Numero 12/13 - 2006

 

La pianificazione regionale  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pianificazione di area vasta e conflitti locali


Francesco Indovina


 

Interessi generali, conflitti locali, meccanismi partecipativi sono questioni ormai pregnanti nel governo del territorio e nella costruzione degli assetti e dell’organizzazione dello spazio pubblico e privato. Francesco Indovina, ripensando alle travagliate vicende degli ultimi anni, prospetta alcune vie di uscita da una condizione di tendenziale stallo, basate sul ricorso, molto più deciso rispetto al recente passato, alla pianificazione di area vasta, alla sua componente strutturale e alla comprensione più matura della dimensione ambientale della sostenibilità nelle trasformazioni territoriali

 

 

Con queste note si vorrebbe sostenere l’ipotesi che la pianificazione di area vasta può costituire un approccio utile anche per affrontare in modo razionale molti dei conflitti locali che sempre più spesso si manifestano ogni qual volta è in atto un intervento di trasformazione del territorio attivate dall’operatore pubblico e avente, in qualche modo, un contenuto di interesse collettivo.

A questo proposito si osservi come in un recente dossier predisposto dalla Lega Ambiente, nel quale si presentavano i dati dei conflitti locali in atto, (anche se i dati risultassero non completi, essi potrebbero essere assunti come rappresentativi), risultavano 119 casi così suddivisi: 10 riguardano discariche, 6 elettrodotti, 11 impianti di trattamento di rifiuti, 17 infrastrutture viarie e ferroviarie, 26 produzione di energia e, infine, 40 termovalorizzatori1.

I conflitti locali, in generale, assumono come oggetto di contestazioni soprattutto una grande opera. La crescita nella collettività della diffidenza verso le grandi opere è giustificata dall’esperienza: molto spesso, infatti, un’opera che appariva di utilità collettiva nascondeva interessi molto privati. Gli indizi che tendono a dimostrare come alcune grandi opere non rispondevano a necessità collettive ma venivano realizzate per interessi individuali (politici, di prestigio locale, per ricambiare un sostegno elettorale, per premiare imprese o gruppi sociali, per consolidare il potere di elite locali, fino alle … tangenti), sono numerosi (e spesso verificati anche a livello giudiziario).

L’analisi delle vere necessità e l’individuazione delle priorità, le indagini sul costo di opportunità, sui costi e i benefici, la valutazione degli impatti (ambientali, sociali, economici, ecc.) e tutti i meccanismi che concorrono a raggiungere una decisione motivata, molto spesso sono stati sacrificati o mistificati; l’appello all’urgenza o all’emergenza giustificano procedure improprie. Insomma esistono motivate ragioni perché si manifesti diffidenza collettiva nei riguardi di tutte le grandi opere.

Tuttavia tale diffidenza ha determinato il tramonto della cultura delle trasformazioni e dell’innovazione, in più, ancora peggio, ha permesso la realizzazione di opere prive del controllo della collettività e delle amministrazioni e comunità locali. I movimenti di contestazione, infatti, si sono attardate sul semplice “no!” spesso pregiudiziale e di fatto non sono riuscite, se non raramente, a bloccare la realizzazione delle opere pubbliche contestate con il non apprezzabile risultato che tali realizzazioni sono risultate socialmente disconosciute e, di fatto, prive del necessario controllo collettivo.

È forse tempo che la collettività attenta e le comunità locali avviino una riflessione e cerchino di considerare diversamente i grandi investimenti; è necessario che l’intelligenza sociale sia in grado di operare una distinzione tenendo conto delle effettive necessità di ammodernamento delle infrastrutture, degli investimenti in grado di aumentare l’efficienza economica del paese, della necessità di salvaguardare l’ambientale e il patrimonio storico, ecc. Un’opposizione generalizzata alle grandi opere, come molto spesso appare la risolutezza sociale, da una parte, non sembra fruttuosa e, in alcuni casi, appare ingiustificata.

Detto in modo apodittico non si può essere indifferenti rispetto alle necessità di ammodernamento del paese, né si può assumere il principio che grande sia sempre negativo e piccolo sia sempre da preferire o, ancora, che la manutenzione (la cui necessità non può essere negata) è sempre da far prevalere sul nuovo. In se stesse si tratta di contrapposizioni di comodo.

Pare utile passare a discernere i grandi investimenti pubblici distinguendo tra grande opera e opera grande. Si può definire la prima come un’opera di regime, il cui oggetto nasconde finalità diverse da quelle dichiarate, che appare inutile e, magari, dannosa. Se, per esempio, si giustificasse la costruzione di un grande ponte con la motivazione che esso diventerebbe un’attrattiva turistica e che porterebbe, per questa strada, nella zona coinvolta indefiniti e indeterminati benefici, sarebbe evidente che si sia di fronte ad una grande opera (da criticare e ostacolare).

L’opera grande, al contrario, corrisponde ad una vera necessità, e deve essere giustificata con ragioni esplicite e legate direttamente alla stessa opera. Un’opera, quindi, da sostenere, ma anche da controllare nella sua realizzazione.

La collettività e in particolare le comunità locali, mentre devono godere di tutti gli appoggi possibili quando contrastano una grande opera devono essere aiutate, con argomenti razionali, ad appropriarsi delle opere grandi che investissero il loro territorio. Solo in questo modo, infatti, sarebbe possibile esercitare il controllo necessario sulla realizzazione, verificarne continuamente le finalità e gli effetti, contribuire a definirne la funzionalità e la coerenza e se necessario suggerire possibili miglioramenti e individuare eventuali compensazione a fronte di eventuali danni. Si tratta di un’operazione non facile ma alla quale, come si vedrà più avanti, può dare un qualche contributo la pianificazione di area vasta, proprio per i suoi contenuti.

Allo scopo di dare ordine alla questione, nei paragrafi che seguono si svilupperanno prima alcune considerazioni sui conflitti locali, per poi affrontare il tema della relazione tra conflitti locali e pianificazione di area vasta.

 

 

Conflitto e partecipazione

 

Il conflitto costituisce la forma più rilevante e significativa di partecipazione; i singoli soggetti che partecipano, infatti, sono disponibili a pagare un prezzo per portare avanti le loro rivendicazioni, insomma, un impegno tanto sentito da essere disponibile ad un impegno costoso (in termini di tempo, di ricerca, di rischio). Dicendo questo non si vuole disconoscere che esistono altre forme di partecipazioni, alcune anche di qualche utilità operativa per il decisore pubblico, quanto piuttosto richiamare l’attenzione sulla forma di partecipazione che più di ogni altra interessa questa nota, in particolare quello che più preme mettere in luce sono i meccanismi attraverso i quali si determina e consolida l’obiettivo oggetto del conflitto.

Il conflitto locale presuppone la partecipazione di una quota consistente della popolazione dell’area la quale matura una consapevolezza e una volontà comune attraverso un processo razionale. Dire questo non significa che si escluda la passione, ma soltanto che la necessaria passione non può che fondarsi sulla razionalità, cioè su un percorso di conoscenza e di confronto.

Questi presupposti non paiono vengano sempre rispettati, il richiamo ai saperi locali o tradizionali o l’esistenza di un pre-giudizio fanno agio sui contributi della scienza, che vengono negati come irrilevanti e disattesi o messi in contrapposizione con altri esiti scientifici. È evidente che ci possono essere delle opinioni o dei punti di vista diversi anche nella scienza (o per meglio dire tra gli scienziati), ma esistono metodi di confronto (scientifici) in grado di dirimere o, per lo meno, di mettere in chiaro la natura e l’origine delle divergenze. In realtà dentro un conflitto sociale si assume che la scienza stia sempre dalla parte avversa. Pur negando ogni pretesa di neutralità alla scienza, vanno esaltati i metodi di confronto scientifico e gli eventuali approcci che aiutano a svelare o a strappare i veli degli interessi nascosti. Il riferimento al sapere tradizionale e locale non può essere dirimente, perché proprio per sua natura si tratta di un sapere conservativo, frutto di un lento accumularsi di esperienze, che non prende atto (non può prendere atto) degli avanzamenti della conoscenza e anche della maggiore velocità con la quale oggi si accumulano nuovi saperi, nuove scoperte, nuove cognizioni. Che poi una parte del mondo scientifico abbia scelto di servire un qualche padrone, piuttosto che la collettività, spiega un atteggiamento di cautela e anche di diffidenza, ma non giustifica il pre-giudizio.

È proprio questo atteggiamento pregiudizievole che sta alla base, su questioni controverse, di una posizione che non vuole sentire le ragioni dell’altro (questo anche quando l’altro non è politicamente distante). È chiaro, tuttavia, che il conflitto locale è l’espressione di un disagio (in alcuni casi di una paura) e di una diffidenza verso le scelte politiche. Proprio a partire da qui si cercherà di affrontare alcune questioni che sembrano di rilievo qualora si volesse ragionare con l’obiettivo di farli fruttare nell’interesse della collettività.

 

Figura 1

 

 

Mano invisibile e mano visibile

 

Come già rilevato, tranne poche eccezioni, i conflitti locali riguardano specificatamente opere di interesse comune. Questa osservazione non parte da un diverso pregiudizio secondo il quale tutte le opere presentate come opere di interesse comune hanno ragion d’essere, che tutte meritano di essere realizzate, che tutte sono corrette nelle procedure di progettazione e valutazione, ecc.; ma, piuttosto, si intende mettere in evidenza e cercare di capire perché non risultino contestate, se non raramente, opere di interesse privato, che costituiscono trasformazioni del territorio non sempre marginali. Mentre l’attenzione politica e la mobilizzazione si indirizzava verso opere di interesse comune, la devastazione del territorio avveniva in silenzio: speculatori e profittatori hanno saccheggiato il territorio, gli operatori immobiliari costituiscono, insieme ai televisivi, le categorie che hanno concentrato, negli ultimi anni, il massimo dei guadagni e della ricchezza. Sulle attività di questi ultimi l’attenzione è risultata ridotta, al massimo qualche raccolta di firme sotto appelli o petizioni, raramente si è avuta una mobilitazione sociale.

Un motivo di questa situazione è forse rintracciabile in una posizione ideologica-culturale: è come se si fosse interiorizzata la posizione (ideologica) che assegna al mercato il massimo di efficienza e di razionalità. È la mano invisibile che fa aggio sulla mano visibile, il mercato appare migliore della decisione politica. Se si trattasse, forse, della formazione di un’opinione (o credenza), in larga misura inconsapevole, renderebbe merito ai propagandisti di questa posizione, ma farebbe dubitare dell’esistenza di un’intelligenza sociale critica diffusa.

Alla base di ogni trasformazione del territorio si trovano sempre espressioni di una volontà politico-amministrativa (piani, programmi, accordi di programma, concessioni, autorizzazioni, ecc.); alcune di queste permettono la realizzazione di obiettivi e di interessi privati e parziali, mentre altre danno luogo alla realizzazione di opere di interesse comune, ma sono queste ultime che trovano, in generale, agguerrite opposizioni collettive.

È probabile che quello che tende a prevalere e, quindi, a giustificare un atteggiamento ostile sia la sfiducia nell’azione pubblica: si ritiene che non ci si possa fidare delle decisioni pubbliche che direttamente realizzano una qualche trasformazione del territorio. Questa diffidenza è insieme il frutto di esperienza e il risultato di una propaganda politica che, comunque, accusa di inefficienza l’azione pubblica, un’azione da cui i cittadini devono difendersi. Non si deve nascondere, tuttavia, che i caratteri di molte trasformazioni del territorio per la realizzazione di opere di interesse comuni non sono condivisibili. Di esse, infatti, l’obiettivo dichiarato non sempre corrisponde a quello reale, maggiore è l’attenzione alla possibilità di spesa che non all’opera da realizzare; relativamente alle procedure, al progetto, al costo (la revisione prezzi non solo rappresentava una modalità iniqua rispetto all’assegnazione, ma finiva per non permettere, qualora lo si avesse voluto, nessun controllo sulla spesa), agli elementi di rischio (comunque sempre negati) tende a prevalere l’opacità; non pochi i casi di interesse privato, comprese le continue manifestazioni di corruzione; nella progettazione e nella previsione degli esiti (anche se questi ultimi recentemente sono più evidenti per effetto dell’obbligo di effettuare diversi tipi di valutazione) si può cogliere una forte inettitudine, mentre sono rari i casi in cui ci sia un consapevole coinvolgimento delle forze sociali e degli abitanti delle zone sulle quali si operano le trasformazioni, prevalendo, infatti, un rilevante autoreferenzialità.

Queste caratteristiche, che ovviamente non si riscontrato in tutte le operazioni di trasformazione del territorio promosse dal decisore politico-amministrativo, paiono sufficienti per alimentare la diffidenza e per attivare processi volontari di partecipazione e la promozione di conflitti locali.

Infine, si deve rilevare come alla base di ogni conflitto locale non di poco rilievo è una motivazione di potere e visibilità (dicendo questo non si vuole escludere le motivazioni reali). Un movimento conflittuale ha verso la politica (i decisori pubblici) un potere maggiore che non verso i privati: i primi, infatti, dipendono direttamente dal voto dei cittadini e, quindi, non possono essere insensibili al manifestarsi di conflitti collettivi e la loro attenzione sarà direttamente proporzionale all’ampiezza e all’estensione del conflitto.

Verso gli operatori privati il conflitto locale (altra questione è il conflitto sindacale) esercita una influenza indiretta, crea degli ostacoli, sollecita l’intervento politico, ecc., ma le buone ragioni dei privati godono di una serie ampia di garanzie e gli obiettivi del conflitto, in questo caso, vengono passati attraverso diversi crivelli (istituzionali, giudiziari, legali e politici) che ne stemperano la dirompenza (potrebbe essere questa la spiegazione, ma non la giustificazione, della poca attenzione dei movimenti locali per le azioni private).

Le forze politiche hanno il problema della visibilità, una questione che cresce di importanza con la spettacolarizzazione della politica; è allora evidente che un’opera di grande dimensione e di grande rilievo possa essere colta, anche inconsapevolmente, come una buona occasione per moltiplicare la visibilità (senza con questo voler sminuire le ragioni del conflitto).

 

 

Conflitti tra interessi generali

 

Ogni trasformazione di grande scala del territorio, quelle promosse dall’operatore pubblico, finisce per ledere un qualche interesse privato: una strada può attraversare un fondo rustico; un inceneritore può essere incompatibile con un’attività agricola o di servizio; una ferrovia può produrre un disturbo acustico; ecc. Tuttavia gli interessi privati e il loro rapporto con gli interessi collettivi sono regolati da norme e procedure: l’esproprio, il risarcimento, ecc. Non si tratta in genere di conflitti non componibili, la regolamentazione ne determina anche le possibilità di composizione. Va detto, tuttavia, che il senso comune, secondo il quale un interesse collettivo deve fare aggio su un interesse privato, si è perso e non è un caso che ogni opera pubblica è oggi sottoposta a ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato che quasi mai hanno un buon fine per i privati ma che comunque alimentano ritardi, sospensioni, ecc.

Se questi conflitti in qualche modo sono componibili, vale la pena di considerare una famiglia di conflitti che presentano un tasso di componibilità molto basso e che sono quelli che possono essere influenzati dalla pianificazione di area vasta.

La consistenza dei luoghi (ambiente, paesaggio, l’espressione storica, non necessariamente della città ma anche del territorio, ecc.) rappresenta un patrimonio distintivo e proprio della comunità che quel luogo abita. Un patrimonio che rappresenta il risultato di un accumulo di lente modificazioni anche secolari (ma non necessariamente di poco rilievo, in questo caso il tempo trascorso mitiga la rilevanza della modificazione avvenuta), che è tutt’uno con la stessa comunità locale e contribuisce a determinarne l’identità. Molti di questi elementi meriterebbero approfondimenti specifici, ma per quanto qui interessa, questa situazione si può assumere come un dato di fatto.

La conseguenza di questa impostazione è che la comunità locale si sente depositaria, per così dire, di una sorta di diritto di veto su ogni tentativo di modificazione di tale consistenza del luogo, o almeno su quelle modificazioni che la comunità locale non ritenesse coerente con la propria visione. È questa la premessa che fonda ogni azione locale e l’organizzare e il manifestarsi di conflitti locali. Si pone, certamente, il problema di chi rappresenta la comunità, l’intero gruppo dei cittadini: la sua rappresentanza legittimamente eletta, una sua maggioranza o, anche, quanti si assumono l’onere di esprimersi e di attivare un conflitto? Non si tratta certo di questioni di poco conto, ma essi investono compiutamente il manifestarsi della politica; in presenza di un gruppo di cittadini che esprime una contrarietà rispetto ad una trasformazione della consistenza del proprio patrimonio; non si può certo far riferimento ad una ipotetica maggioranza silenziosa, che in quanto tale non è possibile pesare, ma contemporaneamente non si può assumere la posizione di un gruppo (la dimensione del gruppo non è indifferente) come rappresentativo di tutta la comunità. Insomma, si manifesta un problema di interpretazione e di gestione politica non affrontabile in questa sede.

Quello che tuttavia pare importante è il riconoscimento di un diritto all’appropriazione patrimoniale (da parte della comunità) della propria consistenza territoriale. Sarebbe interessante, ma è fuori dagli obiettivi del presente articolo, rintracciare le matrici di questo convincimento abbastanza diffuso: sicuramente se ne può rintracciare uno ambientalista, ma anche uno localista, comunitario e neo-municipalista, fino ad una radice giusnaturalista; probabilmente molti filoni di elaborazione hanno contribuito a questa legittimazione, che riguarda, trasformazioni della consistenza territoriale. Infatti, con riferimento ai conflitti locali attivati in questo o in altri paesi europei, non si tratta di un attentato all’identità culturale, sociale, religiosa, etnica, ecc. locale da parte di una cultura estranea, ma soltanto di una decisione che investe la trasformazione dello spazio, uno spazio assunto come patrimonio esclusivo della comunità locale2.

Prescindendo da ogni altra considerazione si assume:

- che la comunità locale difenda legittimamente un interesse generale locale, una difesa motivata e fondata da un intervento che deriva da una decisione politica esterna alla comunità locale stessa o, anche, da una decisione che è stata condivisa dagli organi di governo locale, ma non dalla popolazione (o dalla sua parte attiva);

- che esista effettivamente il pericolo che la trasformazione indesiderata incida, a ragion veduta, sulla consistenza del luogo.

L’interesse generale locale potrebbe essere economico (la messa in crisi di attività locali), ambientale, estetico, paesaggistico, ecc. È possibile individuare, questa è l’ipotesi, la difesa di un interesse generale locale, incarnato nella consistenza dei luoghi, che potrebbe essere manomesso dalla realizzazione di un’opera pubblica3. Si assume, cioè, il caso nel quale la comunità locale ha molte ragioni (l’opera incide negativamente, l’opera è stata decisa all’esterno della comunità, la comunità non è stata coinvolta, ecc.), il problema (politico e metodologico) è se la comunità locale abbia anche ragione.

Si assume, contemporaneamente, che la decisione, relativamente alla realizzazione dell’opera, presa all’esterno della comunità locale o con una compartecipazione delle istituzioni locali, ma senza il coinvolgimento della popolazione, sia motivata e che affermi e realizzi un interesse generale di livello superiore (per esempio nazionale). La trasformazione promossa per realizzare un interesse generale superiore (nazionale) che si assume essere giustificata, potrà riguardare la crescita economica, la maggiore efficienza di specifiche funzioni, la difesa ambientale, la soluzione di problemi di organizzazione e di gestione di servizi, ecc.

Se così fosse si fronteggerebbero un interesse generale locale e un interesse generale superiore (nazionale), ambedue legittimi e fondati. Una situazione, questa, per la quale non è facile trovare una soluzione; si può sostenere la legittimità di una imposizione di autorità che privilegi l’interesse superiore a scapito di quello locale; questa soluzione, tuttavia, non sana il conflitto, anzi può accentuarlo e radicalizzarlo. Il suggerimento di far appello al metodo comunicativo per raggiungere una decisione condivisa che dia garanzia di successo è di grande buon senso ma di scarsa realizzazione (Indovina, 2005), anche se il massimo impegno deve essere speso al fine di rendere almeno trasparenti e intelligibili le questioni.

Quello che, tuttavia, risulta evidente, al di là di ogni considerazione e valutazione sui conflitti e sui metodi per giungere ad una condivisione della decisione, sono i seguenti elementi:

- la questione non può essere affrontata, con le comunità locali, a valle della decisione e una volta che si è messo in atto un’azione conflittuale. L’ascolto, il coinvolgimento, la partecipazione dovrebbero costituire modalità correnti per giungere ad una decisione (la cui responsabilità comune è tutta dell’operatore pubblico);

- le forme di coinvolgimento delle comunità locali, devono far riferimento non all’opera o, ancora peggio, al frammento di opera che interessa quel territorio, ma piuttosto al significato complessivo che quella opera assume a livello generale. Far riferimento ad un piano di settore, per esempio, può essere molto utile, anche se, molte volte, non risulta adeguato a sciogliere i problemi locali messi in evidenza;

- un più fondato punto di vista può essere promosso andando anche oltre il piano di settore, per inserire la questione in una prospettiva generale di organizzazione del territorio, dalla quale possano emergere compatibilità, vantaggi e costi ed eventuali compensazioni. Appunto un piano di area vasta.

 

Figura 2

 

 

Il piano di area vasta

 

La sede del presente articolo, la rivista areAVasta, rende pleonastica ogni definizione di piano di area vasta; in questo ambito, come è noto e come la rivista testimonia, si sono fatte diverse esperienze, tuttavia non si è ancora su un terreno codificato (Fregolent, 2005). Inoltre, le diverse legislazioni urbanistiche regionali hanno introdotto criteri non sempre tra di loro omogenei. Va anche ricordato, come prima precisato, che si guarda al piano di area vasta secondo un’ottica particolare. Queste sono tutte buone ragioni per giustificare qualche breve precisazione sul tema (Indovina 2001).

La recente legislazione urbanistica regionale, anche se con nomi diversi e con modalità diverse (Indovina, 2005), tende a distinguere il piano strutturale, con durata molto lunga, che serve a definire i livelli di trasformabilità di un territorio, e il piano operativo, di durata molto più breve, tendenzialmente pari al mandato amministrativo, che permette di realizzare, all’interno dei limiti fissati nel precedente piano, le trasformazioni ammesse.

Pare possibile, a partire dalle novità introdotte nelle legislazioni urbanistiche regionali, assumere che sia possibile identificare il piano strutturale con i contenuti della pianificazione di area vasta. Va da sé che mentre ogni schematizzazione costituisce una semplificazione dei problemi, è altrettanto evidente come consenta una modalità di presentazione in chiaro delle questioni.

Si può riconoscere che la realtà territoriale, pur presentando un fortissimo intreccio tra dato ambientale e dato antropico, proietta nel piano, a seconda del livello di pianificazione, in misura più o meno pressante, l’uno o l’altro di tali elementi.

È possibile identificare l’ambiente (non la natura) con l’esigenza di conservare, salvaguardare e, del caso, valorizzare (non necessariamente dal punto di vista economico) tutte le risorse non riproducibili, compresi i beni storici e culturali. Per elemento antropico si deve intendere l’espressione dell’esigenza di spazio della popolazione insediata ai fini dello sviluppo economico e per l’esercizio della vita quotidiana. Che si tratta di elementi in oggettivo contrasto è evidente, che tale contrasto debba trovare una equilibrata soluzione pare un imperativo. Lo strumento di questa composizione non potrà che essere la scelta politica, organizzata in un processo di pianificazione e di adeguate forme di ascolto e partecipazione (compresi i conflitti).

La precedente semplificazione porta a individuare l’elemento ambientale come quello prevalente nella pianificazione di area vasta, una prevalenza che, tuttavia, deve tenere conto delle domande che derivano dall’elemento antropico. Quest’ultimo, come è ovvio, prevale nel piano operativo che a sua volta tiene conto dell’elemento ambientale. L’espressione “tenuto conto” è perfettamente comprensibile nella sua forma letteraria, ma di assai complessa identificazione e applicazione in pratica; a questo livello non si può che fare riferimento ad una posizione mediata e, si potrebbe dire, meditata che mentre nega ogni elemento di assolutismo di ciascuno dei due elementi richiama fortemente un criterio di equità.

Quindi, si può assumere che il piano di area vasta è chiamato a individuare, a maglie larghe (ma non labili), le destinazioni d’uso del territorio, il livello di trasformabilità di ogni parte del territorio stesso, la pressione edificatoria ammessa in ogni zona e le relative destinazioni, il reticolo delle infrastrutture. Con esso si traccia il confine delle aree urbane che costituiscono anche le zone di massima trasformabilità. Il piano, inoltre, localizza nel territorio gli impianti al servizio della collettività (tipo, per esempio, gli impianti relativi al trattamento dei rifiuti o rilevanti strutture sportive, ecc.). Inoltre, individua il patrimonio storico e culturale da salvaguardare, conservare e restaurare. Relativamente alle infrastrutture, come si è detto, vale la pena ribadire che è proprio di questo livello di pianificazione, insieme alla mobilità, individuando la maglia che meglio soddisfa le esigenze della popolazione e insieme si faccia carico del rispetto dell’elemento ambientale che risulta prevalente. Tale piano, le cui scelte dovrebbero essere durature nel tempo, costituisce vincolo per ogni trasformazione del territorio (senza possibilità alcuna di deroga).

Per giungere alla formulazione di questi obiettivi, dovrebbero essere attivate, ovviamente, tutte le forme canoniche (e non) di partecipazione, confronto, concertazione e collaborazione: confronto, in modo da giungere a scelte meditate e mediate, avendo presente e facendo valere, tuttavia, il principio che a questo livello prevale, cioè, l’elemento ambiente. Gli interessi del presente non possono fagocitare quelli di lungo periodo, né, da questi ultimi, cancellati. L’attenta analisi scientifica e delle tendenze e dei bisogni, il confronto tra diverse alternative e la partecipazione dei cittadini possono costituire gli ingredienti di un aiuto alla decisione per l’operatore pubblico, che deve, tuttavia, assumersi l’onere della scelta.

La rinnovata filosofia autonomista e il movimento dei nuovi municipi, che esaltano le autonomie locali, pongono non pochi problemi; sembra, infatti, prevalere una declinazione dell’autonomia che prescinde da ogni esigenza di area vasta, insomma l’interesse generale locale pare assumere sempre più una valenza assoluta. Tale posizione ci pare errata in teoria e nella pratica, non potendo prescindere, infatti, dall’equilibrio tra le diverse zone; equilibrio, tuttavia, che non può solo essere né proclamato, né affermato in astratto, ma esplicitato e reso operativo in modo adeguato. Ciò premesso, tre sono gli aspetti principali ai quali il piano di area vasta deve porre attenzione:

1. equilibrio tra le diverse zone: le differenze, che storicamente si sono materializzate all’interno del territorio, le gerarchie territoriali, i processi di concentrazione produttiva e dei servizi, devono essere assunti come base, non per attivare una impossibile e velleitaria politica di riequilibrio assoluto tra le diverse parti del territorio, né tanto meno per giustificare una politica immobilistica, ma piuttosto per verificare quanto gerarchie e concentrazioni danno o meno un contributo positivo alla dinamica dell’intero territorio, quali correttivi suggerire, quali modificazioni introdurre, sempre nell’ottica dell’equilibrio (dinamico). Non si tratta di limitare lo sviluppo produttivo dell’intero territorio e delle sue singole zone, ma piuttosto di renderlo meno invasivo e distruttivo e, soprattutto, più equilibrato anche sul piano sociale;

2. servizi collettivi: il precedente riferimento alla concezione autonomista esalta la capacità di ogni singola comunità di decidere, autonomamente e in base al suo reddito, la qualità e quantità dei servizi. Pare una posizione non condivisibile e fondata su un principio patrimoniale che mina la convivenza, tuttavia dovrebbe essere possibile definire uno standard minimo di servizi per ogni tipologia di comunità da garantire a tutti i cittadini, come espressione dei diritti di cittadinanza nell’ambito del territorio di area vasta. Il piano di area vasta dovrebbe esplicitare la metodologia per giungere a definire, nella specifica situazione, lo standard minimo e indicare le eventuali carenze delle singole comunità e le politiche specifiche da attivare. Si tratta di una questione che ha anche a che fare con i conflitti locali, i quali, molto spesso, oltre che far riferimento ad uno specifico problema, esprimono anche l’insoddisfazione per una situazione di squilibrio tra le diverse zone anche in relazione alla dotazione dei servizi;

3. qualità della vita: la valutazione della qualità della vita costituisce un giudizio soggettivo, ma non bisogna mistificare, esistono le condizioni minime (risorse economiche individuali, accessibilità ai servizi, attrezzature, infrastrutture, ecc.) che devono essere garantite. Anche in questo caso si ha una rilevanza indiretta nei conflitti locali.

Si fa riferimento, in sostanza, ad un punto di vista forte per la pianificazione di area vasta: un piano in grado di indirizzare le pratiche sociali di un territorio ampio, fissarne le regole operative, individuando vincoli e possibilità, con un contenuto cogente su tutta la parte che si è definita come elemento ambientale ed essere fortemente condizionante per l’elemento antropico.

Come precisato oltre, il piano di area vasta, proprio per i suoi contenuti che esplicitano i livelli di sviluppo delle diverse zone, la dotazione in ogni parte di infrastrutture e servizi, i costi e i benefici e le opportunità, può costituire un contributo di rilievo nell’ambito dei conflitti locali. Non si tratta, tuttavia, di una prerogativa astratta assegnata a questo livello di pianificazione, ma solo un possibile esito ove il piano si fondi e affermi un principio di equità territoriale, un controllo delle risorse, soprattutto, ma non solo, di quelle rinnovabili, attui processi di sviluppo locale, promuova il recupero dei patrimoni storici, culturali e naturali, e contribuisca ad una equilibrata e opportuna infrastrutturazione di tutto il territorio e sia, inoltre, elaborato attraverso forme di partecipazione e di ascolto. È proprio questa dimensione complessa che conferma come la pianificazione sia costituita da un insieme di politiche coordinate, da attivare, monitorate e, se del caso, correggere, al fine di raggiungere gli obiettivi generali. Non va vista solo come uno strumento, anche avendo questo connotato, ma soprattutto come una strategia articolata che utilizza mezzi opportuni per realizzare obiettivi espliciti e che mostra alle popolazioni interessate un loro possibile futuro.

Un oggettivo contributo al piano di area vasta lo fornisce proprio perché integra in un’unica visione un territorio ampio all’interno del quale siano possibili compensazioni. Va detto, tuttavia, che non sempre e non in tutti i luoghi sono presenti istituzioni di governo diretto per un’area vasta; in questi casi appare necessario promuovere la collaborazione interistituzionale. La dimensione dell’area di riferimento per questa pianificazione non può essere amministrativa, ma deve far riferimento all’integrazione in atto e alle problematiche emerse (anche attraverso i conflitti).

La pianificazione non è lo strumento attraverso il quale una volontà cieca, incarnata nel potere politico, si impone sulla collettività e sui singoli; essa è costituita da una scelta politica, ad occhi aperti sulla realtà, circa il futuro di quella stessa comunità. Le modalità, attraverso le quali si arriva a definire tale futuro, non potrebbero essere che quelle democratiche del confronto basato sulla conoscenza, la più precisa possibile, della realtà passata e presente e delle tendenze in atto (Indovina, 2001).

 

Figura 3

 

 

Il ruolo della pianificazione di area vasta nei conflitti locali

 

La diffidenza verso ogni decisione politica costituisce un elemento costitutivo che genera difficoltà nella comprensione e nell’accettazione, da parte delle forze sociali e dell’opinione prevalente, di ogni trasformazione dettata da un operatore pubblico. Né tale diffidenza può essere superata con il solo fatto che sia stato predisposto un piano di area vasta, i cui contenuti e le modalità di elaborazione, come già detto, costituiscono elementi molto importanti per realizzare una situazione di comprensione.

Contenuti e processi di elaborazione non costituiscono parti separate, ma al contrario elementi che si intrecciano strettamente per realizzare una situazione che sia al tempo stesso trasparente, attenta all’ascolto, fondata su precisi indagini della situazione di fatto, del passato e delle tendenze future, con obiettivi chiaramente esplicitati.

Ritornando ai conflitti, quello che pare rilevante, come già osservato, non è tanto il contrasto tra un interesse privato e un interesse generale, per il quale esistono opportuni strumenti di soluzione. La questione di difficile composizione è quella relativa al contrasto tra un interesse generale locale e un interesse generale di livello superiore. Questo tipo di contrasto non necessariamente si esprime attraverso un conflitto locale, anche se esso è proprio quello che risulta di più difficile composizione, ma può trovare espressione nell’antagonismo tra diverse amministrazioni. In tal caso, il contrasto è solo apparentemente amministrativo, in realtà mette in campo diversi interessi generali e incorpora elementi di scelta politica. Tuttavia, da una parte, per semplificare, e, dall’altra, perché si tratta dei tipi di conflitto che maggiormente emergono, acquisiscono grande visibilità e sono di più difficile composizione, si farà riferimento ai conflitti locali che esprimono un interesse generale locale che si contrappone ad un interesse generale di livello superiore.

In linea generale, si è visto, che questi conflitti riguardano strade e ferrovie, impianti per il trattamento rifiuti, impianti energetici, ecc.; cioè opere che presentano, almeno, le seguenti caratteristiche:

- sono di interesse comune, molte di queste corrispondo ad una necessità impellente, il che vuol dire che molto spesso incorporano l’urgenza e l’emergenza;

- il loro rilievo non è quasi mai locale, anche se, in misura variabile, il raggio del loro interesse travalica la dimensione locale;

- ciascuna, in misura più o meno rilevante, esercita un impatto negativo sul territorio, incide, cioè, su quella che è stata chiamata la consistenza del territorio ed è la difesa di tale consistenza che fa maturare un conflitto locale;

- l’opera che insiste sul quel determinato territorio, in linea generale, è parte di un’opera maggiore (un tratto di linea ferroviaria rispetto alla linea stessa) o magari di un intervento di settore (un piano per il trasporto merci o un piano sul riciclo dei rifiuti urbani), intendendo con questo che non si tratta di opera isolata, ma che fa parte di un sistema.

Guardando alle modalità con le quali si sviluppano i conflitti locali, si dovrebbe mettere in evidenza che l’opera viene percepita nella sua singolarità e non come l’elemento di una catena o filiera che dir si voglia, e ciò anche quando l’opera, proprio per la sua natura, è esplicitamente il segmento di una rete (per esempio ferroviaria). La questione appare rilevante e mostra l’effetto dirompente di un conflitto locale. Infatti, la contestazione dell’opera ha come effetto di maggior rilievo la messa in discussione la stessa rete, il più complessivo sistema di cui l’opera è parte.

In questi casi, si suole mettere in evidenza un problema di comunicazione, cioè, l’incapacità a far comprendere l’importanza della rete o del sistema rispetto alla singola opera. Tuttavia, non pare che il problema sia riducibile al tema della comunicazione. In realtà c’è l’esaltazione di ciò che è stato chiamato interesse generale locale contro quello di livello superiore.

Ciò che pare venga messo in evidenza da questo tipo di conflitti è, in realtà, l’indifferenza che caratterizza la progettazione e la realizzazione, anche di opere di sistema, per il territorio investito. Non è tanto una questione di comunicazione ma proprio l’assenza di una concezione integrata del territorio. Nella migliore delle ipotesi queste opere fanno parte di un piano di settore, la cui logica, come dice il termine stesso, è il settore, mentre molto raramente si prende in considerazione la consistenza del territorio investito, quasi mai si fanno i conti con le emergenze locali. L’affermazione di un interesse generale di livello superiore è come se giustificasse l’assoluta indifferenza per gli interessi generali locali, il che genera insofferenza nelle popolazioni locali fino all’emergere di conflitti.

Più recentemente, anche per iniziativa dell’Unione europea, il problema specifico del rapporto opera e territorio viene risolto da una valutazione, assolutamente importante ed essenziale, ma non risolutiva; essa, infatti, può suggerire elementi di mitigazione, ma quasi mai alternative credibili. Si facciano tutte le valutazione richieste, ma il ragionevole tentativo di soluzione è nel rapporto che deve istaurarsi tra trasformazioni del territorio e consistenza del territorio stesso.

È proprio qui che entra in gioco, almeno così pare, l’importanza della pianificazione di area vasta, a condizione che abbia le caratteristiche prima indicate. Relativamente al problema che qui si è posto si avrebbero le seguenti situazioni positive:

- il punto di vista prevalente sarebbe quello del territorio nel suo insieme e soprattutto della sua valenza ambientale e della relazione tra ambiente e situazione antropica. L’attenzione, quindi, alla consistenza dei luoghi sarebbe notevolmente alta;

- le opere saranno inserite come elementi di un sistema, ma il loro posizionamento e la loro localizzazione risponderanno alle esigenze complessive del territorio mediando tra esigenze di settore ed esigenze dei luoghi;

- si terrà conto della situazione di ogni singola parte del territorio distribuendo in modo equo svantaggi, vantaggi e opportunità;

- si esalteranno gli elementi positivi di ogni singola zona e dell’insieme del territorio e le opere potranno svolgere un ruolo strumentale a questo scopo.

Non è detto, tuttavia, che pur all’interno di un quadro di riferimenti dettagliati, in grado di evidenziare vantaggi e svantaggi, necessità e costi, reti di relazioni, ecc., non possano insorgere lo stesso dei conflitti locali. Si ritiene, tuttavia, che la situazione, arricchita dagli elementi del piano di area vasta, sia più favorevole ai fini della ricerca di una soluzione. Gli elementi di conoscenza, i fattori di rete, le opportunità e le prospettive possono avere un certo peso nell’indirizzare la riflessione collettiva. Per esemplificare non è la stessa cosa trovare soluzione al rifiuto di una discarica, intesa come opera singola, rispetto ad un piano per il trattamento dei rifiuti prodotti nell’area vasta, un piano che preveda discariche, impianti di trattamento, termovalorizzatori, ecc. Un piano, cioè, che affronta il tema dei rifiuti nella sua complessità e che localizza i singoli pezzi di questo piano, nell’ottica complessiva del territorio e della salvaguardia ambientale, tenuto conto dell’equità territoriale. Se questo piano, inoltre, ha avuto il conforto di una procedura di partecipazione e di ascolto sarà più facilmente considerato positivo. Può non essere risolutivo, lo si metta in conto, ma sicuramente può essere di aiuto a impostare la questione in modo corretto.

Va, tuttavia, sottolineato che a fronte di un conflitto locale, che difende un interesse generale locale, ove fosse fondato l’interesse generale di livello superiore, una decisione positiva va assunta, nell’ambito delle responsabilità che sono proprie della nostra struttura dei poteri istituzionali. La strada di autorità non sembra possa essere quella più facile e risolutiva, vale la pena sempre di perseguire la strada della trasparenza, del dialogo, della collaborazione e, alla fine, se fosse necessario, della compensazione. Documentare con precisione quale sia l’interesse generale di livello superiore è il primo passo; rendere trasparenti le implicazioni della singola scelta nell’ambito di un settore, sembra il secondo passo; evidenziare come si sia perseguito, nell’ambito del piano, la salvaguardia dell’ambiente e l’interesse di tutte le singole parti del territorio, è il terzo passo; cercare il dialogo considerando l’interesse generale locale come legittimo e rispettabile, è il quarto passo; trovare una soluzione soddisfacente a partire dal calcolo delle esternalità positive e negative per la comunità locale in modo da giungere a una forma di compensazione (economica e non), può essere l’ultimo passo4.

Va, infine, rilevato che se il conflitto tra questi due interessi generali assumesse una dimensione consistente e duratura e non fosse possibile individuare un punto di composizione, non sarebbe eccessivo pensare all’esercizio di una funzione di autorità legittima, che non dovrebbe essere considerata prevaricatrice e che comunque dovrebbe attivare le eventuali compensazioni che si fossero già individuate. In sostanza, se da una parte non sembra possibile mettere in discussione le buone ragioni di una comunità di cittadini a far valere i loro interessi generali locali, dall’altra parte non si può disconoscere l’appartenenza di ogni comunità locale ad una comunità più ampia (regionale, nazionale o internazionale), che sia portatrice di un interesse generale di livello superiore.

 

Figura 4

 

 

Note

 

1 Va detto che non si tratta di una particolare condizione italiana; questa situazione di contestazione di opere pubbliche si ritrova in molte parti dell’Europa, per esempio per la Spagna si veda Nel-lo (2003).

2 Si deve segnalare che l’attenzione della comunità locale, in generale, si focalizza sulle trasformazione di grande rilievo e dimensione (le grandi opere), mentre appare distratta sulle piccole trasformazioni (come la costruzione di tante piccole seconde case in una zona marina o di montagna). Tali piccole trasformazioni, tuttavia, nel loro insieme non risultano meno invasive di una grande trasformazione, anzi, in certi casi e in specifici contesti, possono risultare molto più invasive. È molto probabile che le piccole trasformazioni siano costitutive di un interesse privato diffuso (vendita di terreni o di manufatti agricoli; attivazione di attività ricettive, ecc.) che investe la comunità nel suo insieme. Se così fosse, il concetto di distrazione non potrebbe essere accettato. Esso traveste l’interesse diffuso che offusca la percezione delle trasformazioni che investono la consistenza patrimoniale dei territori del luogo.

3 Si è già accennato al problema della rappresentatività rispetto alla comunità nel suo insieme; si deve rilevare che non meno importante è l’effettiva capacità dell’opera pubblica di incidere negativamente sulla consistenza patrimoniale.

4 La compensazione è pratica che tende a diffondersi; essa contiene un principio di equità (compensa chi subisce un danno per un interesse generale i cui benefici ricadono altrove), ma incentiva una pratica di monetizzazione di tutti i valori che appare, per certi versi, pericolosa (ma è questione che necessita di ulteriori approfondimenti).

 

Le immagini sono tratte da F. Indovina, L. Fregolent, M. Savino (2005) (a cura), L’esplosione della città, Editrice Compositori.

 

 

Bibliografia

 

Fregolent L. (2005), Governare la dispersione, FrancoAngeli.

Indovina F. (2001), Del processo di trasformazione del territorio, in “areAVasta”, n. 3.

Indovina F. (2005), Governare con l’urbanistica, Maggioli.

Nel-lo O. (2003), Aqui no!, Empùrie Editorial, Barcellona.

 

 

Presentazione | Referenze Autori | Scrivi alla redazione | AV News | HOME

 

 Il sito web di Area Vasta è curato da Michele Sol