Numero 12/13 - 2006

 

Città e paesaggi  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tessuti urbani e territoriali, matrici euristiche di paesaggi e identità sostenibili


Melita Aspasia Brancati


 

La globalizzazione tende a determinare il progressivo appiattimento dei caratteri originari del paesaggio e degli insediamenti urbani producendo la graduale estinzione delle attività economiche tradizionali. Melita Aspasia Brancati esamina il sistema dei centri minori della Sicilia orientale individuando connessioni e relazioni che prefigurano reti di antiche città, da proiettare in un futuro di riscoperta e potenziamento di antiche qualità urbane e territoriali, prima che vadano definitivamente perdute

 

 

Una grande rete di centri urbani è quella che ci rassegna la rappresentazione sinottica dell’attuale geografia della Sicilia, palinsesto storico dell’avvicendarsi di svariati popoli, distillato di vissuti e politiche differenti riscontrabili nei segni fisici che hanno plasmato le geometrie del territorio.

Segni che di volta in volta, in siti coincidenti o diversi, hanno avuto molteplici significati: di luoghi di culto, di rappresentazione, di difesa militare, di affermazione del potere, di insediamenti a prevalente funzione residenziale o d’incontro e smistamento commerciali. Tracce che ancora oggi è possibile rinvenire nella geo-referenziazione topografica o nella ricostruzione toponomastica, letteraria e storiografica in genere, trasformati comunque dagli usi successivi o cancellati dal tempo e dall’incuria.

Segni che, al di là della più o meno agevole identificazione e a prescindere dal loro costituire o meno coscienti identità locali delle attuali generazioni, non portano più in sé i significati funzionali originari e perciò sono soggetti a subire il destino che le civiltà pragmatiche (e i loro mercati) assegnano alle lingue morte: segni a stento leggibili da pochi appassionati cultori.

La Sicilia, dunque, appartiene ad una lunga storia, causa ed effetto della sua ambita posizione geografica di isola-incrocio1 e per questo crogiuolo di esperienze e culture che, come il mare che la lambisce, ad ogni ondata più o meno lunga hanno lasciato una traccia sull’antico suolo.

Un’isola crocevia che nel suo divenire si fa altro: epifania di storie dallo scenario più vasto che attingono dall’immenso archivio del Mediterraneo fondendosi in articolati paesaggi urbani e territoriali; o pietrificata dall’immobilismo e assuefatta a minime condizioni di vita generando tessuti indifferenziati; o illusa da effimeri episodi produttivi dispensatori di ricchezze, il cui effetto invece è stato di distruzione di pregiati contesti paesaggistici e di abbandono delle agricolture tradizionali dalle quali sono derivate quelle ricchezze che hanno consentito di fornire ai centri antichi architetture persino ridondanti2.

Alla stessa stregua della pur diffusa archeologia nell’area della Magna Grecia, anche i più complessi segni dei nostri centri storici, sulle piazze dei mercati globali e fondiari locali, sembrano avviati verso progressive riduzioni dimensionali e ineluttabili trasformazioni, a prescindere dalla collocazione geografica costiera o interna.

Per fronteggiare un simile trend, occorrerebbe d’altro canto un forte interesse socio-economico per il recupero di funzioni del tutto desuete e anacronistiche, quale talora indotto solo da eventi traumatici: si pensi, in epoca bellica, allo sfollamento delle grandi città in favore dei più minuscoli e sperduti centri montani … in ogni caso lontani dai principali mercati e obiettivi militari (vedi Moravia, La ciociara).

Governare in pace la crescita di un simile interesse, senza ricorrere dunque a quella sorta di traumi, presuppone comunque l’assunzione di rendite economico-politiche che in atto appaiono ben distanti dagli usuali processi di crescita.

Il rischio, infatti, è che lo stesso disinteresse di mercato, causa di abbandono delle aree agricole e di degrado del paesaggio, investa i nuclei antichi delle città e ne cancelli memoria e identità.

D’altronde questo è ciò che la cultura globale tende a portare: un progressivo appiattimento dei caratteri originari del paesaggio e dell’insediamento urbano con la graduale estinzione di attività economiche tradizionali. Un processo che ha investito appieno l’isola i cui effetti, come ombra che avanza, si riscontrano nell’incapacità di rinnovamento delle splendide sopravvivenze di culture materiali destinate, purtroppo, a soccombere sotto le spinte di una tecnologia imperante e nello spegnersi di piccole economie simbiotiche con l’ambiente, ma poco produttive per il vorace mercato mondiale.

Tuttavia, è nel mondo interno della Sicilia che è possibile riscontrare patrimoni di risorse naturali e culturali tali da arginare gli effetti negativi del trend globalizzato d’insostenibilità ambientale.

È in questo interno che sopravvivono suggestivi spartiti per la memoria e l’identità, impressi nei tessuti antichi medievali, nel barocco delle costruzioni, nelle piazze e nella natura che li pervade.

È nelle piccole città interne, concentrate lungo i crinali e le zone più impervie, che è possibile trovare le condizioni favorevoli per avanzare ipotesi rifondative sia in ambito disciplinare (e qui vale il riferimento ai “municipi di uomini” di Magnaghi, Scandurra, Borri e altri), che a livello di politica economica, ispirate più alle valenze qualitative e di civiltà della nostra Costituzione che non a quelle quantitative dei mercati globali.

 

 

Il sistema dei centri minori interni della Sicilia orientale

 

L’ordito territoriale che la Sicilia ci presenta è costituito da un insieme di paesi e città raggrumati sulle creste dei monti, sulle pendici dei colli o su ondulati altipiani che si contrappongono a continuità urbane costiere3 inframmezzate dalle chiusure naturali dei promontori.

Le prime, nel loro essere città interne sono chiuse, intente, come scrive mirabilmente Sciascia, a “sottrarsi al mare ed escluderlo dietro un sipario di alture o di mura”; le seconde, invece, le città del mare sono proiettate verso l’esterno pronte a cogliere ciò che di nuovo si affaccia all’orizzonte, senza pensare a ciò che questa apertura può comportare in termini di perdita dei caratteri originari e per questo fatalmente compromesse da pratiche di cementificazione spesso devastanti.

Lasciandoci alle spalle le problematiche connesse al sistema delle conurbazioni costiere, il nostro intento è di occuparci dei piccoli centri interni che rappresentano l’ossatura portante dell’isola. Sono, infatti, 333 i piccoli comuni con un numero di abitanti minore o uguale a 20.000, contro i 53 centri con popolazione maggiore a tale soglia (comprendenti anche i 9 comuni capoluogo di provincia) solitamente disposti lungo la fascia costiera4 (Figura 1).

Figura 1 - Il sistema dei centri urbani minori (bianco) rispetto ai comuni maggiori (grigio)

 

 

Le brevi distanze che li separano lungo crinali e impervie trazzere ne infittiscono il sistema di nodi e non è certo un caso che le catene dei Peloritani e dei Nebrodi, che sovrastano il fronte tirrenico della Provincia di Messina, incontrando quelle di Enna e Palermo siano frammentate da centinaia di piccoli territori comunali, i cui nuclei insediativi sono sorti lungo le antiche direttrici est-ovest (Messina-Palermo) piegando a Randazzo verso Catania e Siracusa-Ragusa, anche per soddisfare esigenze di tipo militare avviate già in età bizantina e ulteriormente ampliate durante il periodo normanno.

Sono un sistema di insediamenti che si trovano scaglionati lungo precise direttrici viarie di collegamento fra la parte occidentale e quella orientale dell’isola, all’interno di un’area di grande importanza economica e militarmente strategica, in cui le sequenze dei centri con le loro torri di avvistamento e i castelli fortificati rappresentavano un osservatorio privilegiato di controllo del territorio5.

Anche se la storia nel suo divenire ha plasmato le trame urbane originarie di questi piccoli centri è comunque possibile leggere la primitiva conformazione del nucleo insediativo stretto intorno ai simboli del potere: il castello e l’abbazia, quasi a sottolineare il rapporto di sudditanza e il bisogno di protezione individuale o collettivo. Un intrico di vie e di vicoli si snoda rivelando nel selciato l’impervietà dei sentieri di alta quota e su di esso si affacciano file ordinate di abitazioni. È un pulviscolo di case, ma dietro le facciate, simili nel linguaggio architettonico e formale, si svela il travaglio continuo di intere generazioni dipeso dal variare dei bisogni di chi le abita (Figura 2).

Figura 2 - Il centro abitato di Agira (En) con il castello che domina il paesaggio

 

 

I luoghi dell’abitare insieme ai simboli del potere politico e religioso e al sistema viario danno vita così ad un insieme armonico, frutto di un incontro (non privo di tensioni e contrasti), tra l’uomo e la natura, tra la cultura di una comunità e le fattezze fisiche di un territorio.

Un’opera corale, dunque, coevolutiva, cresciuta nei tempi storici sovrapposti ai tempi geologici che acquista i plusvalori infiniti sottolineati da Alberto Magnaghi6 e che solo un risvolto malinteso impedisce di apprezzare proprio a chi in borsa quotidianamente è aduso a rapide stime in tempo reale.

In tal modo, la lettura della connessione fra l’urbano e il rurale ci mostra un vasto repertorio di città, fatto di casi diversi, d’identità distinte, legate ai differenti modi d’interazione tra le componenti storiche, politiche e ambientali.

È il caso dei comuni di origine medievale dove Arabi e Normanni hanno plasmato forme urbane, spesso già esistenti ai tempi dei greci e dei romani, nel rispetto di morfologie utili sia alla difesa che alla produzione dei beni economici in un rapporto ancora leggibile che si esprime proporzionalmente tra le parti, anche se non più calibrato sul segno fisico delle mura – ormai scomparse quasi del tutto – ma che si fonda sul senso di appartenenza ancora vivo nella memoria collettiva (Figura 3).

Figura 3 - Il nucleo urbano di Gagliano Castelferrato (En) visto dalla rocca del castello

 

 

Ma è ancora il caso dei comuni fondati nel periodo del Viceregno7 (tra il XV e il XIX secolo) con il sistema politico-amministrativo della licentia populandi che presentano, in genere, un impianto viario a maglia ortogonale con isolati a spina, i cui tipi edilizi (case terrane e case solarate) si ripetono quasi ossessivamente all’interno del tessuto urbano, diversificato dalla presenza di chiese e palazzi baronali a testimonianza della redditività agricola fornita dal contesto territoriale. Qui il senso identitario di appartenenza sfuma anche per motivi intrinseci alla fondazione stessa della città. Popolazioni diversificate, provenienti da varie parti, vengono a costituire infatti i nuovi abitanti della nuova città.

O il caso dei comuni ricostruiti dopo la furia distruttrice del terremoto del 16938 che ha colpito la Sicilia orientale, le cui forme urbane presentano una struttura analoga a quella delle città di fondazione, escludendo i casi di Avola e Grammichele a schema radiocentrico.

Ma ad una sistematicità d’impianto delle nuove città si contrappone un linguaggio scenografico e fastoso: il barocco siciliano. Modica, Scicli, Palazzolo Acreide, Noto (che di quel barocco è unanimemente riconosciuta come capitale), sono i centri più rappresentativi di questo stile; e anche tanti altri piccoli borghi, quelli posti nelle zone più impervie dell’entroterra siciliano, dal tessuto urbano morfologicamente più articolato e complesso portano in sé testimonianze edilizie e urbanistiche di questo periodo artistico.

Questa sommaria classificazione, che evidenzia una situazione molto variegata, ci fa capire come non pare producente parlare in generale di centri storici (nella fattispecie minori), ma occorre scendere al dettaglio conoscitivo di ciascun nucleo urbano e del suo territorio, per calibrare al meglio gli interventi, diretti verso una riappropriazione sociale dei valori della cultura materiale della collettività9.

In tal modo, assume ulteriore significato il progetto locale di Magnaghi, quando parla di elaborare trasformazioni del paesaggio urbano e territoriale condivise e rispettose della storia di formazione del luogo stesso, finalizzate alla conservazione dell’identità e del patrimonio esistente10.

 

 

Reti di antiche città, per qualità nuove

 

Il tema così articolato è ampio e complesso e richiede una sinergia di azioni che, partendo dalla conoscenza storica delle trasformazioni della città e del suo territorio, abbiano l’obiettivo di rispettare e accrescere il patrimonio culturale e ambientale presente.

La mancanza d’interventi sistemici sui centri antichi non sembra dovuta tanto alla complessità del tema (esaltata anzi dalla ricchezza storica del dibattito), quanto alle distrazioni prodotte nell’ultimo mezzo secolo dall’incalzare della modernizzazione e dalle apparenti semplificazioni che la connotano in termini di tecnologie.

Sotto questo profilo diventa emblematica l’espressione usata da Gustavo Giovannoni “Vecchie città, edilizia nuova” che inaugura una prima stagione distintiva, ma anche integrativa, dell’antico dal moderno.

Minore coscienza di tale complessità, fino a scomparire quasi nell’arroganza di molte cosiddette grandi opere, è quella che imperversa ormai a partire dagli anni ’60 che, esaltando i caratteri legati alle più settoriali difficoltà tecniche, economiche e politiche, ha trascurato quelli culturali inerenti il rapporto tra esistente e nuovo. Da cosa nascerebbero le attuali esigenze di valutazioni d’impatto o della stessa ineffabile sostenibilità dello sviluppo, se non dalla presa d’atto di aver operato in nome di quantità preclusive di ogni qualità culturale?

Quello di centro storico è un concetto che nella disciplina urbanistica trova definizione solo da mezzo secolo, come effetto delle crescite urbane seguite alla fase della ricostruzione post-bellica. Prima di allora, infatti, centri storici e città coincidevano. Il perimetro della città, cioè, corrispondeva generalmente con quello del suo centro antico, specie nelle sedi più piccole, la gran parte della quali, dopo l’Unità d’Italia, non avevano avuto pressanti esigenze di ampliamenti a fini di salubrità e decoro degli spazi urbani (legge 2359/1865)11.

Il destino sull’eventuale crescita dei centri minori, infatti, è stato sempre legato a quello delle produttività primarie (agricole, zootecniche, marinare o minerarie), ma anche a quello dei trasporti dei beni prodotti per effetto delle relative attività economiche.

Il mutato modello produttivo, introdotto dal macchinismo industriale, ha modificato progressivamente ogni processo e i nuovi sistemi di trasporto (ferrovie e navi) hanno indotto una prima forma di globalizzazione dei mercati. Gli originari vantaggi posizionali che storicamente avevano determinato le scelte insediative dei siti agricoli posti a quote funzionali alle esigenze di difesa, ma anche alle millenarie necessità di trasporto del cavallo, si sono così trasformati in motivi di svantaggio quando è subentrato il cavallo-vapore.

È divenuto peraltro sempre più improbabile un incremento demografico dei comuni montani e collinari, ancorché più velocemente raggiungibili grazie ai nuovi mezzi di trasporto12.

In ogni caso, a dispetto di funzioni storiche ed esigenze pratiche o di difesa ormai desuete, i centri interni sono sopravvissuti nonostante le trasformazioni globalizzanti ne abbiano ridotto progressivamente la vitalità multifunzionale e tendano a farne (come per le periferie urbane) luoghi di mera residenzialità.

Il prezzo pagato per la difficoltosa accessibilità ai siti di produzione e di servizi è tuttavia compensato da una più naturale cadenza temporale degli eventi e spesso anche da una migliore qualità ambientale. Una migliore offerta infrastrutturale, anzi, ne metterebbe a rischio i residui caratteri multifunzionali accelerando la perdita dei servizi rimasti: ambulatori, ospedali, preture e persino scuole che finirebbero per essere trasferiti e concentrati negli insediamenti maggiori più prossimi. Paradossalmente una migliore accessibilità ai centri minori costituirebbe ulteriore motivo di fuga e di depauperamento della vitalità multifunzionale.

La complessità della tematica territoriale, tesa per definizione a mettere al centro il necessario riequilibrio che la tutela costituzionale del paesaggio impone negli effetti, non è stata tuttavia all’ordine del giorno per quasi un secolo.

Potrebbe, dunque, apparire donchisciottesco prendere di petto la difficoltà di simili tematiche, se anche la più recente legislazione (Codice dei beni culturali e del paesaggio) sollecita verso una necessaria azione di recupero del tempo perduto e delle occasioni mancate13. E non è un caso che la salvaguardia del paesaggio agrario e dei siti d’importanza storica, inclusi nel patrimonio Unesco, sia vista come obiettivo specifico dei piani paesaggistici a rimarcare l’univocità d’intervento che riguarda la riqualificazione di centri urbani e aree agricole.

Ma anche una valutazione degli odierni danni ambientali (oltre che dei costi sociali prodotti dal trapianto migratorio e dall’abbandono dei centri minori), come dei conseguenti dissesti idrogeologici, sollecita a considerare prioritaria una politica di complessivo recupero su tutti i fronti, sia pure nella consapevolezza dello scomparso carattere sociale che ha caratterizzato in genere l’intervento pubblico.

Le svuotate aree centrali, montane e collinari, la crescita indiscriminata delle città costiere, la mutazione genetica di città e territori multifunzionali divenuti sedi di mero consumo (di beni e servizi prodotti altrove) e immersi nel deserto del progressivo abbandono agricolo, rappresentano oggi il contesto complessivo nel quale appare prioritario tentare un recupero riqualificante in chiave di sostenibilità ambientale14.

Se del resto l’immagine più significativa della città è generalmente quella modellata nel suo centro antico (più che nell’anonima periferia compatta o diffusa), così l’immagine che resta a livello di area vasta è quella dei variegati paesaggi (di costa, di valle, di collina o di montagna) che fanno del territorio un unico grande parco15.

Gli interventi, quindi, non possono essere superficiali o puntuali, cioè non possono effettuarsi più o meno estesi maquillage edilizi o urbanistici, piuttosto bisogna operare all’interno di una sistemica strategia d’area vasta capace di conseguire opportunità concrete e vantaggi economici, a partire da una più articolata disciplina degli usi delle indefinite e sempre trascurate zone agricole. Queste del resto, costituiscono la parte più consistente del territorio siciliano (almeno il 96%), e caratterizzano il contesto paesistico dei tanti centri urbani che, comunque tutti assieme, occupano appena il restante 4% dei suoli.

La città, l’industria, l’infrastruttura, cioè, vanno ricollocate nella dimensione spaziale che è loro propria: l’ambito-costruito-eccezione, all’interno del non-urbanizzato che diventa regola.

Risulterebbe, pertanto, più corretto iniziare il cammino di riordino del territorio dalle aree dove l’aspetto edilizio resta diffuso, dove cioè il costruito assume il ruolo dimensionale di eccezione (che gli è proprio nei fatti) ancorché nefastamente metastatizzante (Figura 4).

Figura 4 - Il nucleo urbano di Castiglione di Sicilia (Ct) visto dall'Alcantara

 

 

L’odierna dequalificazione urbana, alla quale s’intende contrapporre l’attribuzione sistemica di nuove qualità, si spiega come effetto di rinviati (se non trascurati) approcci alle problematiche complesse della città antica, da una parte, e del suo contesto agricolo, dall’altra.

Non è dunque un caso che, in vista dell’interesse dichiarato dal presente saggio verso la riqualificazione dei centri minori interni della Sicilia orientale, si richiamino il non urbanizzato e le zone agricole, perché ambedue legati da un rapporto biunivoco.

Le qualità di un centro antico cioè, sono insite già in assoluto nei suoi originari rapporti con la campagna che lo circonda e non possono essere accresciute nemmeno da eventuali trasformazioni moderne del suo contesto; e per converso le qualità paesaggistiche di quest’ultimo non possono comunque essere migliorate da trasformazioni moderne del centro storico (Figura 5).

Figura 5 - La chiesa medievale Madonna di Lourdes alle porte di Castiglione di Sicilia (Ct)

 

 

Il tema della riqualificazione urbana porta, dunque, a mettere in discussione le forme usuali, frammentarie e improvvisate d’investimento delle scarse risorse pubbliche e ad affrontare i percorsi della complessa strategia sistemica, impervi per esigenze di mercato oltremodo mutevoli e sempre meno attente ai lenti processi di crescita democratica. Mette pure in discussione la prassi sinora seguita che ha privilegiato il recupero delle città maggiori preferibilmente del nord, dove i mercati fondiari delle dismissioni industriali imponevano risposte repentine. Il problema riguarda al contrario le realtà dei piccoli e medi centri urbani che rappresentano il nerbo del paese e soprattutto quelli del meridione, dove più rilevanza ha la pratica dell’edificabilità diffusa e della sostituzione viste come uniche direzioni di risparmio, in assenza di alternative economicamente rassicuranti.

In un simile contesto, e lungi dal riproporre le inadeguatezze procedurali e applicative di una legislazione urbanistica (in Sicilia ferma all’epoca delle grandi espansioni degli anni ’60 e ’70), si sostiene l’importanza strategica del piano, almeno come scelta consapevole di priorità improcrastinabili in un quadro complessivo in cui gli investimenti trovino il loro concerto nella tutela e valorizzazione delle principali risorse territoriali collettive: aria, acqua, suolo, patrimonio monumentale e naturalistico (paesaggio).

Risorse territoriali che, superati gli schemi dell’estetismo romantico connesso all’originaria epistemologia contemplativa di bellezze naturali, oggi rientrano nel più compiuto concetto di paesaggio tutelato dalla Costituzione, attualizzato dal DLgs 490/1999 e ora anche dal Codice Urbani16. Senza dire che nel quadro della Convenzione europea dei beni culturali (Firenze 2000) la salvaguardia delle aree agricole diventa specifico obiettivo di qualità alla stessa stregua dei siti patrimonio dell’umanità.

Proprio queste considerazioni, che riaccostano nuclei antichi e paesaggi di contesto, sollecitano la ricerca di soluzioni di riequilibrio. Emblematici a tale proposito diventano i piccoli centri interni siciliani che con la crisi del modello insediativo metropolitano possono costituire nuovi nodi territoriali di riferimento in cui sperimentare azioni d’intervento a specifici contenuti tematici con l’obiettivo di far emergere le specificità dei luoghi e innescare – anche tramite un maggiore interesse turistico – positive ricadute economiche sulle aree coinvolte.

Ecco allora che Cerami, Sperlinga, Gagliano Castelferrato, Agira, Centuripe (in Provincia di Enna), Castiglione di Sicilia, Maletto, Mirabella Imbaccari, Vizzini (in Provincia di Catania), Capizzi, Cesarò, Floresta (in Provincia di Messina), Chiaramonte Gulfi, Giarratana, Monterosso Almo (in Provincia di Ragusa), qui citati come esempio degli almeno trecento comuni siciliani minori, da città di appendice o isolate periferie, sfruttando gli originari percorsi che in tempi remoti li hanno resi indispensabili centri di difesa o di mercato, possono formare un nuovo sistema a rete di riferimento in cui tentare applicazioni significative di progetti locali di sviluppo. Azioni pensate per sottolineare gli aspetti peculiari degli spazi e tali da coinvolgere ambiti assai estesi e variegati, in modo da assumere i connotati strategici di una vera e propria pratica di governo del territorio (Figura 6).

Figura 6 - Panorama di Gagliano Castelferrato (En)

 

 

Non si tratta, dunque, di garantire una mera connettività tra isole dal valore minacciato, ma di puntare verso un nuovo scenario ecosistemico che riacquisisce funzioni perdute, in un percorso maieutico utile anche alla riflessione sui principi di solidarietà costituzionale e di democrazia compiuta17.

 

 

Note

 

1 Febbre L. (1966), La terra e l’evoluzione umana, in “Studi su Riforma e Rinascimento”, Einaudi, Torino.

2 L’abbandono e il degrado dei centri interni di piccole e medie dimensioni, come effetto del richiamo di concentrazioni industriali (quando e dove queste ci sono state o sono durate), o di altre forme di polarizzazione terziaria, hanno fatto da contraltare all’abbandono delle attività agricole, generalmente povere, nelle impervie aree di collina o di montagna e comunque sempre più povere se confrontate alle redditività promesse dall’industria e dal terziario. Il caso di Gela, ad esempio, è emblematico. La localizzazione costiera degli impianti industriali per la raffinazione del petrolio ha drenato le risorse umane interne del capoluogo di provincia (Caltanissetta) che ha visto decrescere nel tempo i suoi abitanti (Gela conta una popolazione di oltre 80.000 abitanti contro i 60.000 circa di Caltanissetta). Lo stesso dicasi per le aree industriali sorte nella Provincia di Siracusa; a tal proposito racconta Giovanni Campo: “La scoperta del petrolio e del metano in Sicilia, dovuta alla tenacia di Enrico Mattei (la cui tragica fine è peraltro legata al suo ultimo volo dall’aeroporto di Catania), con la speranza di fornire al paese un’autonomia energetica, offrì ai figli del contadino anche il privilegio di non dovere emigrare: nel 1950, a ridosso del relativo sito archeologico di Megara Iblea sulla penisola di Magnisi, si insedierà la Rasiom per la raffinazione del greggio; e nel 1957 nasce lo stabilimento Sincat per la lavorazione di calce e cemento. La catabasi dai paesini dell’interno verso questi nuovi paradisi del lavoro al coperto e del reddito sicuro tutto l’anno, ha dunque inizio …”.

3 Ci si riferisce: alle linee costiere catanesi a nord e a sud, alla costa tirrenica messinese, alla costiera palermitana verso Trapani, alle marine ragusane, ecc. per citare gli esempi più eclatanti.

4 Cfr. Campo G. (2004), Anabasi di Sicilia, vol. I, Prova d’Autore, Catania, pag. 37.

5 Per un ulteriore approfondimento dell’argomento si veda Arcifa L., Viabilità e politica stradale. La Sicilia medievale, in Magnano di San Lio E., Pagello E. (a cura di) (2004), “Difese da difendere. Atlante delle Città Murate di Sicilia e Malta”, Officine Grafiche Riunite, Palermo.

6 Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino.

7 Come hanno evidenziato diversi studiosi delle vicende urbanistiche della Sicilia di cui si citano: Giuffrè M. (a cura di) (1979), Città nuove di Sicilia XV-XIX secolo, Vittorietti, Palermo; Sanfilippo E. D. (1983), Le ragioni del recupero dei centri minori meridionali, Officina, Roma; Dato G, Modelli di recupero e specificità meridionali: i problemi della città meridionale, in Falini P. (a cura di) (1986), “Il recupero rinnovato”, Edizioni Kappa, Roma.

8 Si ricorda che i comuni rasi al suolo completamente dal devastante terremoto dell’11 gennaio del 1693 sono 25, mentre quelli danneggiati più o meno gravemente sono una trentina.

9 Cabianca V. e altri (1980), Il recupero democratico delle città – Riappropriazione e riuso sociale del territorio del capitale maturo, Officina Edizioni, Roma.

10 Magnaghi A, op. cit, pag. 123.

11 Capo VII - Dei piani di ampliamento - Art. 93: “I Comuni, per i quali sia dimostrata l’attuale necessità di estendere l’abitato, potranno adottare un piano regolatore di ampliamento in cui siano tracciate le norme da osservarsi nella edificazione di nuovi edifizi, a fine di provvedere alla salubrità dell’abitato e alla più sicura, comoda e decorosa sua disposizione”.

12 L’avvento della ferrovia, con la localizzazione delle stazioni a quote basse compatibili con le pendenze praticabili ha ulteriormente penalizzato i comuni montani e collinari, a dispetto delle storie di cui ciascuno di essi fosse portatore ed è stato spesso causa di sdoppiamenti insediativi sulla costa, come effetto embrionalmente urbanizzante dei siti delle stazioni. Sono state stimolate anche le prime grandi migrazioni siciliane verso i continenti più lontani, così come più recentemente il sistema autostradale è servito a rendere più agevoli quelle verso i paesi europei.

13 Al di là delle contraddizioni che connotano l’articolato del Codice (rispetto alle forti aggregazioni proposte nel 1999 dal Testo unico Melandri), non può trascurarsi l’ordine concettuale attribuito al contenuto del piano paesaggistico, specie se si considera la generale dismissione persino del termine piano.

14 È dunque ben altra, rispetto a quella delle amnistianti proposte normative, la politica di riordino del territorio (e dei suoi contesti paesistici, marini, collinari o montani) e di riqualificazione urbana nella linea della sostenibilità ambientale dello sviluppo.

15 In tal senso le vicende dei piani dei parchi siciliani (Etna, Nebrodi, Madonie e Alcantara) non paiono incoraggianti, né i procedimenti burocratico-legislativi delle nuove suggestioni di sanatoria e condono si rivelano strumenti appropriati ad una lettura del territorio in chiave di parco.

16 Ma se è vero che il paesaggio è bene culturale imprescindibile, in quanto connotante dell’identità sociale dei luoghi, allora qualunque sua trasformazione va assoggettata a preventiva verifica di compatibilità con le linee di sostenibilità ambientale e culturale, definite da un piano strategico delle priorità d’investimento delle risorse.

17 Campo G, op. cit, pagg. 17-24.

 

 

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