente-Cresme

Fonte: Rapporto dal territorio 2005

 

Su tale problematica, un approfondimento a parte merita la Campania, unica regione in cui il numero di abusi edilizi registrati nel biennio successivo all’avvio del primo condono, risalente al 1985, è inferiore al corrispondente numero di episodi rilevato nel biennio 2003-2004, successivo alla terza e ultima, almeno in ordine di tempo, edizione del provvedimento, delineando il carattere fisiologico del fenomeno (Figura 6).

Figura 6 - Confronto tra gli abusi denunciati nelle rilevazioni 1986-1988 e 2003-2004

Fonte: Ministero delle infrastrutture, 2006

 

I processi di governo del territorio sono, inoltre, fortemente dipendenti dalla stabilità politica e finanziaria del sistema degli enti locali.

Negli ultimi 13 anni, dal 1993 al 2005, i comuni, nella stragrande maggioranza dei casi, e le province sciolti in Italia per anticipata fine della consiliatura sono risultati in numero di 2.5873.

Con riferimento al solo 2005, il suddetto fenomeno, sul totale di 164 casi, ha visto prevalere il Mezzogiorno, comprese le isole, per 89 volte, pari ad oltre il 50%.

Lo scioglimento di enti locali per infiltrazione della malavita organizzata, a far data dall’entrata in vigore della legge 221/1991 che lo ha stabilmente regolamentato, sulla scorta di indagini effettuate da commissioni di accesso prefettizie appositamente istituite, ha riguardato 158 amministrazioni comunali, di cui 71 in Campania, 43 in Sicilia e 34 in Calabria.

Nel solo 2005, dei 15 comuni sciolti per i suddetti motivi, tutti nel Mezzogiorno tranne uno nel Lazio, 7 ricadono in Provincia di Napoli e riguardano non solo piccoli centri, come Casal di Principe (Ce) o Quindici (Av), ma città medie come Pozzuoli, Afragola, caloria e altre, nel napoletano.

La citata normativa prevede la sospensione degli organismi elettivi sino a 24 mesi, che si allungano ancora sino a giungere ai periodici turni elettorali.

Anche in questi casi, il governo del territorio, quale politica attiva, viene ad essere sostanzialmente interrotto per fare fronte alla sola ordinaria amministrazione della cosa pubblica.

Relativamente alla solidità finanziaria, a far data dall’entrata in vigore del decreto legge 66/1989, sono andati in dissesto 428 comuni, di cui 122 in Calabria e 108 in Campania.

Il governo del territorio, che si alimenta delle spese necessarie a sostenere l’attività di pianificazione urbanistica oltre che di controllo e repressione dell’abusivismo edilizio, anche in questi casi viene compresso e, non di rado, si perviene ad una sostanziale paralisi operativa4.

Ancora, rispetto agli assetti finanziari degli enti locali, i debiti fuori bilancio, riconosciuti nel 2005, di 219 comuni e di quattro province della Campania assommano a oltre 148 milioni di euro, seguiti a ruota dai 243 comuni e dalle 9 province della Sicilia, per oltre 126 milioni di euro, collocandosi ai primi due posti fra le regioni italiane, seguite dagli enti locali del Lazio, con soli circa 78 milioni di euro di debiti fuori bilancio.

Anche tali condizioni degli enti locali del Mezzogiorno non possono che produrre impedimenti di non poco conto alla corrente attività di governo dei rispettivi territori.

Infine, con valenza del tutto emblematica, assume interesse esaminare un aspetto di nicchia del problema, incentrato sul terzo mandato dei sindaci.

A norma della legge 81/1993, la carica di sindaco non può essere rinnovata per oltre due mandati; per il terzo mandato consecutivo un sindaco risulta ineleggibile.

Nel 2006, in Italia si sono registrati 20 casi di piccoli comuni, con popolazione inferiore ai 15.000 abitanti5, i cui sindaci sono stati eletti consecutivamente per la terza volta.

Al di là della loro futura effettiva permanenza nella carica di sindaco, è di interesse effettuare una correlazione fra rielezione dopo circa dieci anni di amministrazione e stato della pianificazione urbanistica comunale.

La suddetta correlazione è stata effettuata per sette comuni campani, dei quali uno è completamente privo di strumenti di pianificazione urbanistica generale, due sono dotati di programmi di fabbricazione approvati fra il 1976 e il 1979, tre dispongono di piani regolatori generali (Prg) approvati fra il 1966 e il 1987 e, uno, il più recente, di Prg approvato nel 1992 (Tabella 1).

Tabella 1

 

Ne emerge un campione, secondo il quale, sono stati particolarmente premiati dagli elettori i sindaci che non hanno dimostrato, nel corso del primo decennio di amministrazione, di avere avuto particolare sensibilità nel rinnovare gli strumenti di governo del territorio, a dimostrazione della indifferenza delle comunità locali su tali temi.

Anzi, si potrebbe ritenere, forzando l’interpretazione, che proprio perché quei sindaci non hanno regolamentato adeguatamente il territorio, riducendolo in uno stato di presunta ingovernabilità, evidentemente di interesse degli elettori, essi li hanno riconfermati nel terzo mandato, pur in contrasto con le disposizioni di legge vigenti che ne prevedono la ineleggibilità.

Dalla lettura dei fenomeni assunti e degli indicatori disponibili, emerge, con riferimento alla propensione al governo efficiente ed efficace del territorio, un Mezzogiorno abbastanza omogeneo nel rifiuto della pratica attiva di regolamentazione dell’uso e della tutela del suolo, per il quale la consolidata rappresentazione, cosiddetta, a macchie di leopardo, non è verificata, tranne che per la Sardegna e, solo per alcuni versi, per la Basilicata e la Puglia.

È, quindi, legittimo domandarsi, considerato che, in presenza delle attuali regole di governo del territorio, metà Italia le ha praticate e metà no, per quale motivo un nuovo quadro normativo statale dovrebbe essere favorevolmente accolto e utilizzato rapidamente e al meglio nel Mezzogiorno.

Dalla risposta al suddetto interrogativo che, ragionevolmente, porterebbe a prevedere che, anche in un rinnovato contesto normativo, i ritardi del centro-sud rimarrebbero consistenti e il divario con il resto del paese immutato, in assenza di adeguati interventi di sostegno, deriva la necessità di prendere in considerazione una questione meridionale, anche in urbanistica, irrisolta, in fase di aggravamento e che non risulta neanche essere messa all’ordine del giorno nelle politiche governative sino ad oggi succedutesi nel tempo.

Peraltro, l’incapacità del Mezzogiorno a praticare sistematicamente la pianificazione urbanistica e territoriale non è neanche collegabile a orientamenti politico-partitici che, per propria cultura, non dovessero privilegiare tale attività.

Infatti, sino agli inizi ’90, gli orientamenti politici prevalenti nel governo degli enti locali e delle regioni, erano di centro, gravitanti fondamentalmente intorno alla Democrazia cristiana, mentre, negli ultimi quindici anni, si è consolidato un dominio pressoché esclusivo del centro-sinistra.

Area politica, quest’ultima, per antica tradizione, orientata a favorire i processi di pianificazione urbanistica e territoriale nell’amministrazione degli enti locali e delle regioni.

Essendo, quindi, il governo del territorio materia di competenza regionale, ma in forma concorrente, se ne deduce che, a fronte di una palese incapacità delle amministrazioni regionali meridionali di ridurre il divario che li separa dalle omologhe del centro-nord, si deve programmare, in attuazione del principio costituzionale della sussidiarietà verticale, un’adeguata politica di sostegno e accompagnamento dello Stato centrale a favore del Mezzogiorno.

Inoltre, se lo Stato centrale, che nell’ambito dei quadri comunitari di sostegno allo sviluppo delle aree economicamente arretrate, interviene stabilmente nel Mezzogiorno con interventi straordinari, contributi alle imprese e nella realizzazione infrastrutturale, non si preoccupa di ridurre i divari territoriali in termine di efficienti assetti urbanistici, i flussi finanziari che saranno convogliati avranno scarse ricadute e, in molti casi, saranno andati ad alimentare un perverso meccanismo di mantenimento dello status quo.

Contemporaneamente, nelle strategie delle regioni del nord si va affermando, con giusta enfasi, una cosiddetta questione settentrionale, connessa essenzialmente al deficit infrastrutturale rilevabile in quella parte del paese, in relazione al livello economico-produttivo raggiunto e alla necessità di un suo ulteriore accrescimento, difficilmente realizzabile in carenza di una più moderna organizzazione logistica del territorio.

Parimenti, è, quindi, necessario che la politica governativa e parlamentare, nel corso della corrente XV legislatura rilevi l’esistenza anche di una irrisolta questione urbanistica nel Mezzogiorno e si adoperi per affrontarla e avviarla a soluzione.

Nella trascorsa legislatura, si possono annoverare sporadici interventi, riconducibili a tale problematica, per altro, solo indirettamente.

Il più significativo fra essi riguarda l’impulso dello Stato centrale alla pianificazione urbanistica comunale generale.

Con DLgs 18 agosto 2000, n. 267, recante il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, così come modificato con Dl 30 settembre 2003, n. 269, si è infatti previsto, nell’ambito delle procedure di controllo sui rispettivi organi amministrativi, che i consigli comunali vengano sciolti con decreto del Presidente della Repubblica, nelle ipotesi in cui gli enti territoriali, al di sopra dei mille abitanti, siano sprovvisti dei relativi strumenti urbanistici generali e non adottino tali strumenti entro diciotto mesi dalla data di elezione degli organi.

Il decreto di scioglimento del consiglio è adottato su proposta del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, ora delle sole infrastrutture.

Peraltro, le suddette disposizioni sono state ulteriormente diluite temporalmente in sede di approvazione di un successivo provvedimento legislativo che, con Dl 29 marzo 2004, n. 80, convertito in legge 28 maggio 2004, n. 140, ha stabilito che “in sede di prima applicazione delle disposizioni … del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, … si procede … allo scioglimento dei consigli degli enti territoriali in carica che non adottino gli strumenti urbanistici generali entro diciotto mesi” dalla data di entrata in vigore del citato decreto.

Provvedimenti legislativi del genere risultano meritori al fine di perseguire l’obiettivo che la legge urbanistica fondamentale del 1942 pose innovativamente per l’epoca, vale a dire l’estensione all’intero territorio nazionale di una disciplina organica di regolamentazione urbanistica, da praticarsi in ciascun ente locale comunale.

Obiettivo, a 60 anni di distanza, non ancora pienamente raggiunto, in particolare nel Mezzogiorno.

Il citato dispositivo, tuttavia, rischia di essere del tutto emblematico e molto poco efficace, in quanto:

- si fa riferimento agli strumenti urbanistici comunali, ma anche i PdiF sono tali, mentre, si dovrebbe parlare di “piani regolatori generali o equivalenti, previsti dalla vigente legislazione regionale”;

- si usa il termine adottino; ma quanti comuni hanno adottato un Prg e poi lo hanno tenuto in parcheggio per numerosi anni, decorsi i quali, dopo i primi tre, decadono le norme di salvaguardia ed è ripristinata la previgente disciplina, generalmente molto più permissiva? In luogo di “adottino”, la dizione efficace sarebbe dovuta essere “abbiano adottato e trasmesso all’organo competente per l’approvazione”;

- nella quasi totalità dei casi, i comuni sprovvisti di Prg e reiteratamente inerti, sono stati commissariati dall’organo sovraordinato, quali la regione e, in alcune di esse, le province o le comunità montane; in tal caso, quale ente si scioglie, visto che il potere pianificatorio è stato sottratto al comune? Nelle regioni meridionali, la stragrande maggioranza dei comuni sprovvisti di Prg è commissariato, anche se i tempi di elaborazione del piano risultano, non di rado, anche in tale eventualità, estremamente lunghi e spesso artatamente diluiti nel tempo;

- non potendosi sciogliere le province e le comunità montane, sarebbe opportuno reintegrare nei poteri pianificatori i comuni, entro un tempo stabilito, nel caso di inerzia dei commissari ad acta, fissando un periodo di tempo complessivo per la definizione amministrativa, in capo agli stessi, per gli adempimenti di competenza dei comuni eventualmente reintegrati nelle competenze urbanistiche;

- relativamente ad un aspetto più raffinato e oggettivamente di più difficile implementazione normativa del problema, ma non meno importate, si dovrebbe poter incidere sui comuni che sono dotati di strumenti urbanistici generali con più di dieci anni di vigenza, per alleggerire gli enti locali del gravame di obsolescenza strategica e inefficacia amministrativa che ciò palesemente comporta.

Si può, quindi, constatare, quanto complesso possa essere intervenire efficacemente a supporto della pianificazione urbanistica degli enti locali, dinamizzando le relative procedure di formazione, senza peraltro incorrere nelle censure di legittimità costituzionale in merito alle competenze proprie di comuni e regioni.

Tornando alla riforma urbanistica in riavvio di discussione nelle sedi parlamentari competenti, da più parti si chiede una legge snella, i cui principi siano pochi, chiari ed efficaci.

Tale approccio, più che concettuale, appare essere essenzialmente strategico. Si ritiene, infatti, che avventurarsi nella costruzione di un impianto normativo dettagliato sia, di fatto impossibile, attesa la generale instabilità politica che caratterizza i governi negli ultimi anni, la quale, anche se non ne determina la caduta anticipata, produce un clima di improduttività legislativa e gestionale.

C’è, tuttavia, da considerare che una legge di principi è adatta per un contesto di common low, di tipo anglosassone, e non in uno fortemente irrigidito come quello italiano, nel quale la decisione amministrativa, in materia urbanistica, ha pochissimi gradi di libertà.

La legge di principi, comunque, potrebbe contenere alcune norme finali e transitorie, orientate ad avviare la soluzione della rilevata questione urbanistica meridionale, oppure rimandare ad un decreto delegato, ad essa collegato che ne specificasse e rendesse operativi alcuni dettagli, prefigurati strategicamente nella prima.

Il sostegno statale al rilancio dei processi di governo del territorio nel Mezzogiorno, comunque, non può non transitare attraverso il coinvolgimento delle regioni.

Molte di esse, negli ultimi decenni, hanno provveduto a sostenere la pianificazione comunale generale attraverso contributi alla redazione dei relativi strumenti urbanistici.

Tale modalità di intervento deve rimanere ed essere ampliata finanziariamente, anche se non può essere considerata assolutamente sufficiente.

Può risultare, viceversa, di una certa efficacia la creazione di appositi uffici di pianificazione urbanistica o, in termini più estesi, per le politiche urbanistiche o, ancora, per il governo del territorio, anche da realizzarsi in forma consortile per i piccoli comuni, ad esempio sotto i 5.000 abitanti.

Essi potrebbero essere finanziati su obiettivi, per essere stabilizzati, in termini di personale e strutture, previa verifica dei buoni risultati conseguiti.

Tali uffici potrebbero essere anche supportati attraverso convenzioni con università o qualificati centri di ricerca pubblici o privati.

Questi ultimi potrebbero, in alternativa, anche assumere il ruolo di istituti indipendenti di certificazione dello stato e della qualità dei processi di pianificazione urbanistica degli enti locali e delle regioni.

Dovrebbe essere, inoltre, avviata la ricognizione periodica delle attività di pianificazione urbanistica e territoriale svolta dai soggetti competenti, comprensiva delle inadempienze, da affidare all’Istat e da rendere pubblici.

Insieme ai sostegni, risulterà necessario definire sistemi di commissariamento per inerzia alla redazione dei piani urbanistici e territoriali di competenza, ai diversi livelli, cui dare una reale efficacia, anche mediante la individuazione di responsabilità penali e contabili, non solo per i soggetti inadempienti ma anche per i potenziali enti sostitutivi.

Gli interventi di sostegno di tipo amministrativo dovrebbero essere, inoltre, accompagnati da analoghi di natura fiscale e contributiva.

La carenza o vetustà degli strumenti di governo del territorio dovrebbero essere accompagnati dall’inasprimento di alcune forme di fiscalità urbana, da parametrarsi alla lievitazione dei costi generali della fornitura di servizi di uso pubblico.

Viceversa, si potrebbero applicare forme di fiscalità di vantaggio per i territori adeguatamente regolamentati urbanisticamente.

Sotto il profilo contributivo, lo Stato centrale potrebbe condizionare o, addirittura, subordinare i trasferimenti di risorse pubbliche per investimenti a enti sprovvisti di strumenti di pianificazione, così come previsti dalle leggi regionali vigenti.

I suddetti trasferimenti dovrebbero, inoltre, essere allocati in coerenza con le previsioni di assetto urbanistico del territorio.

Gli stessi quadri di sostegno allo sviluppo, alimentati dai finanziamenti dell’unione europea, dovrebbero essere subordinati all’attuazione di specifiche previsioni degli strumenti urbanistici e non questi ultimi rincorrere i finanziamenti attraverso un’infinità di deroghe alle proprie previsioni.

Infine, è indispensabile rivedere i meccanismi normativi vigenti al fine di arginare il fenomeno dell’abusivismo edilizio, in quanto dimostratisi del tutto inefficaci nel Mezzogiorno, anche perché la dispersione edilizia determina la concreta impossibilità di infrastrutturare il territorio, che, come si sottolinea di seguito, è momento strategico per il decollo dell’economia meridionale.

L’urgenza di riaffrontare organicamente la questione meridionale, con uno sforzo politico della comunità nazionale in termini di risorse finanziarie e intellettuali, paragonabili a quelle messe in campo agli inizi degli anni ’50 con l’avvio dell’intervento straordinario, è dettata dalle seguenti due motivazioni.

Il ritmo di crescita del Mezzogiorno rimane troppo lento per colmare, in tempi accettabili, il perdurante divario esistente rispetto al centro-nord; nel triennio 2004-2006, la distanza in termini occupazionali e di ricchezza prodotta è tornato ad ampliarsi, a valle di una fase in cui si era leggermente ridotta; le ultime stime descrivono una ripresa più robusta per le regioni centro-settentrionali e una nettamente inferiore in quelle meridionali, che pure negli anni precedenti avevano sofferto di una consistente contrazione dell’attività economica e, ancora più marcatamente, dei livelli occupazionali (Tabella 2).

Tabella 2

 

In alcune aree del Mezzogiorno, in particolare campane e calabresi, al di là della plurisecolare e irrisolta vicenda siciliana, la condizione di perdurante stagnazione economica sta accentuando la già preoccupante condizione di disgregazione sociale esistente, che alimenta non solo il crescente potere occulto della malavita organizzata ma determina l’arretramento dello Stato in estese porzioni di territorio urbano e metropolitano, nelle quali si va consolidando un contropotere palese e riconosciuto da ampie quote di popolazione insediata.

È unanimemente condiviso come il rilancio del Mezzogiorno sia possibile a condizione che vengano affrontati i quattro specifici nodi, che di seguito si elencano: fiscalità di vantaggio, semplificazione amministrativa, industrializzazione, infrastrutturazione.

Ma almeno due di tali punti hanno a che vedere con il governo del territorio.

La semplificazione amministrativa si ottiene se vi sono regole e procedure certe di uso del suolo, in mancanza delle quali si incespica nella discrezionali della burocrazia, che tanti guasti ha prodotto anche per la costante pressione della criminalità organizzata sugli apparati pubblici.

L’infrastrutturazione del territorio, oltre che tradizionalmente materiale, deve assumere anche una dimensiona immateriale, da sostanziarsi in quadri di opportunità allocative di risorse definite da piattaforme programmatiche, da proiettare, in piena trasparenza, nel corpo degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale.

In conclusione, la cultura e la pratica del governo del territorio, a partire dalle dotazioni fondamentali e indispensabili, tuttora drammaticamente carenti, deve potersi rilanciare e diventare, con il sostegno dello Stato centrale, uno degli strumenti per riagganciare il Mezzogiorno al resto del paese e non momento di profonda, continua e perdurante divaricazione.

 

 

Note

 

1 Legge Cost. 18 ottobre 2001, n. 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione.

2 Rapporto dal territorio 2005, a cura di Piero Properzi, Inu Edizioni, Roma, 2006.

3 Il Sole24Ore del 28 novembre 2005.

4 Fonte: Ministero dell’Interno, 2006.

5 Tranne il Comune di Taurianova (Rc), che conta 15.392 abitanti; fonte: Il Sole24Ore del 23 ottobre 2006.

 

 

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