Numero 12/13 - 2006

 

Lectio magistrali  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ultima lezione di Tecnica urbanistica*


Gian Ludovico Rolli


 

La tecnica urbanistica, prezioso strumento concettuale e operativo della pianificazione urbanistica e territoriale, si affaccia al nuovo secolo dopo avere dato un contributo essenziale per tutto il '900. Gian Ludovico Rolli presenta la sua lectio magistralis, tenuta del 2005, ulteriormente perfezionata e rinvigorita da riflessioni sulla prospettiva disciplinare, tanto da collocarla non come conclusione di una vicenda professionale e personale, ma quale tappa di un percorso culturale in evoluzione

 

 

Premessa

 

Al momento della preparazione della mia ‘ultima lezione di Tecnica Urbanistica’, in occasione del commiato dall’insegnamento di questa materia nell’Università in cui ho lavorato per più di trent’anni, ho avuto molti dubbi sulla scelta degli argomenti e del taglio da dare allo svolgimento, soprattutto per il fatto che mi sarei trovato di fronte ad un uditorio composto non solo da studenti di tutti gli anni di corso, ma anche da colleghi e amici autorevoli, appartenenti al mio e ad altri campi disciplinari.

Mi si presentavano (semplificando) due possibilità. La prima era di trattare uno o più temi specifici, concreti, attraverso l’illustrazione di esperienze svolte nel corso della mia attività di studioso e di operatore in urbanistica; la seconda di sviluppare alcune riflessioni sull’evoluzione, sullo stato attuale e sulle prospettive del nostro campo disciplinare, nell’insegnamento e nella pratica. La prima, probabilmente, più semplice e accattivante; la seconda più stimolante, ma anche più suscettibile di farmi cadere in un eccesso di didascalia e, forse, nella sindrome del grillo parlante.

Ciò nonostante ho preferito la seconda alternativa; come si vedrà, nei miei ragionamenti, e nei suggerimenti che mi permetterò di offrire alla parte giovane dell’uditorio e soprattutto agli studenti, ho ampiamente trasfuso le convinzioni – e anche le illusioni e disillusioni – che ho ricavato dal ripercorrere le mie (e anche le altrui) esperienze. In particolare mi è sembrato opportuno mettere qualche puntino sulle i, dal mio punto di vista, sull’origine storica e sul ruolo attuale della Tecnica urbanistica, che a me appaiono messi in ombra nella confusione del quadro attuale delle discipline urbanistiche1.

Probabilmente alcune delle mie considerazioni potranno non essere condivise dalla parte più matura e navigata dell’uditorio, in particolare quelle che risulteranno un po’ critiche verso la comunità scientifica di cui facciamo parte; ma ho ritenuto opportuno esprimerle in quest’ultima occasione, come contributo – soprattutto di idee e proposte in positivo – ad un confronto che è bene sia sempre aperto.

Ai giovani, studenti, laureandi e laureati, vorrei in particolare far intravedere alcuni campi d’intervento in funzione dei quali consiglierei loro di affilare le armi, uscendo dalla genericità e dalla nebulosità dei discorsi sulle prospettive del loro inserimento nel mondo dell’urbanistica.

Tratterò brevemente, secondo il mio punto di vista, dell’ampiezza e frammentazione del quadro delle discipline urbanistiche; delle origini e collocazione della Tecnica urbanistica in questo quadro; dell’evoluzione attuale della pianificazione e del piano; dell’urbanistica di fronte alla città di oggi; di alcuni specifici campi d’intervento della Tecnica urbanistica nella situazione attuale, corredando il tutto di alcune note di commento e di esemplificazione, e di alcune brevi considerazioni conclusive.

 

 

La galassia urbanistica

 

Riferendoci alle denominazioni dei corsi nell’ordinamento universitario nazionale, l’insegnamento della Tecnica urbanistica è stato ed è tradizionalmente presente nel Corso di laurea in Ingegneria civile e successivamente in quello edile, mentre l’insegnamento dell’Urbanistica è tipico (ed una volta era esclusivo) del o dei Corsi di laurea in Architettura.

Al fine di precisare le fisionomie e le differenze, maturate nel corso di circa tre quarti di secolo, tra questi due insegnamenti, è opportuno tenere presente il complesso insieme disciplinare, che mi sembra significativo chiamare galassia urbanistica, in cui si configura la generalità degli studi che hanno per oggetto l’insediamento umano.

Possiamo esaminare questo insieme disciplinare organizzandone le varie componenti secondo due gruppi fondamentali:

a) le discipline scientifiche;

b) le discipline applicative.

Di fronte a questi due gruppi noi, ingegneri e architetti, ci collochiamo rispettivamente come soggetti coscienti (protagonisti di conoscenza), e come attori (operatori d’interventi).

Il primo gruppo comprende le discipline specifiche, e l’indicazione di alcuni loro contenuti che ne costituiscono il campo d’interesse principale, coinvolti nella conoscenza dei fenomeni insediativi attuali e pregressi ed eventualmente nella previsione di quelli in divenire.

Il secondo gruppo è composto dalle discipline, e dagli strumenti di cui esse si avvalgono, aventi carattere operativo, finalizzati all’individuazione delle modalità attraverso le quali si prefigura un futuro dell’insediamento coerente con una determinata visione-obiettivo, e generalmente si indicano anche gli interventi da attivare ai fini del perseguimento di questa visione.

Ho cercato di sintetizzare i principali contenuti e articolazioni di queste due categorie mediante parole chiave, senza alcuna pretesa di sistematicità definitoria e classificatoria (Figure 1 e 2).

Figura 1

 

 

Figura 2

 

Come si vede sono presenti alcune denominazioni disciplinari classiche (nella categoria scientifica: storia della città e storia dell’urbanistica, geografia urbana; nella categoria applicativa: pianificazione urbana e pianificazione territoriale, progettazione urbana, disegno urbano); non sono invece indicate l’urbanistica, la tecnica urbanistica, l’ingegneria del territorio, discipline tutte caratterizzanti, come si è detto, l’ordinamento dei corsi di laurea in Ingegneria civile ed edile (anche se, come si è detto, l’urbanistica fino a non molti anni fa era peculiare dei C.d.L. in Architettura).

Infatti, queste discipline, più che essere caratterizzate da contenuti ben definiti, sono tutte una sorta di contenitori disciplinari di conoscenze e metodologie; nella metafora della galassia sono sistemi di corpi individuali presenti nella galassia stessa2.

Questa accezione ampiamente comprensiva del significato di urbanistica si è riflessa, soprattutto in Italia, sulla caratterizzazione dell’insegnamento della disciplina, che generalmente affronta i temi della galassia disciplinare in forma complessiva e spesso non ben definita, spesso anche a causa dei condizionamenti imposti dalla ristrettezza degli spazi didattici. Le modalità dell’insegnamento si sono venute ad articolare, nel corso degli anni, a seconda della specificità delle diverse scuole e della formazione e della sensibilità dei singoli docenti, coinvolgendo più in particolare alcune delle diverse componenti e sintetizzando o omettendone altre.

Esiste un altro modo di affrontare l’insegnamento delle discipline presenti nella galassia urbanistica, poco praticato in Italia3, e usuale nel mondo mitteleuropeo e anglosassone: esso fa riferimento a filoni disciplinari ben identificati tanto nella loro specificità quanto rispetto alla loro appartenenza al versante scientifico o a quello applicativo (urban geography, town e regional planning, town design, ecc.).

Ovviamente è più che ragionevole che ogni comunità scientifica pratichi nelle sedi della formazione didattica i criteri che i suoi componenti ritengono più opportuni; meno ragionevole che questa libertà comporti spesso la conseguenza di rimescolare e confondere il proprio campo disciplinare, e soprattutto di sottovalutare l’importanza basilare della distinzione logica, prima ancora che cronologica, dell’approccio conoscitivo storico-geografico rispetto a quello operativo, espresso dalle materie riguardanti la pianificazione e la progettazione4.

Un breve richiamo relativo alla storia della Tecnica urbanistica nell’ordinamento universitario italiano può aiutare a meglio definire il carattere e il ruolo di questo insegnamento.

 

 

Origini ed evoluzione della Tecnica urbanistica

 

Almeno fin dalla seconda metà dell’ottocento i piani regolatori delle città importanti, in Italia, come negli altri paesi, avevano ampiamente delineato la pratica della disciplina urbanistica, che però non era ancora presente come tale nell’insegnamento universitario del nuovo Stato nazionale.

Infatti, l’insegnamento della Tecnica urbanistica viene introdotto alla fine degli anni ’20 del novecento, all’interno dei corsi di laurea in Ingegneria civile.

Va ricordato che analogamente, nell’ordinamento delle Università nello Stato unitario, le cattedre di Architettura sono attive a partire dalla seconda metà dell’ottocento, quando vengono istituite le Facoltà d’Ingegneria5. Solo negli anni ’20 del novecento furono create a livello universitario, fuori dalle Accademie di Belle Arti, le prime Scuole di Architettura e, negli anni ’30, le Facoltà di Architettura, in cui venne introdotto l’insegnamento dell’Urbanistica.

La Tecnica urbanistica nasce, quindi, all’interno delle Facoltà d’Ingegneria come disciplina applicativa, ed è collocata nell’ambito del triennio di applicazione, come la maggior parte delle tecniche finalizzate alla costruzione, nel caso specifico alla costruzione della città.

L’insegnamento dell’Urbanistica, introdotto pochi anni dopo, come si è detto, nelle neonate Facoltà di Architettura, è maggiormente rivolto agli aspetti della storia, della forma e del disegno dell’insediamento e dei suoi elementi6.

Per quanto riguarda la Tecnica urbanistica, il carattere applicativo della disciplina (e il limitato spazio didattico a questa dedicato dapprima nell’ordinamento dei corsi di laurea d’Ingegneria civile) hanno reso necessario fin dalle origini compattare nell’insegnamento il quadro disciplinare, comprendendovi sia il momento dell’inquadramento conoscitivo sia quello applicativo, rivolto prevalentemente agli aspetti tecnico-dimensionali, funzionali e organizzativi dell’insediamento urbano7.

In questo clima si sono sedimentati i contenuti disciplinari in quegli anni, in cui ha operato la generazione dei nostri Maestri8.

La ineludibile compresenza del momento conoscitivo e di quello operativo accomuna e caratterizza ambedue le discipline urbanistiche presenti nell’ordinamento universitario, almeno dagli anni ’30 agli anni ’50 e in parte ai ’60 del novecento, pur nella loro sopraddetta specificità e nella diversa collocazione nelle Facoltà9.

Nell’insegnamento c’è un po’ di storia, un po’ di geografia urbana (quasi mai chiamata così), cenni relativi ai modelli organizzativi dell’insediamento, ed un po’ di pianificazione. Ai temi della pianificazione, in particolare, si riallacciano, a mio avviso, i principali problemi dell’insegnamento che si sono venuti a determinare gradatamente, col passare degli anni, fino al momento attuale.

Il tipo di piano che veniva insegnato era in origine abbastanza semplice, poiché i fenomeni e le esigenze urbanistiche della società erano (o apparivano) più circoscritti e controllabili di quelli odierni, ma soprattutto perché semplice e ben definito era all’epoca il quadro istituzionale in materia di pianificazione urbanistica10. Nella maggior parte dei casi, e ovviamente a esclusione (e non sempre) delle grandi città, il piano regolatore era un impegno che si affrontava solo nelle grandi occasioni.

Riferendoci in particolare agli ingegneri, la formazione tecnica impartita dall’insegnamento, la disponibilità della manualistica e soprattutto l’esperienza, consentivano, in particolare ai laureati che avevano interesse per la materia, di acquisire la maturazione occorrente per progettare nella città (prevalentemente per singoli interventi) quartieri, attrezzature di servizio, reti stradali, infrastrutture del trasporto pubblico, ben organizzati e in molti casi ben disegnati.

Gli altri tipi e livelli di piano, pur già identificati dalla cultura e dalla legislazione, non erano ancora entrati nella pratica delle amministrazioni competenti11.

La tecnica urbanistica, e più in generale l’urbanistica, erano ancora discipline considerate, da parte dei cittadini e degli operatori sul campo, credibili e portatrici di risultati tangibili ai fini dello sviluppo urbano.

I segni di una crisi in atto, dovuta in gran parte all’incapacità della cultura e soprattutto della legislazione urbanistica di adeguarsi tempestivamente all’evoluzione dell’insediamento e dei suoi problemi, come è avvenuto in altri paesi, cominciavano però a essere avvertiti da tempo, da parte dagli osservatori più attenti12.

 

 

L’emergere della complessità nella pianificazione

 

Negli ultimi decenni del ’900 l’evoluzione della realtà urbano-territoriale ha fatto emergere e in alcuni casi esplodere problemi irrisolti, fabbisogni insoddisfatti, e conseguentemente la necessità di fornire nuove risposte.

I problemi coinvolgono non solo gli aspetti specificamente urbanistici, ma anche quelli ambientali, economici, sociali, politico-amministrativi e così via.

L’esigenza di fornire soluzioni nuove e adeguate ha fatto sì che l’urbanistica, anche nell’insegnamento, si sia venuta gradatamente a identificare sempre di più con la metodologia del piano, concentrando quindi l’attenzione su quello che ho precedentemente designato, nella galassia disciplinare, come il momento operativo, spesso a spese dell’approfondimento del momento scientifico e anche di quelli più specificamente tecnici dell’intervento.

A fronte di queste nuove esigenze è apparso inevitabile alla comunità scientifica affrontare una realtà, sempre più complessa e dinamica, ampliando e moltiplicando i campi di interesse disciplinare e di predisposizione degli strumenti d’intervento.

Questo è avvenuto in due modi che corrispondono anche a due momenti successivi dell’evoluzione disciplinare.

Il primo consiste nell’affermarsi dell’istanza dell’interdisciplinarietà, peraltro presente fin dalle origini, se pur timidamente, nella pratica della pianificazione urbana e territoriale, anche se permane a lungo la figura carismatica dell’urbanista demiurgo13. Questa istanza ha allargato la gamma delle competenze e dei protagonisti coinvolti a vario titolo nel processo della pianificazione, pertanto all’intorno, ma ancora al di fuori del prodotto di questo processo, che resta un piano più o meno canonico.

Il secondo momento, più recente e attualmente quasi generalizzato, tende a portare l’interdisciplinarietà all’interno non solo del processo, ma anche del suo prodotto, il piano, moltiplicando i tipi di questo e i modi di pianificazione. In realtà ciò è avvenuto più nel dibattito tra gli addetti e nelle proposte che ne sono emerse, che nelle concrete applicazioni: la gamma di tipi e metodi, protagonisti, procedure, forme di supporto presenti nel versante pianificazione della galassia disciplinare precedentemente schematizzata dà ragione dello stato nebuloso di questo sistema.

Da allora lo slogan della complessità domina il mondo dell’urbanistica e della pianificazione14.

La conseguenza, al di là delle buone intenzioni dei proponenti e anche di ipotesi interessanti di nuove forme e strumenti di piano, è che il quadro complessivo registra, nella maggior parte dei casi, complicazione e inceppamento del sistema generale della pianificazione. Il che avviene anche a motivo della rigidezza dell’impalcatura amministrativa nazionale e della progressiva sempre maggiore confusione normativa15.

Inoltre, i tipi di piano e le procedure di costruzione dei piani istituzionali si mostrano sempre più incompatibili con i tempi e i modi della politica, e in particolare con le scadenze elettorali delle amministrazioni locali, il che ha comportato la generalizzazione del fatto che il ciclo di produzione di un piano vigente raggiunga una durata pressoché decennale, privando il piano stesso di ogni efficacia e incisività reale.

Di fronte a questi problemi la comunità accademica, che per un verso costituisce una lobby ben inserita nella grande macchina burocratica con cui le amministrazioni del territorio gestiscono la pianificazione istituzionale, per un altro verso partecipa al dibattito che si svolge sulla scena culturale e scientifica assumendo una parte che somiglia a quella dei Medici al capezzale del povero Pinocchio (il piano).

Nel campo disciplinare l’enfasi per la complessità è talvolta un alibi che alimenta l’evasione verso campi di studio più che rispettabili, appartenenti prevalentemente alle scienze sociali ed economiche (la sociologia, l’antropologia, l’etnografia, le tecniche della partecipazione, il marketing urbano, ecc.), anche connessi per molti aspetti con i processi di pianificazione, ma sostanzialmente esterni rispetto alla nostra specificità disciplinare16.

Questo atteggiamento favorisce l’impossibilità, o copre l’incapacità, oggi diffuse, di agire sulla concretezza funzionale e fisica della compagine urbana e territoriale, il che ritengo debba ancora essere il ruolo specifico della Tecnica urbanistica.

A mio avviso, quanto più si evolvono, si arricchiscono e si frammentano gli aspetti della pianificazione, tanto più qualsiasi intervento sul sistema urbano dovrebbe essere basato su più solide fondamenta scientifiche e tecniche.

Queste considerazioni consigliano di riflettere sulla fisionomia e sul ruolo attuale delle discipline urbanistiche di base nell’insegnamento universitario, e in particolare della Tecnica urbanistica nelle Facoltà d’Ingegneria.

Facendo quindi particolare riferimento alla nostra disciplina, cerco di chiarire come, a mio avviso, essa possa oggi ancora fornire un apporto specifico, rilevante e aggiornato, al governo dell’insediamento.

Preliminarmente ritengo opportuno che si riconosca che noi uomini urbanizzati siamo immersi in una realtà urbana e territoriale, sedimentata dalla storia anche recente, in cui solo in certe epoche, e in certe occasioni, un piano ha avuto un ruolo determinante, o addirittura c’è stato. Questa realtà è il risultato della stratificazione di eventi comunque intervenuti e della metabolizzazione dei prodotti di questi eventi, avvenute durante il processo di sviluppo dell’insediamento. Nella maggior parte dei casi, inoltre, questa realtà è fortemente consolidata e resistente ai cambiamenti imposti dal di fuori.

Mi pare quindi importante, innanzitutto, che gli addetti ai lavori si spoglino del tipico atteggiamento dell’urbanista docente e grande professionista, che spesso ha l’aria di attribuirsi il ruolo di rifondatore dell’insediamento, di riformatore della pianificazione e della normativa, e così via.

Personalmente ritengo che nella pratica corrente e nell’insegnamento vada adottato un atteggiamento più modesto e prudente, partendo dalla considerazione che la realtà urbano-territoriale:

- innanzitutto, va conosciuta e capita in modo approfondito, in tutte le sue manifestazioni, nella sua duplice essenza di urbs e di civitas, di insediamento e di società civile;

- va rispettata, difesa, governata per quanto ha di valido, valorizzandone e non depauperandone le valenze e le potenzialità;

- va innovata solo dove e quando occorra, con capacità e strumenti appropriati17.

Tutto questo sembra semplice e ovvio, ma a ben vedere non è quello che si fa nella maggior parte dei casi, soprattutto a opera di molti degli urbanisti di cui sopra.

 

 

L’urbanistica di fronte alla città di oggi

 

Ai fini della definizione di quello che, secondo il mio punto di vista, può essere il ruolo attuale della Tecnica urbanistica, mi sembra utile premette una interpretazione, o meglio una schematizzazione della realtà sulla quale l’urbanista è chiamato oggi a operare, nella quale tutti i cittadini, anche non tecnici e non urbanisti, sono comunque coinvolti. Chiarisco che in questa schematizzazione non vi è nulla di originale se non, come si vedrà, la finalizzazione ad alcune conclusioni pratiche.

Chiamo sinteticamente città l’insediamento urbano-territoriale, e mi riferisco alla situazione italiana, con un occhio a quella europea, cioè ad un tipo di civiltà urbana fortemente consolidato.

Interpretando ai nostri fini le consuete classificazioni fornite dagli studiosi della città, possiamo considerare l’insieme urbano-territoriale scomposto in tre parti (tre tipi di città) che in realtà formano un sistema unico:

1. la città storica (in senso lato), composta dai residui della città antica (che comunemente chiamiamo centro storico) e dalla città sviluppatasi, in più o meno forte simbiosi con l’antica, a partire dal momento in cui le autorità di governo delle città hanno introdotto nuovi strumenti di controllo messi a punto dopo la crisi provocata dalla rivoluzione industriale (questo è avvenuto nelle grandi città europee tra la seconda metà dell’800 e i primi decenni del ’900, ma in molti casi molto più tardi e in forme attenuate, soprattutto nelle città minori).

Questa città, quindi, comprende, oltre ai centri o ai nuclei antichi, anche le più auliche componenti della cosiddetta città industriale moderna, in particolare le sedi del terziario e i quartieri più importanti realizzati in questo periodo. Ne escludo per contro quello che resta dei suburbi della prima espansione industriale, generalmente sviluppatisi senza regole e privi di qualità, e le zone industriali propriamente dette; infatti mi sembra più appropriato considerare ambedue queste componenti parte del seguente secondo tipo di città, in cui risultano oggi inglobate;

2. la città moderna e contemporanea, sviluppatasi generalmente nel periodo centrale del ’900, con forte accentuazione, in Italia, nei primi decenni dopo l’ultima guerra. Essa è formata da tutte le zone cosiddette semicentrali e periferiche (comprese quelle che ho considerato prima escluse dalla città 1, con il relativo corredo di terziario delle varie specialità e livelli e di attività produttive. Questa città è caratterizzata in prevalenza dalla contiguità e dalla compattezza delle sue diverse parti, che normalmente presentano differenziati gradi di densità, di qualità, di consolidamento;

3. la città dispersa dei nostri giorni, sviluppatasi prevalentemente negli ultimi decenni, caratterizzata dalla proiezione sul territorio sia di nuove polarità, sia di residenzialità sparsa. Questa città è figlia della rivoluzione dell’automobile, il maggior sconvolgimento urbanistico (e non solo urbanistico) dopo la rivoluzione industriale. Essa, interagendo con le città 1 e 2, materializza e consolida la dimensione funzionale della città-territorio.

A evitare equivoci derivanti dal significato più o meno appropriato o condiviso di termini afferenti alla lettura storica (centro storico, città antica, storica, moderna, industriale, contemporanea, e così via) trovo più significativo identificare e denominare questi tre tipi di città facendo riferimento alla sfera socio-culturale anziché a quella storico-urbanistica:

1. La città storica è la città dell’immagine

Essa si imprime nella nostra memoria non tanto di abitanti, quanto di cittadini che vivono in qualsiasi parte del mondo, attraverso i media, la letteratura, il cinema, il turismo. Tutti ne possono fruire, spesso gli abitanti stabili sono minoritari rispetto agli altri frequentatori e utilizzatori, per lavoro, per accesso ai servizi, per visita o per soggiorno temporaneo di qualsiasi durata. Non sempre è caratterizzata prevalentemente dalla permanenza della città antica: nelle grandi città europee è piuttosto in gran parte strutturata sulla base delle trasformazioni urbanistiche dell’800 e del primo ’900: ricordiamo Parigi, Londra, Berlino, Madrid, Bruxelles, Vienna, Barcellona (queste ultime, insieme a Parigi, riferimenti basilari dell’urbanistica ottocentesca) e così via; in Italia Milano, Torino, e – sia pure in minor grado – le stesse Roma, Napoli, Firenze e tante altre.

Ovviamente più sfaccettata e in parte diversa è la situazione delle piccole città.

2. La città moderna e contemporanea è la città compatta della vita associata tradizionale

In essa la maggior parte dei cittadini (ancora) abita, lavora, fruisce dei servizi sociali, trascorre la parte prevalente del proprio tempo quotidiano; questa è generalmente la più rilevante delle tre città per peso demografico ed economico, se non per estensione. Per contro essa è generalmente sconosciuta ai visitatori esterni, che identificano la città con la parte precedente (la città 1).

3. La città dei nostri giorni è la città dispersa della vita individuale

Protagonista inanimata di questa città è l’automobile18, che prima l’ha generata diffondendo disordinatamente (l’urban sprawl) residenze, sedi di attività e di servizi, poi ha riversato il suo indotto sulle altre due città, riportandovi con frequenza pressoché giornaliera gli abitanti o i lavoratori pendolari, che in maggioranza non possono soddisfare tutte le esigenze della loro vita produttiva e sociale nella città dispersa. Si sono così venuti a determinare i massimi problemi della vita urbana contemporanea per quanto riguarda la mobilità e la qualità dell’ambiente.

 

Ovviamente le tre città 1, 2, 3 sono fortemente interrelate, e le loro relazioni pongono molti problemi all’intero insediamento (vale a dire alla città nel suo complesso). Questi problemi sollecitano altrettanti temi di studio e campi d’intervento, di cui segnalo sinteticamente alcuni dei più rilevanti:

- le polarità tradizionalmente localizzate nelle città 1 e 2, che nel loro insieme configurano la parte compatta dell’intero insediamento, attirano anche gli abitanti della città dispersa 3, generando notevoli movimenti pendolari i cui vettori e la cui dinamica sono di difficile prevedibilità e controllo;

- per contro la presenza, nella città 3, di nuove polarità esterne, nate nella logica della diffusione, richiama sempre di più anche i movimenti pendolari o saltuari degli abitanti residenti nella città compatta, che si dirigono verso i nuovi centri di attività produttive e del terziario amministrativo, le sedi della grande distribuzione commerciale, del tempo libero e tanti altri attrattori;

- l’abusivismo urbanistico (eufemisticamente l’espansione spontanea) di marca italiana, e più in generale lo sviluppo incontrollato delle metro-megalopoli mondiali, si sono sviluppati ai margini della città di tipo 2 e sono dilagati sulla 3;

- la città dispersa, che nelle zone caratterizzate da un denso policentrismo storico tende a saturare vaste porzioni di territorio intorno ai vecchi centri, innalza ad un livello di guardia le problematiche della compromissione dell’ambiente storico e naturale, e impone con particolare urgenza l’adozione di idonee forme di tutela, la cui tardiva o lacunosa attivazione genera danni irreversibili.

 

 

Un ruolo specifico per la Tecnica urbanistica

 

I tre tipi di città descritti costituiscono il campo prevalente di attività e di responsabilità dell’architetto e dell’ingegnere, e in particolare dell’urbanista.

Alla luce dei caratteri attuali di questi tre tipi di città, e dei problemi evidenziati, si possono più facilmente definire, all’interno della galassia urbanistica, quelli che io ritengo i contenuti pregnanti di un corso urbanistico di base e in particolare di Tecnica urbanistica, al fine di fornire agli operatori conoscenze e strumenti utili ad agire con competenza, anche per singoli aspetti, sulla città, lasciando agli specialisti il presunto dominio del campo complessivo della pianificazione.

A mio avviso è prioritario fornire:

a) i riferimenti definitori, classificatori e metodologici della geografia urbana e delle tecniche per il controllo quantitativo e morfologico dell’insediamento, fondamentali anche solo per inquadrare i problemi delle tre città;

b) i riferimenti storici, anche in raccordo con i corsi specifici di storia dell’architettura e dell’urbanistica, indispensabili per qualsiasi valutazione o azione rivolta alla città 1. In particolare non può mancare una sufficiente attenzione per le teorie e gli interventi urbanistici dell’800 e della prima parte del ’900. Nell’attuazione dei piani dell’urbanistica moderna, infatti, con particolare riferimento alle principali città europee, hanno trovato riscontro e verifica le nuove teorie urbanistiche, si sono sviluppate le tecniche d’ingegneria per l’infrastrutturazione urbana moderna, sono stati messi a punto nuovi modelli di disegno urbano, in generale formalmente garbati e dialoganti con quelli della città antica19, anche se spesso realizzati, come è noto, a spese dei tessuti preesistenti;

c) per quanto riguarda il versante della pianificazione, ritengo che un corso di Tecnica urbanistica debba fornire i basilari strumenti tecnici d’intervento utilizzabili dai laureati in ogni occasione della loro attività anche individuale, compresa la progettazione e la pianificazione delle diverse componenti urbane, insediative e infrastrutturali, alle differenti scale dell’intervento sulla città e sul territorio.

Dovrà pertanto far parte del bagaglio disciplinare dell’urbanista tecnico la conoscenza della struttura logica del processo della pianificazione e dei fondamentali tipi e livelli di piano (possibilmente senza che cada troppo da piccolo nel labirinto regionale), proprio al fine di poter applicare proficuamente la progettualità sopraddetta20.

Ritengo, per contro, che l’approfondimento della gamma delle conoscenze occorrenti per muoversi con sufficiente competenza e senso critico all’interno della complessità del campo disciplinare e interdisciplinare della pianificazione non sia alla portata della generalità dei laureati in Ingegneria civile, edile (e a mio avviso anche in Architettura), tenuto anche conto del fatto che tutti loro possono avere orientamenti formativi diversi da quelli finalizzati alla formazione dell’urbanista pianificatore. Un corso di base non potrà, sul versante della pianificazione, andare oltre alcune fondamentali linee d’inquadramento critico e problematico21.

Ai fini della maturazione graduale dei giovani laureati che intenderanno, o si troveranno nelle circostanze di praticare, nel corso della loro attività, l’urbanistica ad un livello di responsabilità professionale o amministrativa relativamente elevato, la formazione specialistica e il tirocinio – peraltro oggi previsto dall’ordinamento professionale – faranno il resto, come è avvenuto per tutti noi pianificatori e docenti22.

Queste considerazioni propongono, a mio avviso, un solo apparente ridimensionamento del ruolo della Tecnica urbanistica. Ritengo, infatti, che l’insegnamento di questa debba fornire in modo sufficientemente approfondito metodi e strumenti per intervenire, con piani di dettaglio e progetti urbani specifici, nel momento in cui il piano generale, o più probabilmente le occasioni fornite da finanziamenti e/o interventi esterni, da particolari fabbisogni locali, da accordi programmatici e da idonee forme di partenariato (oggi generalmente sostenuti da un programma complesso), creino la motivazione e l’esigenza per un intervento.

Questa mia posizione rende opportuno richiamare il ruolo della pianificazione per progetti, che è stata caratterizzata nella considerazione degli addetti ai lavori da ricorrenti alti e bassi nel corso degli anni recenti, intrecciandosi, sotto le diverse forme e denominazioni dei piani (si veda lo schema della galassia urbanistica) con quella per obiettivi o, semplicemente, con quella classica omnicomprensiva. Sta di fatto che un bilancio delle esperienze mostra, e più ancora dimostra, che quasi nessuno dei grandi interventi di attrezzatura o di infrastruttura, che ha inciso e condizionano in modo spesso pesante e determinante, nel bene e nel male, le compagini urbane e territoriali, è stato prefigurato da un piano generale. Questo tipo d’interventi è, infatti, quasi sempre al di fuori della portata previsionale e gestionale di un’amministrazione comunale anche importante, tenuto conto dei limiti delle sue competenze istituzionali e dei condizionamenti economici, temporali, politici cui la sua attività è soggetta23.

Solo la localizzazione, più che la dimensione, dell’espansione residenziale (e nella maggior parte dei casi neppure delle trasformazioni urbane indotte dalle dismissioni di grandi attività preesistenti) è stata, e solo in parte, prefigurata dai piani e dalle loro continue varianti.

Ma, a ben vedere, il vero problema non è creato da questa inevitabile incompetenza previsionale. Esso risiede piuttosto nell’indisponibilità o nell’incapacità di usare – da parte dei gestori dell’urbanistica – procedure, strumenti e strutture operative in grado di regolare, al momento che esso matura, l’intervento prima non prevedibile o non previsto, e il suo inevitabile indotto urbanistico e ambientale, mediante un progetto idoneo ad assicurare un ordinato sviluppo della città.

Il fornire questi strumenti e queste competenze, mediante figure professionali adeguatamente preparate, è a mio avviso il principale compito che la Tecnica urbanistica deve essere in grado di assolvere in favore delle amministrazioni pubbliche e degli operatori pubblici e privati.

 

 

Alcuni dei principali settori d’intervento

 

Tra i numerosi settori d’intervento nei quali la Tecnica Urbanistica può fornire il suo apporto specifico nelle operazioni di pianificazione e di progettazione urbana, ne indico nel seguito alcuni la cui rilevanza e urgenza è particolarmente evidente e che, richiedendo particolari competenze, offrono anche un ampio campo di applicazione professionale, oggi a ben vedere poco praticato. A tal fine occorre, a mio avviso, che nelle sedi della formazione e della professione si abbiano le carte in regola per superare l’insensibilità e l’incultura della committenza, soprattutto pubblica, intorno a questi temi.

 

L’integrazione tra le localizzazioni insediative e il sistema del trasporto pubblico

 

Quello che genericamente viene chiamato il problema del traffico, che costituisce forse il principale motivo di disagio della vita cittadina contemporanea e di preoccupazione degli amministratori comunali, è in realtà un problema di tecnica urbanistica e di politica urbana che trae la sua motivazione dalla cattiva o inesistente sinergia tra le due componenti della fisiologia urbana, le sedi fisiche adibite alle diverse funzioni e i flussi di relazioni tra queste, attraverso i relativi convogliatori.

Come è noto, il tema del rapporto organico tra la forma dell’insediamento e la struttura del trasporto è alla base di importanti teorie dell’urbanistica moderna e di esemplari esperienza di urbanistica contemporanea24.

Innanzitutto i piani urbanistici dovrebbero far si che la sinergia sopraddetta sia assicurata o mantenuta in ogni fase della trasformazione urbana (si consideri che alle origini storiche dei singoli insediamenti essa è generalmente presente), e soprattutto vada perseguita in ogni intervento incrementativo o nuovo, a qualsiasi livello. Essa deve riguardare tutti e tre i tipi di città prima descritti, con particolare riferimento alla città compatta 2. Nel caso della città dispersa 3, il suo perseguimento richiede l’applicazione di accorgimenti di progettazione e di gestione urbana che comportino, almeno, adeguati livelli di controllo e di attenuazione del traffico veicolare privato, peraltro inevitabile in quel tipo di realtà.

Purtroppo nella dinamica recente della maggior parte delle città italiane questa esigenza è costantemente ignorata o sottovalutata: basti guardare ai casi concreti, al di là di slogan come i piani del ferro25.

Per quanto riguarda la strumentazione tecnica, piani urbanistici e piani della mobilità dovrebbero sempre nascere tra loro integrati, fin dalla pianificazione generale (se questa è tempestiva e aggiornata), e soprattutto l’attuazione delle loro previsioni deve costituire precondizione per la realizzazione di nuovi insediamenti o per l’incremento di insediamenti esistenti in un contesto già sviluppato. Invece nella pratica nazionale usuale sono ancora due operazioni separate, e in particolare i piani della mobilità sono costituiti da provvedimenti di polizia urbana che cercano di fornire una toppa, che in generale risulta mal riuscita, per i problemi di traffico che rendono sempre più invivibile la città esistente.

In questo campo la Tecnica urbanistica ha dato fin dalle origini, e deve continuare a dare, il suo apporto fondamentale e insostituibile.

Alla scala della progettazione urbana basterà ricordare, oltre ai riferimenti classici citati nella nota 24, anche il contributo fornito dai testi e manuali d’epoca, e anche più recenti26, che forniscono, se pur rapportati al loro specifico tempo, le buone regole per l’organizzazione e anche il disegno degli spazi urbani, e l’idoneo inserimento dei mezzi per la mobilità urbana ed extraurbana.

I testi suddetti forniscono le informazioni dimensionali e grafiche occorrenti per realizzare strade, piazze, larghi e, in generale nodi e assi urbani opportunamente organizzati, con marciapiedi e aree pedonali, sistemazioni arboree, separazione dei diversi tipi di traffico, in particolare percorsi ben inseriti e protetti dei tram, che costituivano in passato un complemento indispensabile e amichevole della vita dei cittadini. Su queste basi (ma in realtà erano i manuali che, come è giusto, recepivano e trasmettevano la cultura e l’esperienza dei progettisti) sono stati inseriti nei primi decenni del ’900 i sistemi del trasporto pubblico e, in particolare, linee tramviarie diffuse ed efficienti a Roma, Milano, Torino, nelle altre principali città d’Italia e – più o meno contemporaneamente – di tutto il mondo.

Inoltre nelle nuove zone delle città i tracciati venivano inseriti in molti casi con attenzione non solo all’efficienza funzionale, ma all’equilibrio rispetto al disegno delle strade, delle piazze e anche del costruito circostante. Lo testimoniano esempi illustri27.

In pochi casi oggi quest’equilibrio tra infrastruttura e costruito è stato mantenuto, e solo di recente è stato rivalutato e reintrodotto in forma più generale, con molte difficoltà a causa della perdita delle situazioni previste dai progetti originari. Non mancano, per fortuna, buoni esempi recenti.

Ma nella maggior parte dei casi, purtroppo, il recupero della linea su ferro avviene ficcando alla menopeggio le rotaie o, talvolta uno dei cosiddetti sistemi innovativi di mobilità, nella disordinata città odierna. È pur sempre meglio di niente.

Con riferimento all’equilibrio tra spazi della mobilità, o più in generale di relazione, e costruito, viene da pensare con rimpianto al disegno “delle masse e delle altezze dei fabbricati lungo le principali vie e piazze” nel piano particolareggiato previsto dalla legge urbanistica del 1942 tuttora, al momento che scrivo, felicemente vigente. In realtà, oggi al massimo si fa un planovolumetrico spargendo a piacere la densità di edificazione, prevista dalle norme urbanistiche mediante un numero. È quella che mi piace definire l’urbanistica digitale rispetto a quella tradizionale, che per contro chiamo analogica. Si rifletta su quale delle due modalità abbia espresso, nelle diverse fasi di costruzione della città, gli stimoli forniti dal genius loci, e quale l’omologazione a modelli generalizzati.

Negli anni ’60 fu coniato il termine urbatettura come se fosse una grande novità; in effetti era impropriamente riferito a discutibili modelli di fantaurbanistica.

Si può obiettare che la città contemporanea non è più controllabile attraverso il progetto della forma, dell’organizzazione dei tessuti e del loro rapporto con l’infrastruttura; che le periferie, la città dispersa, l’insediamento territoriale, con le loro nuove emergenze funzionali, pongono problemi totalmente nuovi, non solo urbanistici e architettonici, ma anche sociali, economici e politici.

Si può essere d’accordo, ma questo non deve costituire un alibi all’incapacità di intervenire opportunamente nelle situazioni in cui sarebbe necessario e possibile, mettendo in gioco specifiche conoscenze e capacità disciplinari tecniche, sia pure in rapporto con le diverse competenze fornite da altre figure di specialisti.

 

La gestione della mobilità pedonale

 

Da quando il traffico veicolare, soprattutto automobilistico, la fa da padrone dentro e fuori dalla città, il movimento a piedi ha perduto la sua classica valenza di vettore della fruizione urbana e in particolare di mediatore tra i cittadini e le attrezzature e, più in generale, le polarità urbane.

Si può parcheggiare dentro un centro commerciale o direzionale, intorno e forse sotto a una chiesa moderna, certo non si può godere così della qualità dell’ambiente urbano, soprattutto di quello antico, se non in forma incompleta ed episodica, tra un parcheggio (molte volte difficoltoso e costoso) e l’altro. Purtroppo anche per chi va a piedi questo godimento è reso impossibile dalle auto degli altri: molte città storiche, anche piccole e medie, che potrebbero più facilmente conservare la loro fisionomia a misura d’uomo, sotto questo profilo sono da evitare. Lo testimoniano le esperienze di tutti noi turisti e studiosi.

È scontato che nella città contemporanea non si possano risolvere, come in quella antica, la maggior parte degli spostamenti con il movimento a piedi.

Credo però si possa convenire che il movimento locale pedonale dovrebbe essere sempre facile e sicuro; che i percorsi pedonali, relativi almeno alle porzioni dell’insediamento aventi una specifica identità e unità sotto il profilo abitativo e funzionale, dovrebbero essere connessi in un sistema continuo; che questo sistema debba essere complementare rispetto al sistema del trasporto pubblico e connesso ai suoi nodi, anche attraverso il sistema del verde e gli spazi di pertinenza delle attrezzature urbane.

Invece oggi nelle città, e non solo in quelle più grandi e disperse e nelle zone maggiormente congestionate, i requisiti sopraddetti, che dovrebbero essere inderogabili ai fini della buona gestione urbana, non sono affatto rispettati, anche a causa dell’insipienza dei responsabili tecnici e amministrativi, e anche per una distorta tendenza politica alla tutela di interessi precostituiti. L’invadenza del traffico veicolare privato (sia il movimento sia, soprattutto, la sosta), l’assenza o il mancato rispetto di regole e di sanzioni certe, la diseducazione, creano a tutti gli abitanti, soprattutto ai più deboli, mancanza di sicurezza, rischi per la salute, disaffezione per la vita cittadina.

Nella città compatta, a cavallo tra ’800 e ’900, il sistema della mobilità pedonale era uno dei connotati salienti della vita urbana: marciapiedi continui e per quanto possibile ampi, percorsi alberati nei boulevards, viali commerciali, portici, passaggi coperti e gallerie urbane, attraversamenti di alcune grandi attrezzature (ad esempio, gli atri delle stazioni) costituivano un sistema di percorsi in alcuni casi di eccezionale coerenza ed efficienza28.

Oggi, proprio quando ci sarebbe più bisogno di un bilanciamento dei disagi creati dal traffico veicolare, il sistema dei percorsi pedonali preesistenti è stato, nella maggior parte dei casi, compromesso e reso inefficiente, spesso pericoloso, anziché essere rafforzato e assunto come riferimento da proiettare nella città da riqualificare.

In particolare la pedonalizzazione dei centri storici, che per essi è fisiologica, viene vissuta come evento eccezionale e drammatico (in senso teatrale), da realizzare, quando ce la si fa, dopo battaglie, discussioni, contestazioni, non come linea guida generale e doverosa.

Spesso il problema consiste nella confusione, da parte dei gestori responsabili, tra competenze urbanistiche, competenze tecniche settoriali, amministrative, di polizia urbana.

Questo problema sollecita l’esigenza di districare il difficile rapporto tra programmazione e progettazione, attuazione e gestione, in questo come in tutti gli altri campi della vita urbana, richiamando anche in questo caso un ruolo specifico della Tecnica urbanistica29.

 

Il recupero delle zone degradate e la riutilizzazione delle zone dismesse

 

Le zone urbane prive di qualità o degradate, in particolare nelle periferie residenziali, e le zone abbandonate per la perdita delle precedenti funzioni, in particolare produttive o trasportuali, interessano ampie porzioni della città 2 e talvolta parte della 1.

Esse costituiscono i grandi giacimenti per il rinnovamento e la riqualificazione urbana.

Sono anche uno dei campi in cui il progetto urbano può dispiegare al massimo grado le sue potenzialità.

Ritengo che generalmente non sia possibile, a causa della rigidezza dei processi di pianificazione nel confronto con la rapidità e l’imprevedibilità della dinamica urbana, e anche che probabilmente non sia indispensabile, che un piano regolatore generale (che in sostanza è un piano strutturale o un piano direttore di lunga gittata) preveda luoghi, tempi e modi per interventi di questo tipo, se non in forma estremamente generica, quindi sostanzialmente platonica. Ma questo non significa che, al momento che un intervento di questo tipo si mette in moto perché ne sono maturate le condizioni e le opportunità, quasi sempre ad iniziativa di operatori pubblici o, più spesso, privati diversi dalle autorità comunali, queste si debbano limitare a esigere le consuete contropartite generalmente consistenti nella corresponsione dei cosiddetti oneri di urbanizzazione, rinunciando ad assicurarsi che l’intervento apporti anche le migliori condizioni di crescita della qualità urbana all’intorno degli spazi interessati dall’intervento, e non solo (e non sempre) al suo interno.

Si pensi alle tante possibilità di applicazioni di elevato livello, sia della tecnica sia del disegno, che questi interventi offrono per il miglioramento della città, quando tanto i promotori quanto i controllori delle suddette operazioni siano in grado di mettere in gioco le idonee competenze, in particolare nel campo della Tecnica urbanistica e dell’Architettura.

Infatti, al di là dell’individuazione e dell’articolazione delle destinazioni, che normalmente sono alla base degli accordi tra le parti in gioco sulla scena urbana, e che in ultima analisi costituiscono il motore economico e socio-urbanistico delle singole operazioni di rinnovamento, notevole è il ruolo che possono assumere idonee soluzioni:

- per la mobilità e l’accessibilità veicolare, mediante il trasporto collettivo e individuale;

- per l’innervamento pedonale, anche mediante percorsi inseriti nel contesto urbano circostante,

- per la promozione e la regolazione, sempre nel contesto, del potenziale urbanistico indotto dell’intervento per quanto attiene la residenza, il commercio e le altre attività;

- per la ricostituzione, o la costruzione ex novo, di una nuova forma urbana nelle zone che hanno perduta quella originaria, o non ne hanno mai avuta una significativa.

È quello che si fa? Potrei fare un corposo elenco di occasioni perdute a questo riguardo.

Il tema delle aree urbane degradate e abbandonate ne richiama un altro analogo che si presenta non alla scala urbana, ma a quella territoriale: il tema dei centri storici minori, numerosissimi e in gran parte in situazione di abbandono e di fatiscenza. Essi costituiscono un altro grande giacimento di risorse insediative e culturali, da rimettere in gioco come valore ambientale e sociale, e anche da valorizzare sotto il profilo economico. Anche in questo campo idonee competenze progettuali, non solo tecniche, possono assolvere un ruolo importante e trovare un adeguato spazio professionale30.

 

La città, l’ambiente e l’energia

 

Il tema della tutela dell’ambiente dalle diverse forme di aggressione provocate dalla vita urbana contemporanea (consumo di territorio, di acqua, di aria, di risorse biologiche e, più in generale, naturali, di valori culturali) è entrato con insistenza tra gli aspetti messi in gioco dalla pianificazione, e ha condotto spesso alla proposta di soluzioni settoriali e velleitarie.

Infatti, queste sono generalmente rivolte a forme di protezione del cosiddetto ecosistema, ad esempio attraverso l’individuazione di cosiddetti corridoi e reti ecologici, tanto per citare una delle più abusate, di discutibile traduzione in termini di assetto territoriale.

Per contro c’è un altro campo, riconducibile alle tematiche ambientali, in cui la società umana in generale, e in particolare i gestori delle politiche urbane e gli urbanisti, sono a tutt’oggi disattenti e impreparati: quello dei danni provocati dal consumo di energia.

Non vi è dubbio che la città moderna è una grande divoratrice di energia, direttamente per la mobilità, i consumi elettrici, i trattamenti climatici degli edifici, e così via; indirettamente per le produzioni industriali che sostengono i consumi degli abitanti.

Come è noto, la produzione di energia deriva prevalentemente, nel caso dell’Italia più che in altri paesi, dal consumo di combustibile di origine fossile, da cui conseguono sul piano locale danni immediati, dovuti agli alti costi sostenuti e all’inquinamento provocato, e a livello globale danni trasferiti nel tempo, a causa dell’esaurimento di risorse limitate e non rinnovabili e della minaccia di variazioni climatiche incombenti.

Per il contenimento di questi consumi si fa (e per alcuni versi si può fare) ben poco sotto il profilo urbanistico.

In particolare si agisce in modo troppo timido nel campo della mobilità urbana, e in particolare della mobilità automobilistica, massima consumatrice di risorse e produttrice delle più diverse forme d’inquinamento. Invece è questo il campo che appare il più praticabile sotto il profilo urbanistico, e anche il più flessibile ai fini di una politica di contenimento dei consumi.

Ho già richiamato il più generale tema del perseguimento di opportune forme di sinergia tra localizzazioni insediative e sistema della mobilità, come provvedimento atto a minimizzare all’origine le esigenze di mobilità e a ottimizzarne le modalità.

Ovviamente nel caso degli insediamenti esistenti è possibile agire solo su particolari aspetti del fenomeno. In particolare nella città 3, la città diffusa della vita individuale, sia il ricorso generalizzato alla mobilità automobilistica, sia le caratteristiche prevalenti dell’edificazione dispersa ed estensiva, provocano il massimo dispendio pro-capite di energia, nei confronti delle altre compagini urbane.

Per contro, paradossalmente, proprio in queste zone che contribuiscono maggiormente al consumo energetico si offrono, alle competenze dei tecnici dell’ingegneria e dell’urbanistica, le massime possibilità di predisposizione di soluzioni energetiche innovative, oggi ancora niente affatto ricercate e applicate. In quest’ambito, per quantità di spazi liberi disponibili, per i minori condizionamenti che si pongono al comportamento individuale nei diversi tipi di costruzione, per assenza o per minore presenza – anche se non sempre – di vincoli ambientali e culturali, si presentano le massime possibilità di studiare e di mettere in atto sperimentazioni di contenimento dei consumi e di realizzazioni di produzione di energia da fonti rinnovabili, che potrebbero avere anche importanti ricadute sui modi della mobilità individuale.

In questo caso, più che di un campo di attività maturo, si tratta di un campo di ricerca ancora tutto da percorrere da parte dei cultori di Tecnica urbanistica, in collaborazione con quelli di Architettura e di Ingegneria energetica. La predisposizione di modelli ripetibili a scala territoriale per la produzione di energia elettrica da fonte solare ed eliotermica, e la generalizzazione in forme più efficienti e standardizzate di produzione di energia termica dal sole, da proporre sia al sistema produttivo che ai responsabili dell’amministrazione del territorio, vanno segnalate, a mio avviso, come un promettente e forse in futuro indispensabile campo d’intervento.

Quelli che ho indicato sono alcuni dei temi relativamente ai quali i cultori della Tecnica urbanistica, anche a fronte di committenze più preparate e sensibili di quelle attuali, ritengo possano trovare un importante spazio di specializzazione e di attività.

 

 

Una conclusione

 

Mi sia permesso di rivolgere ai giovani, e in particolare agli studenti delle materie urbanistiche, oltre che un saluto in occasione del mio commiato dall’Università, qualche consiglio onesto e affettuoso.

L’Università non può da sola, nel nostro campo come in tutti gli altri, insegnare a diventare importanti pianificatori, grandi progettisti urbani e così via.

È vero, ci sono i master, le specializzazioni, ma poi ci vogliono le occasioni giuste, il tirocinio, la pratica, il sugo di gomito. Per operare in concreto occorre soprattutto una bella spinta dal nostro interno, più che la classica spintarella dal di fuori.

Analogamente l’Università non basta, sulla sola base dei suoi percorsi istituzionali e burocratici, a formare e promuovere veri ricercatori, professori, baroni accademici e così via.

Ci sono i dottorati, i post-dottorati e quanto altro, ma poi ci vogliono altre cose, nel bene e nel meno bene.

Io sono stato studente d’Ingegneria (edile), laureato in Tecnica urbanistica.

Come professore, al pari di tutti i colleghi (illustri molto più di me) della mia generazione e delle precedenti, sono un autodidatta, vengo, come si dice, dalla gavetta.

Mi sono occupato prevalentemente, nella ricerca e nella professione, di pianificazione territoriale e ambientale, di centri storici, tutte cose che in realtà avevo studiato poco o niente all’Università.

Quello che l’Università deve dare, soprattutto in Ingegneria, è una solida base culturale scientifica, buoni strumenti tecnici, la capacità di costruire metodo e di ampliare la propria conoscenza.

Questa capacità si può continuare a sviluppare anche nella vita dopo la laurea, se si sono acquisite le chiavi e le basi culturali.

Senza di queste ogni specializzazione è costruita sul vuoto.

La Tecnica urbanistica e l’Urbanistica non fanno eccezione a questa logica.

 

 

Note

 

* La lezione è stata svolta il 7 aprile 2005 presso la Facoltà d’Ingegneria dell’Università dell’Aquila. In questo testo sono stati introdotti alcuni aggiustamenti e le note.

1 È opportuno precisare che la mia trattazione è dedicata al carattere e al ruolo che ritengo competano alla Tecnica urbanistica come disciplina di base, presente generalmente in uno dei primi anni del corso di laurea specialistica in Ingegneria edile-architettura, seguita da uno o più altri corsi di materie urbanistiche (o anche come corso unico nei corsi di laurea in Ingegneria civile). Non mi occuperò quindi dei più complessi problemi che riguardano la formazione dell’urbanista nelle scuole d’Ingegneria e di Architettura, e della sua collocazione nell’ordinamento professionale, problemi che riguardano più specificamente gli insegnamenti degli anni successivi delle relative lauree specialistiche.

2 Il significato di contenitore disciplinare attribuito all’urbanistica è ricorrente nelle voci enciclopediche specialistiche, tra cui quelle ben note di Luigi Piccinato e di Giovanni Astengo. Ambedue richiamano più o meno letteralmente la precedente definizione adottata da Pierre Lavedan “le mot français urbanisme est de beaucoup le plus comprensif; on peut le définir ‘l’étude général des conditions et des manifestations d’existence et de développement des villes’. Il se rapporte à un ensemble de disciplines variées, quoique solidaires entre elles: historique, géographique, sociologique, économique, juridique, artistique”.

3 Mi riferisco in particolare all’insegnamento delle discipline urbanistiche nei corsi di laurea in Ingegneria e in Architettura, mentre nei corsi di laurea in Urbanistica gli spazi d’insegnamento consentono una maggiore specializzazione degli insegnamenti.

4 La riorganizzazione ministeriale dell’ordinamento universitario operata dal Dpr 12.4.1994, che nella nostra area ha introdotto i due settori H14A (tecnica e pianificazione urbanistica) e H14B (urbanistica) e la specificazione delle relative discipline d’insegnamento (settori divenuti nel 2000 Icar 20 e Icar 21 senza modificazione delle discipline previste). Se pur motivata da una esigenza di ridefinizione e di sfoltimento dei filoni disciplinari che si erano venuti negli anni precedenti a moltiplicare e a incrociare nelle scuole di Architettura e d’Ingegneria, questa classificazione non ha contribuito certamente a fare chiarezza dal punto di vista dell’appartenenza all’ambito analitico-scientifico e a quello operativo, distinzione che a me appare essenziale dal punto di vista didattico. Nel mio piccolo, per non avere al momento maturato e saputo almeno esprimere posizioni diverse, confesso di ritenermi un po’ corresponsabile di questo pasticcio.

Basti ricordare che nell’Icar 20 sono riunite le discipline analitiche (la denominazione geografia urbana, di per sé caratterizzante, viene soppressa), le tecniche, le pianificazioni, in un coacervo che contrasta anche totalmente con la impropria ridefinizione dei contenuti scientifico-disciplinari (senza modificazione della collocazione delle singole discipline) operata successivamente dal Dpr 23.12.1999. Questo relega le tecniche per gli strumenti di pianificazione a tutte le scale in totale subordino ai metodi di analisi e valutazione, e non individua un ruolo ben definito per la pianificazione come tale.

Forse è questa ripartizione ad alimentare una certa forma di snobismo, se non proprio di presa di distanza, nei confronti della tecnica da parte dei cultori di urbanistica e di pianificazione operanti nelle Facoltà di Architettura. Si vedano, a titolo di esempio, diverse parti introduttive e in particolare il par 1.5 “Malafama della tecnica” del pur ottimo testo di Patrizia Gabellino (2001), Tecniche urbanistiche, Carocci, Milano, che sembra quasi non considerare che la Tecnica urbanistica (al singolare) ha una sua riconoscibilità, anche storica, sia nel processo di costruzione della città, sia nell’insegnamento universitario.

5 Il recente riconoscimento, nell’ambito nazionale ed europeo, del titolo professionale di architetto conferito dalla laurea in Ingegneria edile-architettura non è quindi che una riaffermazione dell’unità di un percorso formativo tradizionale nell’esperienza italiana, caratterizzata dal fatto che una gran parte dei cosiddetti architetti dell’800 e dei primi decenni del ’900, anche i più noti, sono laureati in ingegneria.

6 Come fondatori indiscussi di ambedue le scuole ricordiamo Gustavo Giovannoni a Roma, (ingegnere, che ha però insegnato anche Urbanistica nella neonata facoltà di Architettura, dove il titolare della prima cattedra di Urbanistica è stato Marcello Piacentini) e Cesare Chiodi nel Politecnico di Milano (titolare di Tecnica urbanistica fin dall’introduzione della materia nel 1929). Non disponendo delle informazione relative alla storia dell’ordinamento universitario non sono in grado di precisare collocazione e denominazione (Urbanistica o Tecnica urbanistica) degli altri docenti fondatori della disciplina, fino al primo dopoguerra: G. Astengo e G. Rigotti a Torino, L. Dodi a Milano, L. Piccinato a Napoli, e poi tutti i Maestri della generazione in cui ero studente.

7 Questa esigenza di ricomposizione del quadro disciplinare è ben evidente nella lettura dei testi a carattere universitario, mentre la contemporanea manualistica si sviluppava, anche con ricchezza di contenuti, sul versante della realizzazione dell’insediamento e dei suoi elementi.

Un’esauriente documentazione relativa ai testi e ai manuali che hanno supportato lo sviluppo delle discipline urbanistiche in Italia è fornita da Gemma Belli (2004), La costruzione del sapere tecnico-urbanistico nel ’900 in Italia, in urbIng - quadernetti per la didattica, due, Università di Salerno.

8 Mi riferisco in particolare a coloro che ho avuto come docenti a Roma o con cui ho avuto rapporti di collaborazione in altre sedi: Cesare Valle, mio professore di Tecnica urbanistica, Federico Gorio, allora assistente di Valle, che ha guidato la mia formazione, Corrado Beguinot, Fernando Clemente e altri, con cui ho lavorato e da cui ho appreso durante la mia esperienza universitaria.

9 A questo proposito ricordo l’Istituto di ricerca urbanologica e di tecnica della pianificazione fondato da Plinio Marconi presso la Facoltà di Architettura di Roma, e il tuttora vigente Dipartimento di pianificazione e di scienza del territorio istituito da Corrado Beguinot presso la Facoltà d’Ingegneria di Napoli (docenti ambedue ingegneri). In entrambi i casi la denominazione delle strutture universitarie ribadisce opportunamente la duplice fisionomia del percorso disciplinare fornito.

10 Come è noto la legislazione vigente prima del 1942 prevedeva un unico livello di piano, il piano regolatore (urbano), avente sostanzialmente un carattere esecutivo. L’ottima (per allora) legge urbanistica 1150/1942, tuttora felicemente vigente (di cui G. Giovannoni fu tra i promotori, anche per conto dell’Inu, entro cui era probabilmente il personaggio di maggiore spicco), aggiungeva a valle e a monte del piano regolatore (che diventava generale ed esteso alla scala territoriale comunale) il piano particolareggiato esecutivo e il piano territoriale di coordinamento, precisando con chiarezza finalità, contenuti e rapporti reciproci dei tre strumenti urbanistici preposti al controllo della dinamica urbana e territoriale.

11 I piani territoriali di coordinamento non si sono messi concretamente in moto fino a molto più tardi, ben dopo l’istituzione delle regioni avvenuta nei primi anni ’70. Di pianificazione ambientale, all’epoca, neanche a parlarne.

Unica eccezione, sul versante dell’ambiente culturale, è la timida e per molti anni inattuata introduzione dei piani paesistici, dovuta alla benemerita e, per l’epoca, molto avanzata legge 1497/1939, anche della quale G. Giovannoni fu tra i promotori.

12 Riferendomi alla mia personale esperienza, ricordo che i segni di una crisi disciplinare in atto mi sono apparsi evidenti forse un po’ tardi, nella seconda metà degli anni ’70, vivendo marginalmente la vicenda urbanistica di Roma, con il fallimento del velleitario Prg del ’65. Sul versante disciplinare, analoga sensazione mi era maturata dopo avere presentato agli studenti di più anni successivi, con sempre minore mia convinzione, il tanto decantato (nel nostro ambiente), ma complicato e soprattutto inattuato (e inattuabile) Prg di Bergamo di quegli anni. Confesso che in ambedue i casi il fatto che alcuni degli indiscussi e già citati Maestri delle nostre discipline fossero gli artefici di questi piani fu uno dei motivi della mia disillusione. Peraltro anche più di recente altri successivi Maestri della disciplina si sono cimentati in discutibili (dal punto di vista dei risultati) invenzioni pianificatorie.

13 Non è difficile trovare nomi. Ricordo in particolare che, verso la fine degli anni ’70, durante una presentazione del Prg di Roma presso il relativo ufficio del piano, che avevo organizzato per un gruppo di colleghi stranieri (del dipartimento di planning dell’Università di Nottingham), questi furono sfavorevolmente impressionati dal fatto che l’impostazione strategica del piano, fin da allora in crisi, derivasse in buona sostanza dalla visione di un grande Architetto.

14 È opportuno precisare che l’attributo della complessità viene applicato a due diversi aspetti della pianificazione. Il primo, di carattere concettuale e forse un po’ abusato, è quello già richiamato, che sottolinea il numero e l’intrico delle variabili coinvolte nella realtà insediativa e nei processi di pianificazione. L’altro, di carattere gestionale e in verità più pragmatico, deriva dall’esigenza di controllare le interazioni tra i diversi oggetti e soggetti coinvolti nella predisposizione e attuazione degli strumenti d’intervento (i programmi complessi).

15 Dopo lunghi anni d’incertezza, in cui provvedimenti nazionali toppa e l’attività molto disuniforme delle regioni hanno cercato di ovviare all’invecchiamento della legislazione vigente, la nuova legge urbanistica nazionale sembra in dirittura di arrivo, tra molti contrasti. Peraltro il previsto sdoppiamento dei contenuti del Prg (ferma restando tutta la gamma dei livelli di piano sovra e sottordinati) che caratterizza la proposta, e che in alcune regioni è già stato attivato in forme anche innovative), non contribuirà certamente, a mio avviso, all’auspicato snellimento delle procedure.

16 Questa, che ho chiamato evasione, da parte di alcuni Autori, soprattutto giovani, viene reclamata come un’imprescindibile esigenza, che dovrebbe permeare il quadro disciplinare e operativo, superando l’obsoleto, a loro avviso, strumentario tecnico (una buona selezione, tra le tante, di queste posizioni, espresse efficacemente e per alcuni versi condivisibili, è contenuta in: S. Losco (2004) (a cura di), Nuove forme del piano e partecipazione, Quaderno n. 2 del DUN, Poseidon Editore, Napoli). Emerge in modo quasi totalizzante l’istanza della considerazione della componente sociologica e della presenza del social planner nel processo di formazione del piano urbanistico. Ma è una novità? Questi processi e questi specialisti sono da tempo sedimentati nell’esperienza internazionale più evoluta, ed io ritengo che questa esigenza non vada perseguita in particolare nella formazione urbanistica universitaria a spese del patrimonio tecnico-scientifico, anche a causa della commistione dei settori disciplinari (si veda la nota 4).

17 Nella sequenza dei piani urbanistici, anche in alcuni relativamente recenti, non mancano previsioni spaziali o normative che sembrano, e anche riescono, a forzare la trasformazione di una realtà sedimentata che probabilmente sarebbe meglio lasciare ad una modesta dinamica controllata, se non proprio disincentivata. Nell’illustrare ai miei allievi le zone di trasformazione, di ristrutturazione, di riqualificazione e simili previste da molti piani, io raccomandavo di cercare di non comportarsi, nella loro futura (eventuale) esperienza urbanistica, come il boy scout che obbliga la vecchietta ad attraversare la strada con il suo aiuto, per fare la sua doverosa buona azione quotidiana.

18 L’influenza del trasporto collettivo sulla formazione di questo tipo di città è, almeno in Italia, irrilevante rispetto a quella dell’automobile; per convincersi basta fare alcune verifiche su sezioni storiche di determinate realtà. Le parti di città, soprattutto estere, pianificate e sviluppate sulla base di un forte impianto del trasporto su ferro appartengono piuttosto a quella che abbiamo individuato come la città 2, anche se poi intorno ad esse si è diffusa la città 3.

19 Non solo gli spazi tardo ottocenteschi e primo novecenteschi più aulici e in gran parte firmati delle capitali e delle altre principali città europee, ma anche quelli spesso poco conosciuti di infinite città minori sono una miniera di esempi di buon disegno moderno raccordato con l’antico.

20 Per quanto riguarda la pianificazione istituzionale, oggetto di incarichi o di concorsi da parte delle amministrazioni locali e regionali, ritengo che il bagaglio conoscitivo fornito da un corso di base debba essere sufficiente per la redazione di piani nei contesti urbani medi e piccoli (dei circa 8.000 comuni italiani, circa 6.000 non superano la dimensione di poche migliaia di abitanti). Per questi ultimi le problematiche di carattere territoriale e ambientale di area vasta, anziché essere rimesse in gioco ex novo in ogni micro-elaborazione urbanistica e ad ogni minima occasione, dovrebbero essere sempre fornite da piani strutturali territoriali (tali dovrebbero essere i Ptc provinciali o subprovinciali, come avviene, sia pure con diverse modalità, nei vari sistemi europei), i quali sono elaborati con idonee modalità e strutture operative.

21 Nell’elaborazione dei piani regolatori generali più importanti e dei piani territoriali e ambientali di area vasta occorre infatti districarsi tra le problematiche delle diverse forme dei piani (strutturali, direttori, ecc.), della pianificazione strategica, delle pianificazioni separate, delle diverse fasi partecipative, partenariali, valutative, decisionali che coinvolgono i differenti soggetti e oggetti all’interno del processo di pianificazione, e via dicendo.

Una più articolata formazione sarà acquisita, dagli allievi orientati verso la professione dell’urbanista-pianificatore, attraverso una o più delle diverse possibili modalità di indirizzo e di orientamento pre-laurea e di specializzazione post-laurea.

22 In particolare ritengo che non sia alla scala dei contenuti di un corso di base presumere di fornire la qualificazione occorrente per partecipare, da protagonisti, ai riti urbanistici delle grandi amministrazioni e della grande professione.

Nella pratica reale della pianificazione le competenze più qualificate sono sempre fornite dalla presenza degli specialisti di più o meno chiara fama cui viene affidata, direttamente o come consulenti delle amministrazioni, o come coordinatori di gruppi di pianificazione, la redazione dei piani regolatori di maggior rilevanza e dei piani territoriali e ambientali.

23 Con riferimento alle città importanti di cui conosco abbastanza i piani, non sono in grado di segnalare che pochi casi di grandi interventi di portata strategica nel campo delle grandi attrezzature e infrastrutture, realizzati sulla base delle previsioni originarie di un Prg, e non solo inseriti nelle sue maglie e/o recepiti da questo.

24 I riferimenti vanno dall’utopia della città lineare di Arturo Soria y Mata, parzialmente realizzata, come è noto, nell’espansione di fine ’800 a Madrid, e ispiratrice di tanti altri progetti, realizzati e non, di Maestri dell’Urbanistica del primo ’900 (Berlage per Amsterdam, Le Corbusier per la città lineare industriale ed altro, Miljutin per la città sovietica Stalingrado), fino alle realizzazioni mature della metà del ’900, in cui la debolezza del modello lineare semplice si rafforza in una rete integrata di sistemi insediativi serviti dal ferro. Esemplari – sempre illustrati nella mia pratica didattica – sono il sistema costituito da ferrovia metro e quartieri satelliti a Stoccolma (anni ’50) alla scala microterritoriale, e quello della grande Parigi (metro express régional e centri delle villes nouvelles, anni ’60) alla scala macroterritoriale.

Forse anche questi ultimi esempi possono essere considerati oggi vecchi dal punto di vista urbanistico, alla luce dei successivi sviluppi della città territorio anche in quelle realtà. Ma la differenza dai casi italiani anche recenti è che, al momento della realizzazione di quei nuovi insediamenti, la sinergia tra localizzazione insediativa e sistema del trasporto pubblico era assicurata concretamente fin dalla formazione del piano, e non ricercata a posteriori, parzialmente, con difficoltà e a costi paralizzanti.

25 Una considerazione elementare è che quando anche uno solo dei due terminali di un singolo spostamento pendolare non è raggiungibile mediante un mezzo di trasporto pubblico efficiente, il percorso di collegamento, o una sua parte più o meno rilevante, è necessariamente affidato al movimento di un’automobile. Alla luce di questa evidenza, si pensi non solo ai problemi attuali, ma a quelli futuri della maggior parte delle città italiane grandi e piccole dove il territorio, tuttora interessato da nuovi insediamenti, continuerà a riversare il suo indotto di congestione sulla città compatta.

26 Ricordo, segnalandoli familiarmente, come si usa, con il cognome dell’autore, i ben noti libri-manuali d’epoca e anche più recenti (il Chiodi, il Dodi, il Valle del vecchio manuale dell’Architetto e altri, spesso di derivazione razionalista germanica; il più recente di Piroddi per Zanichelli).

27 Si vedano, a proposito del rapporto tra il tram e la città, le sistemazioni del ring di Vienna dei primi anni del ’900 disegnate da Otto Wagner e da Camillo Sitte (queste ultime non realizzate e anche poco conosciute perché, benché in sintonia con il suo pensiero, sono pressoché trascurate nelle edizioni italiane della sua ben nota opera l’arte di costruire le città); lo studio di dettaglio delle vie e degli incroci stradali di Cerdas a Barcellona, che funzionano bene anche con il traffico di oggi, anche se non ci sono più i tram.

28 A Torino i sistemi di portici e passaggi pedonali realizzati dal ’600 al primo ’900 assicurano ancora oggi percorrenze in buona parte protette e gradevoli, quasi continue per chilometri, pur con numerose manomissioni a vantaggio del traffico veicolare.

29 A mio avviso, quanto più la pianificazione è debole e carente, a causa delle difficoltà dei relativi processi, tanto più la gestione dell’esistente e del quotidiano nella città deve essere basata su più forti competenze e responsabilità anche tecniche.

Un approfondimento di questa posizione suggerirebbe numerose linee di azione in campo amministrativo e professionale, ma naturalmente non è questa la sede per farlo.

30 Relativamente al tema del recupero dei centri storici (minori) entrano in gioco in maggior misura il ruolo della storia e della interpretazione delle funzioni e degli spazi originari, e quindi è importante l’apporto degli altri specifici corsi d’insegnamento.

Questo argomento è trattato in: G. L. Rolli (2004), Centri storici minori: conoscenza, rappresentazione, recupero urbanistico, Alinea, Firenze.

 

 

Presentazione | Referenze Autori | Scrivi alla redazione | AV News | HOME

 

 Il sito web di Area Vasta è curato da Michele Sol