La ricchezza degli individui
La madre di tutte le scienze sociali
applicate, che può a ben vedere essere
considerata la politica, va
riscoprendo, a far data dagli anni ’90 del
secolo scorso, l’importanza della felicità
nella vita delle popolazioni, affidando al
suo braccio operativo, l’economia, le
modalità più efficaci al fine di
perseguirla.
Lo avevano già intuito e offerto al mondo
globale dell’epoca, con approccio fra il
romantico ed il pragmatico, gli estensori
della Dichiarazione di Indipendenza degli
Stati Uniti d’America, allorquando,
nell’elencare i diritti inalienabili dei
singoli individui, annoverarono la
pursuit of happiness.
Il ’900, marxista e storicista, non la prese
granché in considerazione, considerandola
un’amerikanata o, come si diceva
all’epoca, una sovrastruttura che
nulla poteva spiegare rispetto all’analisi
scientifica ed impietosa dei rapporti di
produzione e dell’articolazione della
società in classi.
Dagli anni ’30, quando, per quantificare lo
sviluppo delle nazioni e delle loro
economie, fu ideato il concetto di prodotto
interno lordo (Pil) dall’economista Simon
Kuznets1, che fu al tempo stesso
il primo critico della sua pratica
utilizzazione, esso è stato incessantemente
adoperato dai moderni governi del pianeta
per valutare, confrontare, giustificare le
politiche da mettere in atto per
incrementare il benessere delle popolazioni
e, conseguentemente, la loro felicità.
Non mancarono, quindi, le osservazioni di
natura tecnica nei confronti di un
indicatore del tipo ad ombrello, cui
era efficacemente applicabile la statistica
dei polli di Trilussa.
Un personaggio cult per la
generazione dei beby boomers, Robert
Kennedy, ne evidenziò indimenticabilmente i
limiti, concludendo come il “prodotto
nazionale … misura tutto, salvo quello che
rende la vita degna di essere vissuta” (Box
1).
Richard Layard sostiene che l’economia debba
porsi, come obiettivo principale, non più la
crescita del Pil ma il benessere delle
persone, la felicità dei singoli individui2.
Egli è convinto che il paradigma felicità
uguale potere d’acquisto non sia più
sufficiente, alla stregua della teoria
derivata dall’evoluzionismo di Charles
Darwin e di Adam Smith, che facevano
coincidere nell’egoismo individuale la
regola virtuosa per il raggiungimento del
benessere collettivo.
Rivalutando l’utilitarismo di Jeremy Bentham,
Layard ritiene che la felicità non sia più
solo un momento d’introspezione psicologica,
una questione eminentemente personale e
caratteriale, ma un criterio organizzatore,
un obiettivo politico dei governi.
Infatti, in una società complessa e
sviluppata, quale quella occidentale, le
azioni degli individui nella vita quotidiana
obbediscono alle motivazioni più varie.
Layard individua sette fattori che
prioritariamente influiscono sulla felicità:
relazioni familiari, situazione finanziaria,
lavoro, comunità e amici, salute, libertà
personale, valori personali.
In definitiva, le persone non vivono
perseguendo solo risultati economici, ma
anche e in modo cruciale, quanto più si
affrancano dai bisogni primari,
condizionamenti sociali e morali3.
Si tratta di una interpretazione dei
comportamenti umani che, con maggiore
enfasi, John Maynard Keynes aveva
empiricamente sottolineato pronunciando la
storica frase “sono le idee più che gli
interessi ad agitare il mondo” e, ancora,
che è necessario “escogitare
un’organizzazione sociale quanto più
possibile efficiente che però non offenda la
nostra idea di un soddisfacente stile di
vita”4.
Probabilmente, si è in una fase della
riflessione in cui, pur convinti che il
denaro non è tutto, si stenti a
comprendere come fare a verificare
l’efficacia delle politiche economiche e
sociali da mettere in campo al fine di
aumentare la felicità degli individui,
avendo verificato che il suggestivo ma
improbabile edonimetro, ipotizzato da
Francis Ysidro Edgeworth, non è stato mai
costruito5.
L’ottavo fattore
Come la politica si propone di operare
attraverso l’economia per perseguire il
benessere delle popolazioni, che abbiamo
visto essere sempre più derivante dalla loro
sensazione di felicità, l’economia deve
rispondere organizzando l’interazione fra
gli individui in modo da favorire e non
minare tale sensazione.
L’economia, a sua volta, opera mediante
l’urbanistica per governare il territorio,
predisponendone la forma, i caratteri, le
funzioni, affinché gli individui ne siano
appagati, offrendo una prima base di
soddisfazione, forse indispensabile al
dispiegamento positivo degli altri sette
fattori enunciati da Layard.
Ciò a esplicitazione del fattore comunità,
che concettualmente assume anche la valenza
di spazio di relazione.
Come l’economia con il Pil, nel ’900,
l’urbanistica ha ritenuto che le città,
luogo di massima concentrazione delle
popolazioni nei paesi sviluppati, dovessero
essere misurate attraverso quantità che
fornissero il potenziale soddisfacimento di
superfici, di varia natura, a servizio degli
individui nel loro complesso.
Superfici per parcheggi, verde, vita di
relazione, salute, formazione, sport,
abitare.
L’operatore burocratico, benevolo e
virtuoso, puntuale e intransigente, sarebbe
dovuto essere il progetto urbanistico e, in
particolare, il piano regolatore generale.
L’edonimetro, per gli urbanisti,
esisteva ed era costituito da un dettagliato
meccanismo di dimensionamento,
proporzionamento e localizzazione di
funzioni urbane.
La storia dell’urbanistica ha già detto e
continuerà a dire sul ’900 e sulle
trasformazioni delle città che in quel
secolo sono intervenute, travolgenti e
inattese ancora nella prima metà dello
stesso.
Non si ha, in questa sede, la presunzione di
giudicare un secolo di sviluppo urbano e
neanche quella seconda metà del ’900 che è
più familiare ai pianificatori di mezza età,
essendovi nati, cresciuti, acculturati e
avendovi direttamente operato.
Facciamo un balzo al di là dello specchio,
che ingannevolmente si limita a riflettere
noi stessi e ciò che si sperava avvenisse,
in modo da trovarci non nel territorio che
avrebbe dovuto essere, nelle previsioni
disegnate e parzialmente attuate e,
comunque, sempre incessantemente auspicate,
ma in quello che è nella realtà.
Approdiamo in un territorio dei conflitti
vissuti quotidianamente e spericolatamente a
tutti i livelli: condominiali, di vicinato,
urbani, territoriali.
Conflitti micro e macro
urbanistici.
Viviamo una diffusa e radicata infelicità
nel vivere, nel condividere e nell’accettare
il territorio. Ma come è potuto accadere?
Il territorio rifiutato
Il primo decennio del duemila si apre con
l’esplodere di forti tensioni sociali,
imputabili al difficile rapporto delle
popolazioni con il territorio che abitano.
Nimby Forum6, l’osservatorio dei
contenziosi locali al quale aderiscono le
aziende e le istituzioni più coinvolte dal
rifiuto popolare dei progetti di rilevanti
trasformazioni urbanistiche, annovera ben
centonovanta contestazioni censite in tutta
Italia, di cui oltre la metà esplose nel
corso del 2005 (Box 2, 3).
Elettrodotti, impianti di trattamento
rifiuti, infrastrutture stradali e
ferroviaria, parchi eolici sono percepiti
dalle popolazioni locali quali detrattori di
qualità ambientali e causa di pesanti
diseconomie.
In alcuni casi7, le
amministrazioni comunali dei territori
coinvolti nei progetti di intervento hanno
ricevuto contributi compensativi rilevanti,
pari a diverse volte l’ammontare dei propri
bilanci annuali, che hanno consentito di
realizzare scuole, acquedotti, fognature,
strade e strutture sociali.
Ma spesso, ciò non è sufficiente a mutare la
percezione comunque negativa che i suddetti
interventi inducono, tant’è che dalla
nimby8 si sta scivolando
nella sindrome banana9.
Gli scenari futuri si presentano, quindi,
incerti e forieri di tensioni sociali e
politiche, solo se si pensi al gigantesco
problema che l’Italia ha sul versante
dell’approvvigionamento energetico, settore
in cui è quasi totalmente subalterna verso
l’estero, e della necessità di disporre
delle relative infrastrutture di produzione
e trasporto.
Sul versante del governo dell’economia
italiana, le strategie unanimemente
condivise per la ripresa della crescita, in
particolare nelle aree in ritardo di
sviluppo e di declino produttivo, si basano
su quattro punti chiave: rilancio dello
sviluppo industriale; fiscalità di
vantaggio; efficientizzazione e
sburocratizzazione della pubblica
amministrazione; ammodernamento e
potenziamento del sistema infrastrutturale.
I fenomeni di insorgenza sociale frappongono
oggettivamente ostacoli, a cominciare
dall’accumulo di ritardi temporali,
all’attuazione dell’ultima politica, di
fatto procrastinando se non impedendo la
realizzazione di beni pubblici, quindi, il
vitale incremento di capitale sociale.
In tali fenomeni è immediato ritrovare
fermenti culturali e azioni militanti
collegati alla dimensione politica
dell’antagonismo, come rigetto di qualsiasi
intervento che abbia a che fare con
l’economia di mercato, di fatto, con tutto
ciò che riguardi l’attuale organizzazione
del mondo occidentale sviluppato.
Ma si tratta di componenti marginali, di
cui, tuttavia, se ne dovrà tenere conto in
maniera stabile nel futuro, in una
prospettiva di lungo periodo.
La componente numericamente preponderante
che anima i fenomeni di insorgenza sociale è
costituita, viceversa, da individui spinti
da motivazioni non ideologiche ma del tutto
pratiche.
I comportamenti che ne derivano, peraltro,
non sono più inquadrati dalla diuturna
attività di mediazione di massa che fu
propria dei partiti politici dal secondo
dopoguerra all’inizio degli anni ’90,
interrotta dal deflagrare di tangentopoli,
che ne decretò, anche se con modalità e
tempi diversi, la irreversibile implosione.
Non esistono più, infatti, forme di
rappresentanze popolari stabili e
organizzate, in grado di trasformare i punti
di crisi in occasioni di crescita, dalle
quali la gran parte dei ceti sociali
traevano, alternativamente, giovamento.
In tale scenario, le popolazioni insediate
si alimentano correntemente, nelle fasi di
episodica aggregazione su questioni
emergenti, della cultura e della pratica del
localismo.
Un localismo animato da due componenti
preponderanti, che generano altrettante
forme di paura: il timore per la salute
della collettività; il timore per
l’alterazione del rapporto consolidato con
il suolo, instaurato dai suoi utilizzatori.
Generalmente, il primo timore, più
comprensibile e divulgabile, oltre che
pienamente legittimo, è paradossalmente
anche il più risolvibile.
Mitigare è possibile e doveroso.
Le insorgenze popolari trovano, su tali
terreni, convinta solidarietà e diffusi
sostegni, riscuotendo ampie convergenze di
interessi.
L’atro timore è il più insidioso e dannoso
per la collettività, in quanto sottende una
cultura localistica, intesa nei suoi aspetti
più contraddittori e, talvolta, deleteri.
La componente contraddittoria deriva dalla
sensazione che la società locale ha di
sentirsi “improvvisamente più libera, meno
vincolata dal vecchio localismo, mentre
altri soggetti si affacciano a competere con
esso sul suo territorio. Le relazioni
sociali si allungano nello spazio
metropolitano, perdono di autonomia locale
ed entrano progressivamente in più elevati
gradi di interdipendenza e in più complicate
connessioni di rete. Così accade per i
differenti livelli di potere, che si
affiancano, intersecano e forse soffocano il
potere locale: qualcuno, alla fine, conterà
di più e forse avrà sensibilità meno
avvertite per le esigenze locali.
Probabilmente, è destinato a scomparire o a
mutare profondamente di segno il vecchio
localismo professionale, quell’identità
obbligata che Marx chiamava l’idiotismo del
villaggio, una forte e a volte insuperabile
barriera psicologica e culturale alla
mobilità del lavoro, ai movimenti sul
territorio, all’uscita e al cambiamento
della propria condizione di vita e di
lavoro. L’allargamento delle reti
relazionali e delle interdipendenze
funzionali fa crescere la divisione e la
ricchezza dei lavori, aumenta le possibilità
di un lavoro scelto rispetto ad uno
obbligato, muta e articola l’identità
locale, fornisce nuove identità e identità
plurali”10.
La componente deleteria si oppone alle
trasformazioni urbanistiche indotte dall’infrastrutturazione
del territorio, in quanto alteratrici della
condizione di asservimento del suolo a
esigenze privatistiche.
Tale asservimento ha determinato,
nell’ultimo mezzo secolo, crescite abnormi e
incontrollate di periferie, travasi a
macchia d’olio di popolazioni su territori
agricoli, sprowl galoppante dei
tessuti edilizi, frammentazione degli
aggregati urbani.
Oggi è impossibile, in gran parte d’Italia,
a partire dal Mezzogiorno, individuare il
tracciato di una ferrovia o di una strada
progettata a raso in aree prevalentemente
pianeggianti, senza impattare
continuativamente in una edificazione
diffusa e incontrollata.
Gli esiti di questa seconda componente, di
cui si alimenta la cultura localistica, sono
la mancata realizzazione di beni pubblici,
quindi, lo sgretolamento progressivo di ogni
forma di organizzazione sociale, di
solidarietà interpersonale, di speranza di
progresso civile.
È questa una tesi, ampiamente
controcorrente, ma che trova le sue
giustificazioni nel distorto e illegale
rapporto rilevabile, in particolare nel
Mezzogiorno, fra le popolazioni locali e il
territorio, che si sostanziano in una massa
preoccupante di comportamenti illegali, sia
sul fronte dell’abusivismo edilizio, sia del
rispetto ambientale.
La vicenda è emblematica, in particolare sul
primo versante, per il quale è dimostrata la
gravità del fenomeno.
In Campania ha sede il 19,23% delle 40mila
costruzioni abusive censite per il 2003 a
livello nazionale.
Una leadership incontrastata cui fanno
seguito il 13,8% della Sicilia e l’11,1%
della Puglia.
Calabria, Basilicata e Sardegna fanno
registrare insieme il 22,4% del fenomeno.
L’intera Italia centrale, da sola, raccoglie
appena il 12,44%, il nord-ovest il 10,11% e
il nord-est il 9,60% del totale
dell’abusivismo, che si concentra, quindi,
soprattutto nelle quattro regioni a forte
presenza della criminalità organizzata di
stampo mafioso, con oltre il 55% delle
costruzioni11.
Ma anche l’illegalità ambientale e l’ecocriminalità
sono capillarmente diffuse e offrono scenari
inquietanti di forme aberranti di convivenza
civile che si alimentano della componente
perversa del localismo (Tabella 1).
Non c’è da stupirsi se le periodiche
classifiche sulla qualità della vita vedono
convergere negli ultimi posti, con qualche
eccezioni per le realtà sarde, in maniera
compatta i territori provinciali del
Mezzogiorno.
Quale felicità può derivare da uno stato di
salute così preoccupante del territorio?
Probabilmente nessuna, sia da parte di chi
si sente prevaricato, sia di chi tende ad
asservirlo ad un uso personalistico,
ancorché illegale.
I conflitti e le loro soluzioni
Vi sono posizioni culturali che vedono, nei
conflitti per la realizzazione di grandi
infrastrutture, la ribellione verso il
mostro statuale o, comunque, verso la
variegata espressione del potere costituito
da parte di popolazioni subalterne in
rivolta.
Per esse, la soluzione sarebbe rappresentata
dal dispiegarsi di una democrazia dal
basso, di una sorta di
autodeterminazione delle scelte di assetto
territoriale, compreso il diritto di veto.
Altri la interpretano come fallimento della
politica di mediazione fra gli interessi in
gioco e invocano una ripresa di dialogo
ex post, al fine di verificare le
possibili soluzioni.
Altri ancora ritengono necessario
riformulare le ipotesi di intervento sul
territorio, qualora foriere di insolubili
contrasti, ripercorrendo le fasi della
progettazione in maniera partecipata.
Sono molto pochi coloro che sostengono la
necessità di ricorrere alla formulazione
corrente e processuale di politiche di
assetto del territorio, in continua
evoluzione per adeguarsi alle esigenze delle
popolazioni amministrate.
La potenziale evolvibilità delle
scelte non deve corrispondere, tuttavia, ad
una condizione di perenne e destabilizzante
precarietà decisionale.
Al contrario, si deve contraddistinguere per
certezza e autorevolezza delle soluzioni,
che vanno attuate e rispettate sino a quando
non se ne formulino delle migliori, che solo
a quel punto, sostituiranno nell’efficacia
operativa le precedenti.
In situazioni di potenziale conflitto che
riguardino i futuri assetti territoriali,
come suggerisce Thomas C. Schelling12,
è probabilmente indispensabile un
committment, vale a dire tracciare
una linea, la quale deve essere
percepita come di riferimento per le
popolazioni locali in quanto da esse scelta
nel rispetto delle regole di partecipazione
democratica, così come previste
dall’ordinamento.
Ciò comporta due rivoluzioni concettuali e
comportamentali, quasi banali a enunciarsi
ma altrettanto difficoltose ad applicarsi.
La politica deve riuscire a rappresentare
nelle sedi competenti, coincidenti con le
assemblee elettive, gli interessi delle
popolazioni da cui ha ricevuto il mandato
elettorale, deliberando sugli assetti
territoriali in modo chiaro ed esplicito,
riabituandosi ad una pratica impegnativa e
rischiosa cui ha progressivamente abdicato
nel corso degli ultimi anni, ricorrendo ad
una infinità di sotterfugi derogatori, in
nome di una ingannevole semplificazione.
L’urbanistica deve riuscire a porsi
questioni che riguardano i bisogni correnti
delle popolazioni, fuoriuscendo sia
dall’astrattezza della tradizione, sia dalla
materialità aziendale del fare ad ogni
costo, tipico dell’ultimo decennio.
Può essere questa una prospettiva mediana
per tentare di essere meno infelici?!?
Note
1
Simon Smith Kuznets, economista e statistico
russo naturalizzato statunitense (Harkov,
Ucraina, 1901 - Cambridge, Massachusetts,
1985). Docente nelle università di
Pennsylvania (1936), J. Hopkins (1954-60) e
Harvard (1960), fu consulente economico di
vari comitati nazionali. Nel 1971 ricevette
il premio Nobel per l’economia, per avere
più di ogni altro studioso contribuito con
fatti e dati concreti ad analizzare lo
sviluppo economico di un arco di tempo che,
partendo dalla metà dell’Ottocento copriva
circa un secolo. Fondamentali restano le sue
ricerche sulla formazione del reddito e la
sua misurazione statistica (National
Income and its Composition, 1941;
National Product Since 1869, 1946;
Modern Economic Growth, 1966;
Economic Growth of Nations, 1971).
2
Happiness. Lessons from the new science.
Traduzione in italiano, Felicità, Rizzoli,
Milano 2005.
3
Steven D. Levitt, con Stephen J. Dubner,
Freakonomics.
Il calcolo dell’incalcolabile, Sperling &
Kupfer, Milano 2005.
4
Giacomo Beccatini, Per un capitalismo dal
volto umano, Bollati Boringhieri, Torino
2004.
5
Francis Ysidro Edgeworth, economista inglese
(1845-1926), appartenente alla scuola
marginalista, diede un notevole impulso alla
statistica metodologica (Psichica
matematica, 1881; Scritti sull’economia
politica, 1925). In Psichica matematica
(1881), Edgeworth immagina l’esistenza di
una macchina – anche se poi riconosce la
difficoltà di costruirne realmente una –
chiamata “edonimetro”, capace di misurare il
piacere che un essere umano può provare,
messo di fronte ad un qualsiasi bene.
6
Organismo costituito da Allea di Milano,
Ministero dell’Ambiente (in veste di
patrocinatore), Fs, Impregilo, Assoelettrica,
aziende di nettezza urbana e imprese del
trattamento dei rifiuti, Tav, Terna, ecc.
7
La variante di valico, l’invaso di Bilancino
e l’alta velocità, le prime due interamente
comprese nei confini di Barberino del
Mugello, la terza d’impatto diretto sugli
altri comuni viciniori (Vaglia, S. Piero a
Sieve, Borgo S. Lorenzo, Scarperia e
Firenzuola), sono state in grado di far
affluire risorse finanziarie e interventi
infrastrutturali sull’intera area.
Nelle casse comunali di Barberino del
Mugello è prevista l’entrata di 41 milioni
di euro di contributi: 23, nell’ambito
dell’accordo siglato dalle amministrazioni
comunali per il tracciato dell’alta
velocità, e 18, uno per ogni chilometro, per
la realizzazione della variante di valico.
8
La sigla nimby è ormai un simbolo che
forse superfluamente ricordiamo significare
“not in my backyard”, non nel mio giardino.
9
La sigla banana, più recente e meno
diffusa di nimby, significa “build
absolutely nothing anywhere near anything”,
non costruire assolutamente nulla in nessun
luogo vicino a niente.
10
Paolo Giovannoni e Angela Perulli, Alta
velocità e società locale in un’area della
Toscana: per uno studio del mutamento
sociale”, in Sviluppo locale, vol. X, n.
23-24 (II-III/2003), pag. 216.
11
Legambiente, rapporto Ambiente Italia
2005.
12
Premio Nobel per l’economia 2005, assegnato
per i rilevanti contributi sui temi della
complessità dei processi di interazione
sociale e degli esiti spesso imprevedibili a
priori cui essi possono condurre in
determinate circostanze. |