Numero 10/11 - 2005

 

 

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Urbanistica e felicità


Roberto Gerundo

 

 

 

 

 

 

 

 

Cogita sempre qualis vita,

non quanta sit

Seneca

 

 

La ricchezza degli individui

 

La madre di tutte le scienze sociali applicate, che può a ben vedere essere considerata la politica, va riscoprendo, a far data dagli anni ’90 del secolo scorso, l’importanza della felicità nella vita delle popolazioni, affidando al suo braccio operativo, l’economia, le modalità più efficaci al fine di perseguirla.

Lo avevano già intuito e offerto al mondo globale dell’epoca, con approccio fra il romantico ed il pragmatico, gli estensori della Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America, allorquando, nell’elencare i diritti inalienabili dei singoli individui, annoverarono la pursuit of happiness.

Il ’900, marxista e storicista, non la prese granché in considerazione, considerandola un’amerikanata o, come si diceva all’epoca, una sovrastruttura che nulla poteva spiegare rispetto all’analisi scientifica ed impietosa dei rapporti di produzione e dell’articolazione della società in classi.

Dagli anni ’30, quando, per quantificare lo sviluppo delle nazioni e delle loro economie, fu ideato il concetto di prodotto interno lordo (Pil) dall’economista Simon Kuznets1, che fu al tempo stesso il primo critico della sua pratica utilizzazione, esso è stato incessantemente adoperato dai moderni governi del pianeta per valutare, confrontare, giustificare le politiche da mettere in atto per incrementare il benessere delle popolazioni e, conseguentemente, la loro felicità.

Non mancarono, quindi, le osservazioni di natura tecnica nei confronti di un indicatore del tipo ad ombrello, cui era efficacemente applicabile la statistica dei polli di Trilussa.

Un personaggio cult per la generazione dei beby boomers, Robert Kennedy, ne evidenziò indimenticabilmente i limiti, concludendo come il “prodotto nazionale … misura tutto, salvo quello che rende la vita degna di essere vissuta” (Box 1).

Box 1

Richard Layard sostiene che l’economia debba porsi, come obiettivo principale, non più la crescita del Pil ma il benessere delle persone, la felicità dei singoli individui2.

Egli è convinto che il paradigma felicità uguale potere d’acquisto non sia più sufficiente, alla stregua della teoria derivata dall’evoluzionismo di Charles Darwin e di Adam Smith, che facevano coincidere nell’egoismo individuale la regola virtuosa per il raggiungimento del benessere collettivo.

Rivalutando l’utilitarismo di Jeremy Bentham, Layard ritiene che la felicità non sia più solo un momento d’introspezione psicologica, una questione eminentemente personale e caratteriale, ma un criterio organizzatore, un obiettivo politico dei governi.

Infatti, in una società complessa e sviluppata, quale quella occidentale, le azioni degli individui nella vita quotidiana obbediscono alle motivazioni più varie.

Layard individua sette fattori che prioritariamente influiscono sulla felicità: relazioni familiari, situazione finanziaria, lavoro, comunità e amici, salute, libertà personale, valori personali.

In definitiva, le persone non vivono perseguendo solo risultati economici, ma anche e in modo cruciale, quanto più si affrancano dai bisogni primari, condizionamenti sociali e morali3.

Si tratta di una interpretazione dei comportamenti umani che, con maggiore enfasi, John Maynard Keynes aveva empiricamente sottolineato pronunciando la storica frase “sono le idee più che gli interessi ad agitare il mondo” e, ancora, che è necessario “escogitare un’organizzazione sociale quanto più possibile efficiente che però non offenda la nostra idea di un soddisfacente stile di vita”4.

Probabilmente, si è in una fase della riflessione in cui, pur convinti che il denaro non è tutto, si stenti a comprendere come fare a verificare l’efficacia delle politiche economiche e sociali da mettere in campo al fine di aumentare la felicità degli individui, avendo verificato che il suggestivo ma improbabile edonimetro, ipotizzato da Francis Ysidro Edgeworth, non è stato mai costruito5.

 

 

L’ottavo fattore

 

Come la politica si propone di operare attraverso l’economia per perseguire il benessere delle popolazioni, che abbiamo visto essere sempre più derivante dalla loro sensazione di felicità, l’economia deve rispondere organizzando l’interazione fra gli individui in modo da favorire e non minare tale sensazione.

L’economia, a sua volta, opera mediante l’urbanistica per governare il territorio, predisponendone la forma, i caratteri, le funzioni, affinché gli individui ne siano appagati, offrendo una prima base di soddisfazione, forse indispensabile al dispiegamento positivo degli altri sette fattori enunciati da Layard.

Ciò a esplicitazione del fattore comunità, che concettualmente assume anche la valenza di spazio di relazione.

Come l’economia con il Pil, nel ’900, l’urbanistica ha ritenuto che le città, luogo di massima concentrazione delle popolazioni nei paesi sviluppati, dovessero essere misurate attraverso quantità che fornissero il potenziale soddisfacimento di superfici, di varia natura, a servizio degli individui nel loro complesso.

Superfici per parcheggi, verde, vita di relazione, salute, formazione, sport, abitare.

L’operatore burocratico, benevolo e virtuoso, puntuale e intransigente, sarebbe dovuto essere il progetto urbanistico e, in particolare, il piano regolatore generale.

L’edonimetro, per gli urbanisti, esisteva ed era costituito da un dettagliato meccanismo di dimensionamento, proporzionamento e localizzazione di funzioni urbane.

La storia dell’urbanistica ha già detto e continuerà a dire sul ’900 e sulle trasformazioni delle città che in quel secolo sono intervenute, travolgenti e inattese ancora nella prima metà dello stesso.

Non si ha, in questa sede, la presunzione di giudicare un secolo di sviluppo urbano e neanche quella seconda metà del ’900 che è più familiare ai pianificatori di mezza età, essendovi nati, cresciuti, acculturati e avendovi direttamente operato.

Facciamo un balzo al di là dello specchio, che ingannevolmente si limita a riflettere noi stessi e ciò che si sperava avvenisse, in modo da trovarci non nel territorio che avrebbe dovuto essere, nelle previsioni disegnate e parzialmente attuate e, comunque, sempre incessantemente auspicate, ma in quello che è nella realtà.

Approdiamo in un territorio dei conflitti vissuti quotidianamente e spericolatamente a tutti i livelli: condominiali, di vicinato, urbani, territoriali.

Conflitti micro e macro urbanistici.

Viviamo una diffusa e radicata infelicità nel vivere, nel condividere e nell’accettare il territorio. Ma come è potuto accadere?

 

 

Il territorio rifiutato

 

Il primo decennio del duemila si apre con l’esplodere di forti tensioni sociali, imputabili al difficile rapporto delle popolazioni con il territorio che abitano.

Nimby Forum6, l’osservatorio dei contenziosi locali al quale aderiscono le aziende e le istituzioni più coinvolte dal rifiuto popolare dei progetti di rilevanti trasformazioni urbanistiche, annovera ben centonovanta contestazioni censite in tutta Italia, di cui oltre la metà esplose nel corso del 2005 (Box 2, 3).

Box 2 

 

Box 3 

Elettrodotti, impianti di trattamento rifiuti, infrastrutture stradali e ferroviaria, parchi eolici sono percepiti dalle popolazioni locali quali detrattori di qualità ambientali e causa di pesanti diseconomie.

In alcuni casi7, le amministrazioni comunali dei territori coinvolti nei progetti di intervento hanno ricevuto contributi compensativi rilevanti, pari a diverse volte l’ammontare dei propri bilanci annuali, che hanno consentito di realizzare scuole, acquedotti, fognature, strade e strutture sociali.

Ma spesso, ciò non è sufficiente a mutare la percezione comunque negativa che i suddetti interventi inducono, tant’è che dalla nimby8 si sta scivolando nella sindrome banana9.

Gli scenari futuri si presentano, quindi, incerti e forieri di tensioni sociali e politiche, solo se si pensi al gigantesco problema che l’Italia ha sul versante dell’approvvigionamento energetico, settore in cui è quasi totalmente subalterna verso l’estero, e della necessità di disporre delle relative infrastrutture di produzione e trasporto.

Sul versante del governo dell’economia italiana, le strategie unanimemente condivise per la ripresa della crescita, in particolare nelle aree in ritardo di sviluppo e di declino produttivo, si basano su quattro punti chiave: rilancio dello sviluppo industriale; fiscalità di vantaggio; efficientizzazione e sburocratizzazione della pubblica amministrazione; ammodernamento e potenziamento del sistema infrastrutturale.

I fenomeni di insorgenza sociale frappongono oggettivamente ostacoli, a cominciare dall’accumulo di ritardi temporali, all’attuazione dell’ultima politica, di fatto procrastinando se non impedendo la realizzazione di beni pubblici, quindi, il vitale incremento di capitale sociale.

In tali fenomeni è immediato ritrovare fermenti culturali e azioni militanti collegati alla dimensione politica dell’antagonismo, come rigetto di qualsiasi intervento che abbia a che fare con l’economia di mercato, di fatto, con tutto ciò che riguardi l’attuale organizzazione del mondo occidentale sviluppato.

Ma si tratta di componenti marginali, di cui, tuttavia, se ne dovrà tenere conto in maniera stabile nel futuro, in una prospettiva di lungo periodo.

La componente numericamente preponderante che anima i fenomeni di insorgenza sociale è costituita, viceversa, da individui spinti da motivazioni non ideologiche ma del tutto pratiche.

I comportamenti che ne derivano, peraltro, non sono più inquadrati dalla diuturna attività di mediazione di massa che fu propria dei partiti politici dal secondo dopoguerra all’inizio degli anni ’90, interrotta dal deflagrare di tangentopoli, che ne decretò, anche se con modalità e tempi diversi, la irreversibile implosione.

Non esistono più, infatti, forme di rappresentanze popolari stabili e organizzate, in grado di trasformare i punti di crisi in occasioni di crescita, dalle quali la gran parte dei ceti sociali traevano, alternativamente, giovamento.

In tale scenario, le popolazioni insediate si alimentano correntemente, nelle fasi di episodica aggregazione su questioni emergenti, della cultura e della pratica del localismo.

Un localismo animato da due componenti preponderanti, che generano altrettante forme di paura: il timore per la salute della collettività; il timore per l’alterazione del rapporto consolidato con il suolo, instaurato dai suoi utilizzatori.

Generalmente, il primo timore, più comprensibile e divulgabile, oltre che pienamente legittimo, è paradossalmente anche il più risolvibile.

Mitigare è possibile e doveroso.

Le insorgenze popolari trovano, su tali terreni, convinta solidarietà e diffusi sostegni, riscuotendo ampie convergenze di interessi.

L’atro timore è il più insidioso e dannoso per la collettività, in quanto sottende una cultura localistica, intesa nei suoi aspetti più contraddittori e, talvolta, deleteri.

La componente contraddittoria deriva dalla sensazione che la società locale ha di sentirsi “improvvisamente più libera, meno vincolata dal vecchio localismo, mentre altri soggetti si affacciano a competere con esso sul suo territorio. Le relazioni sociali si allungano nello spazio metropolitano, perdono di autonomia locale ed entrano progressivamente in più elevati gradi di interdipendenza e in più complicate connessioni di rete. Così accade per i differenti livelli di potere, che si affiancano, intersecano e forse soffocano il potere locale: qualcuno, alla fine, conterà di più e forse avrà sensibilità meno avvertite per le esigenze locali.

Probabilmente, è destinato a scomparire o a mutare profondamente di segno il vecchio localismo professionale, quell’identità obbligata che Marx chiamava l’idiotismo del villaggio, una forte e a volte insuperabile barriera psicologica e culturale alla mobilità del lavoro, ai movimenti sul territorio, all’uscita e al cambiamento della propria condizione di vita e di lavoro. L’allargamento delle reti relazionali e delle interdipendenze funzionali fa crescere la divisione e la ricchezza dei lavori, aumenta le possibilità di un lavoro scelto rispetto ad uno obbligato, muta e articola l’identità locale, fornisce nuove identità e identità plurali”10.

La componente deleteria si oppone alle trasformazioni urbanistiche indotte dall’infrastrutturazione del territorio, in quanto alteratrici della condizione di asservimento del suolo a esigenze privatistiche.

Tale asservimento ha determinato, nell’ultimo mezzo secolo, crescite abnormi e incontrollate di periferie, travasi a macchia d’olio di popolazioni su territori agricoli, sprowl galoppante dei tessuti edilizi, frammentazione degli aggregati urbani.

Oggi è impossibile, in gran parte d’Italia, a partire dal Mezzogiorno, individuare il tracciato di una ferrovia o di una strada progettata a raso in aree prevalentemente pianeggianti, senza impattare continuativamente in una edificazione diffusa e incontrollata.

Gli esiti di questa seconda componente, di cui si alimenta la cultura localistica, sono la mancata realizzazione di beni pubblici, quindi, lo sgretolamento progressivo di ogni forma di organizzazione sociale, di solidarietà interpersonale, di speranza di progresso civile.

È questa una tesi, ampiamente controcorrente, ma che trova le sue giustificazioni nel distorto e illegale rapporto rilevabile, in particolare nel Mezzogiorno, fra le popolazioni locali e il territorio, che si sostanziano in una massa preoccupante di comportamenti illegali, sia sul fronte dell’abusivismo edilizio, sia del rispetto ambientale.

La vicenda è emblematica, in particolare sul primo versante, per il quale è dimostrata la gravità del fenomeno.

In Campania ha sede il 19,23% delle 40mila costruzioni abusive censite per il 2003 a livello nazionale.

Una leadership incontrastata cui fanno seguito il 13,8% della Sicilia e l’11,1% della Puglia.

Calabria, Basilicata e Sardegna fanno registrare insieme il 22,4% del fenomeno.

L’intera Italia centrale, da sola, raccoglie appena il 12,44%, il nord-ovest il 10,11% e il nord-est il 9,60% del totale dell’abusivismo, che si concentra, quindi, soprattutto nelle quattro regioni a forte presenza della criminalità organizzata di stampo mafioso, con oltre il 55% delle costruzioni11.

Ma anche l’illegalità ambientale e l’ecocriminalità sono capillarmente diffuse e offrono scenari inquietanti di forme aberranti di convivenza civile che si alimentano della componente perversa del localismo (Tabella 1).

Tabella 1

 

Non c’è da stupirsi se le periodiche classifiche sulla qualità della vita vedono convergere negli ultimi posti, con qualche eccezioni per le realtà sarde, in maniera compatta i territori provinciali del Mezzogiorno.

Quale felicità può derivare da uno stato di salute così preoccupante del territorio? Probabilmente nessuna, sia da parte di chi si sente prevaricato, sia di chi tende ad asservirlo ad un uso personalistico, ancorché illegale.

 

 

I conflitti e le loro soluzioni

 

Vi sono posizioni culturali che vedono, nei conflitti per la realizzazione di grandi infrastrutture, la ribellione verso il mostro statuale o, comunque, verso la variegata espressione del potere costituito da parte di popolazioni subalterne in rivolta.

Per esse, la soluzione sarebbe rappresentata dal dispiegarsi di una democrazia dal basso, di una sorta di autodeterminazione delle scelte di assetto territoriale, compreso il diritto di veto.

Altri la interpretano come fallimento della politica di mediazione fra gli interessi in gioco e invocano una ripresa di dialogo ex post, al fine di verificare le possibili soluzioni.

Altri ancora ritengono necessario riformulare le ipotesi di intervento sul territorio, qualora foriere di insolubili contrasti, ripercorrendo le fasi della progettazione in maniera partecipata.

Sono molto pochi coloro che sostengono la necessità di ricorrere alla formulazione corrente e processuale di politiche di assetto del territorio, in continua evoluzione per adeguarsi alle esigenze delle popolazioni amministrate.

La potenziale evolvibilità delle scelte non deve corrispondere, tuttavia, ad una condizione di perenne e destabilizzante precarietà decisionale.

Al contrario, si deve contraddistinguere per certezza e autorevolezza delle soluzioni, che vanno attuate e rispettate sino a quando non se ne formulino delle migliori, che solo a quel punto, sostituiranno nell’efficacia operativa le precedenti.

In situazioni di potenziale conflitto che riguardino i futuri assetti territoriali, come suggerisce Thomas C. Schelling12, è probabilmente indispensabile un committment, vale a dire tracciare una linea, la quale deve essere percepita come di riferimento per le popolazioni locali in quanto da esse scelta nel rispetto delle regole di partecipazione democratica, così come previste dall’ordinamento.

Ciò comporta due rivoluzioni concettuali e comportamentali, quasi banali a enunciarsi ma altrettanto difficoltose ad applicarsi.

La politica deve riuscire a rappresentare nelle sedi competenti, coincidenti con le assemblee elettive, gli interessi delle popolazioni da cui ha ricevuto il mandato elettorale, deliberando sugli assetti territoriali in modo chiaro ed esplicito, riabituandosi ad una pratica impegnativa e rischiosa cui ha progressivamente abdicato nel corso degli ultimi anni, ricorrendo ad una infinità di sotterfugi derogatori, in nome di una ingannevole semplificazione.

L’urbanistica deve riuscire a porsi questioni che riguardano i bisogni correnti delle popolazioni, fuoriuscendo sia dall’astrattezza della tradizione, sia dalla materialità aziendale del fare ad ogni costo, tipico dell’ultimo decennio.

Può essere questa una prospettiva mediana per tentare di essere meno infelici?!?

 

 

Note

 

1 Simon Smith Kuznets, economista e statistico russo naturalizzato statunitense (Harkov, Ucraina, 1901 - Cambridge, Massachusetts, 1985). Docente nelle università di Pennsylvania (1936), J. Hopkins (1954-60) e Harvard (1960), fu consulente economico di vari comitati nazionali. Nel 1971 ricevette il premio Nobel per l’economia, per avere più di ogni altro studioso contribuito con fatti e dati concreti ad analizzare lo sviluppo economico di un arco di tempo che, partendo dalla metà dell’Ottocento copriva circa un secolo. Fondamentali restano le sue ricerche sulla formazione del reddito e la sua misurazione statistica (National Income and its Composition, 1941; National Product Since 1869, 1946; Modern Economic Growth, 1966; Economic Growth of Nations, 1971).

2 Happiness. Lessons from the new science. Traduzione in italiano, Felicità, Rizzoli, Milano 2005.

3 Steven D. Levitt, con Stephen J. Dubner, Freakonomics. Il calcolo dell’incalcolabile, Sperling & Kupfer, Milano 2005.

4 Giacomo Beccatini, Per un capitalismo dal volto umano, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

5 Francis Ysidro Edgeworth, economista inglese (1845-1926), appartenente alla scuola marginalista, diede un notevole impulso alla statistica metodologica (Psichica matematica, 1881; Scritti sull’economia politica, 1925). In Psichica matematica (1881), Edgeworth immagina l’esistenza di una macchina – anche se poi riconosce la difficoltà di costruirne realmente una – chiamata “edonimetro”, capace di misurare il piacere che un essere umano può provare, messo di fronte ad un qualsiasi bene.

6 Organismo costituito da Allea di Milano, Ministero dell’Ambiente (in veste di patrocinatore), Fs, Impregilo, Assoelettrica, aziende di nettezza urbana e imprese del trattamento dei rifiuti, Tav, Terna, ecc.

7 La variante di valico, l’invaso di Bilancino e l’alta velocità, le prime due interamente comprese nei confini di Barberino del Mugello, la terza d’impatto diretto sugli altri comuni viciniori (Vaglia, S. Piero a Sieve, Borgo S. Lorenzo, Scarperia e Firenzuola), sono state in grado di far affluire risorse finanziarie e interventi infrastrutturali sull’intera area.

Nelle casse comunali di Barberino del Mugello è prevista l’entrata di 41 milioni di euro di contributi: 23, nell’ambito dell’accordo siglato dalle amministrazioni comunali per il tracciato dell’alta velocità, e 18, uno per ogni chilometro, per la realizzazione della variante di valico.

8 La sigla nimby è ormai un simbolo che forse superfluamente ricordiamo significare “not in my backyard”, non nel mio giardino.

9 La sigla banana, più recente e meno diffusa di nimby, significa “build absolutely nothing anywhere near anything”, non costruire assolutamente nulla in nessun luogo vicino a niente.

10 Paolo Giovannoni e Angela Perulli, Alta velocità e società locale in un’area della Toscana: per uno studio del mutamento sociale”, in Sviluppo locale, vol. X, n. 23-24 (II-III/2003), pag. 216.

11 Legambiente, rapporto Ambiente Italia 2005.

12 Premio Nobel per l’economia 2005, assegnato per i rilevanti contributi sui temi della complessità dei processi di interazione sociale e degli esiti spesso imprevedibili a priori cui essi possono condurre in determinate circostanze.

 

 

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