Numero 10/11 - 2005

 

Le tesi di laurea  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

Presentazione

Sommario

Editoriale

Osservatorio Europa

Osservatorio Italia

Osservatorio Campania

La provincia di Salerno

Le province campane

Università e Ricerca

Antologia

Recensioni

Giurisprudenza

 Autori del numero

 Home

 

In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riqualificare le periferie per ripensare le città


Maria Rosaria Fiorente


 

Non si può pensare nè progettare la città contemporanea eludendo la questione della periferia residenziale pubblica che, per peso demografico e impatto ambientale, rappresenta uno dei segni distintivi dell’urbanistica e della città italiana del XX secolo. Maria Rosaria Fiorente, prendendo le mosse da una tesi di laurea in Pianificazione territoriale discussa presso l’Università di Ferrara, descrive lo studio svolto sul quartiere San Paolo di Bari, ipotizzando un’articolata strategia volta a ridefinire una parte dell’area metropolitana barese

 

 

Questo studio sul quartiere San Paolo di Bari, svolto nell’ambito di una tesi di laurea in Pianificazione territoriale presso la Facoltà di Architettura di Ferrara (relatrice Prof.ssa Francesca Leder), nasce dalla volontà di esplorare una questione antica per l’urbanistica italiana: quella della periferia residenziale pubblica. Si tratta forse di un tema inattuale, se si considera il panorama del dibattito nazionale e non, che pure riserva un ruolo da protagonista alla riqualificazione.

Oggi, infatti, appare difficile curarsi profondamente dei quartieri popolari, territorio ideologicamente impraticabile, nella lontananza siderale dal clima ideologico che li ha prodotti.

La ormai generalizzata presa di distanza dall’urbanistica politicizzata e militante, che ha guidato il dibattito sul problema della casa, è solo apparentemente positiva.

Nonostante, infatti, siano abbondantemente superate le condizioni che hanno consentito il proliferare di tante isole infelici intorno a molte città italiane, è superato, tuttavia, anche l’impeto morale del dibattito urbanistico, che consentiva ancora di impegnarsi (pur con molti errori e ingenuità) a non accettare passivamente i meccanismi di esclusione della città, e di immaginare la stessa come possibile generatrice di diritti e di uguaglianza.

Così non è stato, e quei quartieri, che dovevano rispondere al sacrosanto diritto alla casa delle classi meno abbienti, sono diventati spesso, soprattutto nelle città meridionali, i luoghi del non diritto, i luoghi attraverso i quali, con enorme disinvoltura, la nostra società ha accettato di segnare il destino di centinaia di migliaia di persone, di negare loro il senso stesso della democrazia occidentale: l’uguaglianza e la parità di diritto per tutti.

Il fatto che di quartieri popolari non se ne costruiscano praticamente più, il fatto che il problema della casa sia scomparso (a torto più che a ragione) dal dibattito specialistico, non è un motivo sufficiente per trascurare questa pesante eredità accumulata dalle città italiane.

Ciò non solo perché la cronaca periodicamente ce la ricorda, imponendo agli occhi quello che fortemente si è voluto allontanare dal cuore, non solo perché dovrebbe essere dovere civico occuparsi di tali e tanti disastri che almeno in parte ricadono sotto la diretta responsabilità dell’urbanistica.

Evidentemente non si può pensare né parlare né progettare la città contemporanea eludendo la questione della periferia residenziale pubblica, che per peso demografico e per impatto ambientale rimane uno dei fatti più importanti dell’urbanistica italiana, uno di quelli che sono il segno distintivo della città italiana del XX secolo.

 

Figura 1 - Immagini del quartiere San Paolo

 

Figura 2 - Immagini del quartiere San Paolo

 

 

Cenni sul metodo di lavoro

 

Si è scelto di impostare il lavoro di tesi su tre livelli differenti che si intersecano tra loro senza soluzione di continuità: il livello generale, che vuole storicizzare il fenomeno della periferia residenziale pubblica, cercando di dipanare quel groviglio di luoghi comuni e di verità, ma anche di accuse sulle origini e le responsabilità degli scempi che politici, urbanisti e architetti muovono gli uni agli altri reciprocamente; il livello dell’area metropolitana di Bari, importante città del sud in bilico tra motivate ambizioni di riuscire a emergere come modello positivo ed una politica urbana che, almeno fino ad un anno fa (quando è stato concluso questo lavoro), appariva inadeguata e incapace di interpretare correttamente queste legittime aspirazioni; infine il livello del quartiere, il cui studio complesso e articolato, come richiede la realtà in cui si opera, si propone due finalità: quella relativa alla necessità di comprendere le relazioni critiche fra disegno urbano e contesto sociale, e quella relativa alle scelte progettuali di piccola scala, assunte come esempi di una strategia della normalità in grado di offrire ciò di cui qualunque quartiere di qualunque città necessita e dunque legittimamente richiede.

Lo spirito che ha animato il lungo lavoro di analisi è stato quello di mettere in comunicazione e relazione le informazioni più disparate che man mano si raccoglievano dai differenti livelli di ricerca sopra indicati. Tale metodo ha condotto da un iniziale senso di disorientamento al conseguimento di risultati insperati: lo sforzo principale è stato quello di non lasciarsi scoraggiare dall’inerzia di una situazione apparentemente disperata, ma di cercare tenacemente fuori e dentro il quartiere le possibili chiavi del riscatto.

Questi quartieri, che sembrano essere stati progettati in modo tale da poter essere rapidamente dimenticati, hanno innanzitutto bisogno, con gli strumenti che l’urbanistica dispone e non solo, di essere osservati, di essere ascoltati.

Le scoperte indotte da un approccio di studio sgombro da preconcetti e lontano dal consueto assetto di emergenza sono state sorprendenti.

 

Figura 3 - Livello di istruzione su un campione di otto quartieri

 

Storia del quartiere San Paolo di Bari

 

Durante gli anni ’50 Bari si appresta ad affrontare per la prima volta in maniera seria la questione dell’emergenza abitativa: benché a Bari l’Istituto autonomo case popolari fosse presente dall’inizio del ’900, gli interventi erano stati puntuali e le assegnazioni scarse a fronte di uno scenario sociale tutt’altro che roseo. Dai dati del censimento del 1951 risulta a Bari un indice di affollamento pari a 2,25 abitanti per stanza, con punte di 4 in quartieri più popolari come Libertà. Si calcola, inoltre, che nello stesso periodo circa 30.000 persone risiedono in abitazioni improprie come grotte, seminterrati, cantine, baracche.

Ad aggravare questa situazione endemica, subentrano fattori nuovi derivanti dalle politiche dell’Italia postbellica. Ad allargare le fila del sottoproletariato barese contribuisce una crisi generale dell’agricoltura, non supportata in alcun modo e sacrificata al miraggio dei poli industriali del sud.

È in questo clima che viene accolta la nascita dei Cep, quartieri coordinati autosufficienti. Il Comitato di coordinamento di edilizia popolare viene istituito nel 1954, con la finalità di coordinare l’attività dei vari istituti e di rendere meno frammentaria e più organica allo sviluppo del territorio la realizzazione degli alloggi popolari.

A Bari si incomincia a parlare del Cep nel 1956, in stretta relazione con l’approvazione del primo piano di risanamento della città vecchia. Sorge infatti il problema di dove collocare gli sfollati, nonché tutte le fasce di popolazione deboli che non trovano più posto nel quartiere centrale di Murat.

La scelta della collocazione del nuovo quartiere viene fatta da una maggioranza politica conservatrice e antipopolare, e soprattutto non estranea alle enormi manovre speculative appena legalizzate dal piano Piacentini. Così, il primo progetto degli Iacp di acquisizione di 85.000 m2 in zona di espansione viene accantonato.

Con grande rapidità e all’insaputa dell’opinione pubblica viene invece stabilito che il Cep sorgerà a 7 km dal centro abitato, in una zona che non solo non è indicata come edificabile dal piano regolatore, ma che non è toccata da nessuna ipotesi di espansione presente o futura della città.

Viene poi scelto di localizzarlo in un territorio isolato e attanagliato da infrastrutture pesanti come l’aeroporto, la ferrovia, una strada statale e, dopo pochissimi anni, anche la zona industriale.

Nell’ottobre del 1957 l’incarico per un primo piano di massima viene affidato ad un’equipe di architetti e ingegneri. I progettisti prevedono uno studio su di un’area di 80 ettari contro i 55 ettari effettivamente acquistati dall’Ina-Casa. Giustificano questo sovradimensionamento come strumento per consentire l’insediamento futuro di alloggi non popolari. Questo per conseguire, almeno in un secondo momento, quella frammistione di funzioni ma anche di classi sociali dichiarata fondamentale nei programmi per i quartieri coordinati.

L’ipotesi si mostra subito utopistica e infondata: negli stessi anni in cui viene realizzato il Cep, infatti, è in atto la massiccia edificazione della zona di espansione a sud della città, destinata naturalmente a soddisfare il bisogno di casa della piccola e media borghesia.

Risultato di questo sovradimensionamento è che le aree ai margini del primo nucleo da edificare, e comunque destinate all’investimento pubblico, aumentano ulteriormente il loro valore in quanto da terreno agricolo diventano nel giro di pochissimo suoli edificabili, con sommo vantaggio dei proprietari.

Questa operazione condiziona pesantemente in anticipo la crescita di un quartiere non ancora nato.

Dal punto di vista progettuale, il quartiere rispecchia perfettamente la cultura degli anni ’50, fatta propria dall’Ina-Casa: si rinnegano le esperienze del movimento moderno, perseguendo un linguaggio artificiosamente popolare, con la speranza di ricreare, per tutte quelle persone che stanno lasciando i loro luoghi d’origine, un ambiente intimo e familiare che spinga alla socialità.

Gli esiti progettuali, almeno nel nucleo originario del Cep, sono scadenti, ma i problemi del neonato quartiere sono di ben altra natura.

Il dispositivo legislativo attraverso cui si attua il Cep non prevede finanziamenti per i servizi. Il comune promette di occuparsi di questo aspetto e tempestivamente provvede a far edificare una chiesa.

Nel 1964 la situazione è già altamente critica e lo scempio è sotto gli occhi di tutti. In un periodo in cui il mezzo privato di trasporto per le classi basse è assolutamente un miraggio, il Cep si rivela una prigione: malamente collegato alla città, con servizi scarsi e sottodimensionati, senza neanche i telefoni pubblici.

Figura 4 - Evoluzione storica della città di Bari

 

Nel 1969 il Cep, quartiere di 20.000 abitanti, può contare su due scuole materne, due elementari, una media, un mercato, alcuni negozi di prima necessità.

Con la legge del 1962 sui piani di zona 167 la storia si ripete.

Bari, città di più di 300.000 abitanti, rientra fra quelle con l’obbligo di redigere un piano di zona 167. Nel dicembre 1963, a pochissimi giorni dalla scadenza, viene approvata in comune la prima bozza di piano.

Figura 5 - Analisi del sistema ambientale barese

 

Ancora una volta l’operazione si conclude in tempi relativamente brevi e senza minimamente coinvolgere la cittadinanza in un dibattito. La questione viene presentata come esclusivamente tecnica, come un problema di quantità e aree da requisire. I progettisti si limitano a mettere su carta le decisioni prese in sede politica.

In sintesi vengono identificate tre zone, una a completamento del quartiere Ina-Casa Japigia, risalente agli anni ’50; la seconda, Poggiofranco, nella zona di espansione a sud della città, e la terza, come era prevedibile, in zona Cep.

Il problema scottante non è l’ampliamento del Cep, che potrebbe in qualche modo beneficiare dell’aumento delle sue dimensioni, ma l’impostazione dell’operazione, che non è finalizzata alla risoluzione dei vecchi errori, ma che diventa infausta occasione per ribadire pratiche consolidate di malgoverno urbano.

Fra gli anni ’70 e ’80 il Cep, che nel frattempo diventa San Paolo, viene completato aumentando più del doppio la sua popolazione. La parte più recente, che viene progettata secondo un impianto geometricamente più rigido, è contigua a quella più antica, ma non realmente comunicante con essa. Il San Paolo oggi si presenta come un misterioso prodotto urbano di dimensioni considerevoli, composto da tante parti differenti, tanto da sembrare un museo a cielo aperto della storia dell’edilizia popolare in Italia.

La storia del quartiere San Paolo dovrebbe essere assurda ed eccezionale e invece non riesce nemmeno a stupire: è consueta in ambito italiano, scontata in quello meridionale e addirittura emblematica nel contesto barese. Le scelte progettuali del Cep hanno infatti costituito il progetto pilota per altre esperienze simili nella stessa città, con il risultato che oggi svariati quartieri si contendono la palma del peggiore.

Fondamentale per il lavoro di ricerca è stato il rifiuto della concezione monadologica che pur si presta a prodotti urbani come il San Paolo. Nonostante il quartiere in questione appaia all’improvviso nella campagna, surreale come un villaggio turistico gigante e squallido in mezzo al nulla, non bisogna dimenticare che è a tutti gli effetti parte integrante della città di Bari.

Gli interventi puntuali, che pure in questi anni non sono mancati, non hanno la possibilità di incidere sul serio, perché non mettono in discussione l’organizzazione di tutto il sistema metropolitano di cui questo quartiere costituisce una parte importante.

Bari è una città che, sotto un unico nome, racchiude tante realtà differenti, che si preferisce non nominare: San Paolo, Catino, Enziteto, Carbonara, tutte dimore degli ultimi che si sono voluti via via espellere, ma anche molte altre realtà affette non certo da degrado eclatante, come i suddetti quartieri, ma da sindrome di abbandono cronico da parte dell’amministrazione pubblica.

È necessario ipotizzare una serie di strategie che colpiscano il consolidato sistema che punta sullo sfruttamento del centro e che si impegna a mantenere a fatica una serie di aree funzionalmente parassitarie.

Disperdere i fondi dei programmi complessi per mantenere lo status quo, che può essere definito un assistenzialismo nell’assistenzialismo (dove per assistenza si intende al massimo un parchetto recintato), vuol dire sprecare tante occasioni di ripensare una città.

Figura 6 - Immagini del lungomare dell'area metropolitana barese

 

Nel caso specifico, riprogettare San Paolo, quartiere di circa 60.000 abitanti, significa in ogni caso riprogettare una città, che per vastità e peso demografico potrebbe avere la capacità di condizionare (finalmente positivamente) le dinamiche di funzionamento di Bari.

Nonostante tutto oggi la cura e soprattutto l’assunzione di responsabilità verso queste realtà difficili non è scontata. Il motivo e la spinta non devono trovarsi nei clamori dell’emergenza, nell’urgenza che ciclicamente affiora dalle cronache dei quartieri e nemmeno da quel vago sentimento di pietà e solidarietà che spesso aleggia nelle parole della politica (e che comunque fatica a trovare riscontro nei fatti).

Il motivo è tutto compreso nella necessità di governare la città intera e non mutilata, di non lasciare parti consistenti di essa al governo di altri tipi di forze che spesso e ovviamente sono antagoniste dello Stato.

Quando si parla della periferia pubblica residenziale, che si tratti di San Paolo, Scampia o degli altri nomi noti o meno noti, si sta parlando di territori rifiutati in maniera molteplice. È noto e palese il rifiuto storico e iniziale, il rifiuto politico (nel senso più ampio del termine) di sacrificare l’interesse privato ad una realizzazione razionale e non sconsiderata di molti quartieri popolari; è altrettanto evidente il rifiuto quotidiano allo status di cittadini di serie A per tutti i loro abitanti. Ma è necessario riflettere anche su una realtà meno ovvia: i tanti quartieri popolari degradati sono territori rifiutati alla città, antagonisti ad essa, serbatoi di risorse territoriali e sociali sprecate. Il processo di riappropriazione auspicato ha senso solo se reciproco: non solo restituire agli abitanti del San Paolo lo stato di cittadini, ma soprattutto restituire a Bari il quartiere San Paolo.

 

Figura 7 - Analisi delle principali reti infrastrutturali nella città di Bari

 

Progetto di quartiere, progetto di città

 

L’esito della prima parte della ricerca, quella tesa a inquadrare il quartiere nel contesto più ampio di appartenenza consiste in una bozza, un’ipotesi di strategia in 6 mosse per mettere in discussione l’area metropolitana barese.

Figura 8 - I principali progetti per il quartiere San Paolo

 

Immaginare: la capacità di vedere possibilità dove per anni si sono visti soltanto problemi da risolvere con soluzioni più o meno superficiali, è sicuramente il primo passo del cambiamento. Si tratta di scomporre Bari, trattata testardamente come se fosse un unico blocco, riconoscere le singole realtà e ipotizzare un processo di ricomposizione armonica degli elementi, dove ogni luogo giochi un ruolo positivo e non quello classico di appendice sempre a rischio di cancrena.

Contestualizzare: significa per Bari riguadagnare quel rapporto con gli ecosistemi che la accolgono, rapporto dimenticato e in alcuni casi compromesso da una crescita urbana che definire disattenta è eufemistico. Prima di tutto il mare: Bari città sul mare e non di mare, rapporto di rispetto che regola la relazione fra la città e il grande elemento su cui si affaccia. Di parole se ne possono dire molte per descrivere l’uso che Bari fa delle sue spiagge, e questo sempre perché, quando si parla della città, si considera sempre e solo quella stretta fascia centrale dell’area metropolitana. Basta però percorrere il lungomare da Santo Spirito a Torre a Mare per capire che l’unica regola che sorregge il rapporto fra mare e città è la follia. Perché solo la follia può giustificare, non solo la sciatteria di cui è pieno il mondo, ma la cecità di fronte ad una risorsa economica ingente. La richiesta che arriva da più parti per il porto turistico consente di rilanciare con valore turistico non solo il centro storico di Bari, ma anche quello delle frazioni che si trovano sul mare. Partendo, infatti, dal potenziamento delle attività portuali per il turismo, si potrebbe avviare una riqualificazione del tessuto edilizio fortemente disperso con criteri di sostenibilità. Così anche l’avviare progetti di recupero di un sistema di spiagge a opera di privati sulla base di un progetto generale, spalmato su tutta la linea di costa cittadina, potrebbe avere il duplice effetto di rilanciare Bari come città turistica a trecentosessanta gradi, e di avvicinare al mare interi quartieri che, pur vicinissimi, non possono viverlo in nessun modo.

Figura 9 - Analisi morfologica del quartiere San Paolo

 

Attualmente non esiste alcuna possibilità per percorrere in macchina o con qualsiasi altro mezzo il lungomare per intero, e le strade sono sottodimensionate. Questa situazione di svantaggio rappresenta in realtà l’occasione di creare una infrastruttura leggera di percorsi prevalentemente pedonali e ciclabili che diventi il modo privilegiato di vivere il mare.

L’attrezzatura e l’accessibilità al mare, oltre ad avere un alto valore intrinseco, ne hanno anche uno strumentale ad un altro obiettivo: quello della riscoperta della terra. È necessario infatti recuperare il senso della profonda relazione fra il mare e la terra di cui le lame, elementi peculiari del paesaggio carsico, sono la rappresentazione tangibile. Parchi come la Lama Balice, nonostante una riconosciuta importanza che va al di là dei confini comunali, non sono altro che tagli sperduti in luoghi irraggiungibili, se non vengono interpretati per quello che effettivamente sono: corridoi verdi che dalla collina vanno verso il mare.

Correttamente riqualificata, la Lama Balice potrebbe contribuire a collegare San Paolo meglio della nuova metropolitana.

Orientare: Quaroni, parlando del San Paolo, sosteneva che era possibile superare l’isolamento ipotizzando un salto di scala. Questo non è corretto, perché non è possibile mutare la scala del vivere quotidiano e della percezione del mondo. Ciò che è possibile cambiare è l’orientamento, la gerarchia che stabilisce da cosa si è lontani e a cosa si è vicini. Il San Paolo è e sarà sempre lontano 7 km dal quartiere murattiano, ma questo è così importante solo in un sistema a forte dipendenza dal centro. La strategia di contestualizzazione prima esposta mette in luce che il San Paolo sorge su un territorio privilegiato da più punti di vista, anche se ciò è dovuto decisamente ad una coincidenza più che alla lungimiranza di chi ne decise la localizzazione. San Paolo non solo è vicino al mare e si affaccia sul suggestivo paesaggio carsico delle lame, ma ha anche dei punti di forza tuttora inesplorati. Il fatto di essere a metà strada fra aeroporto, zona industriale e scalo ferroviario rende San Paolo un nodo logistico estremamente interessante. La vicinanza alla zona industriale per anni ha fatto pensare a San Paolo semplicemente come ad un serbatoio di manodopera, mentre parte di questo quartiere, e soprattutto la circoscrizione, potrebbe essere rilanciata come luogo di servizi all’impresa.

Invogliare: pur delineata una ricca serie di scenari positivi, non è possibile ipotizzare una reale riabilitazione di San Paolo senza reagire contro uno dei più grossi handicap che gravano sul quartiere: il luogo comune. Da molti anni si parla delle modalità del marketing applicate alle città. Lo stesso Pic Urban del centro storico di Bari ha rappresentato forse la prima forma di marketing urbano della città. Sarebbe interessante analizzare gli effetti dello stesso tipo di pratica all’interno della città, finalizzato non solo (e non in primo luogo) alla vendibilità di un prodotto, ma soprattutto al miglioramento della qualità della vita, una pubblicità per coinvolgere tutti i cittadini nel processo di ripensamento della città. Gli strumenti di quello che potrebbe essere definito marketing di quartiere possono essere vari, da concerti a manifestazioni temporanee, ma anche installazioni d’arte e tutto ciò che possa essere di forte richiamo e che possa aiutare a rompere quel tabù che circonda il San Paolo.

Figura 10 - Abaco delle strategie proposte alla scala dell'area metropolitana barese

 

Nobilitare: la collocazione di poli attrattivi per tutta la città all’interno del quartiere non è cosa nuova nell’ambito delle politiche per il San Paolo. Le scelte degli ultimi anni sono cadute sull’ospedale regionale e le cittadelle di polizia, aeronautica e finanza. È lampante che questo tipo di insediamento possiede una capacità attrattiva del tutto limitata, non migliora la percezione che la città ha del San Paolo e non innesca circoli virtuosi nel contesto in cui si colloca. La scelta di un polo, di una funzione pregiata da affidare al quartiere è delicata. Questo tipo di funzione deve rispondere sia al requisito della forte attrattività nei confronti degli altri quartieri, sia a quello della compatibilità con il contesto del San Paolo. A seguito di tutte le considerazioni fatte in precedenza, si ritiene che fare del San Paolo un polo culturale per Bari possa portare a risultati interessanti sia a breve che a lunga scadenza. La mancanza di spazi per la cultura e la creatività, che vadano oltre l’Ateneo o il Politecnico, rappresenta per tutta Bari un handicap gravissimo che penalizza pesantemente tutta la cittadinanza. La vitalità dei piccoli teatri è frustrata dalla mancanza di strutture adeguate, così anche la creatività dei cineasti, che sono sempre e comunque costretti alla fuga dalla città. San Paolo, anche grazie alla grande disponibilità di spazio al suo interno, potrebbe essere il quartiere ideale per alloggiare la sede di uno dei teatri sperimentali di Bari o un centro per il cinema, un tipo di struttura che a Bari manca del tutto. Una sperimentazione del genere costituirebbe non solo l’occasione di sopperire a clamorosi ritardi sul piano dei servizi, sarebbe anche un modo per riscoprire il ruolo militante di una cultura che sempre più spesso viene vissuta solo come business; un modo per cogliere la capacità che ha l’arte di liberare la mente e infrangere i pregiudizi. Sarebbe l’occasione per cui San Paolo e gli altri quartieri infelici di Bari smettano di essere solo la fonte d’ispirazione dei tanti ritratti grotteschi della città per diventare il laboratorio di una creatività in atto.

Stupire: il processo di ripensamento del sistema metropolitano di Bari non passa solo attraverso San Paolo. In questo arcipelago le isole da riscoprire sono molte. Attrezzare in modo adeguato la linea di costa, metterla a sistema con la Lama Balice, riqualificare il quartiere San Paolo e connetterlo attivamente alle dinamiche metropolitane: si tratta di azioni prioritarie e strategiche che possono fare da volano alla riscoperta di altri scenari in attesa di essere valorizzati. Del tutto inesplorata è la possibilità di cura e tutela del paesaggio agricolo all’interno dei confini comunali, nonostante il profondo significato che esso rivesta per la cultura della terra di Bari. Il paesaggio agricolo, la sua relazione con le lame, la valorizzazione delle numerosissime masserie tutelate solo sulla carta, rappresentano solo alcune delle chiavi interpretative per leggere quel tessuto connettivo di centri su cui tanto si gioca il futuro della città. È ancora valida l’idea di Quaroni di reinterpretare Bari come una rete di centri, ma questa prospettiva va riletta in maniera contemporanea e sostenibile. La creazione di un sistema delle centralità diffuse che scardinino il policentrismo debole e gerarchico presente attualmente, infatti, non è legata tanto alla creazione di potenti assi viari e grandi rotatorie, quanto alla capacità di sovrapporre all’infrastrutturazione pesante presente una maglia di percorsi leggeri che seguano la valorizzazione delle numerose risorse ambientali, artistiche e culturali.

 

Figura 11 - Abaco delle proposte progettuali alla scala del quartiere

 

La scala del quartiere: progettare la normalità

 

Una città riuscita, una città bella da vivere, una città che fa felici i propri abitanti, è il risultato di un’alchimia in cui si compongono in delicato equilibrio fattori di natura diversa. Se condizione sociale, insieme di politiche, modi di vivere, centralità o marginalità rispetto a scenari più ampi, tasso di occupazione e livello culturale giocano sicuramente la parte più consistente della partita, non si può nemmeno credere che il disegno urbano sia soltanto lo scenario indifferente di tutto quello che è una città.

Elementi squisitamente morfologici di un aggregato urbano, il più delle volte, rivestono il duplice ruolo di componente funzionale e di oggetto simbolico evocativo per la collettività.

“La forza del sogno e del desiderio non è inferiore nel modellare la città nuova a quella del profitto o della rendita differenziale” (Amendola G., 1997).

Prodotti urbani come San Paolo sono doppiamente modellati dalla componente simbolica: innanzitutto dall’immagine negativa che dall’esterno viene proiettata su di essi aderendovi in maniera totale e, all’interno, dalla mancanza di qualsiasi elemento che si discosti dalla semplice funzione abitativa.

Gli stessi abitanti del quartiere avvertono profondamente la frustrazione di un ambiente urbano mancato, tanto da compiere un esodo quotidiano che va al di là della ragione di un pendolarismo forzato per assumere i connotati di un viaggio esistenziale nel cuore della vita.

Il progetto del quartiere, però, deve sapersi confrontare con una scala minuta, e non solo per motivi contingenti quali la difficoltà di reperire finanziamenti per un tipo di intervento a forte impatto sull’esistente, ma perché la strategia della normalità è fatta di piccoli obiettivi, non per questo meno importanti.

Si è già visto come il modello di crescita del San Paolo seguito fino a questo momento, fatto di grossi interventi che si andavano a contrapporre a quelli precedenti, non ha avuto altro risultato che il sommarsi delle solitudini.

Una riqualificazione del tessuto urbano, per ottenere la massima efficacia sull’area più estesa, deve seguire il metodo del rammendo: utilizzare le singole componenti di una materia, apparentemente inerte, come la risorsa prima di un progetto, lavorare sulle aree interstiziali lasciate in abbondanza dalla sciatteria del disegno urbano che si eredita.

Il lavoro sulle piccole cose non deve perdere di vista gli obiettivi generali che persegue, la forte progettualità che lo sorregge.

Per questo motivo si ripropone la strategia in più tappe, che però assume un significato diverso dalla strategia dell’area metropolitana. Se per la città di Bari si tratta di un insieme di grandi ipotesi da conseguire in fasi successive, nel caso del quartiere si propone una sequenza di priorità, un insieme di valori simbolici cui gli interventi fisici devono dare risposta.

Gli scenari possibili che si prospettano sono diversi, e i grandi obiettivi possono essere declinati in maniera differente a seconda delle possibilità, ma anche delle reazioni che il contesto mostra rispetto agli input che riceve.

Figura 12 - Proposte per il parco della Lama Balice

 

Immaginare che questo aggregato di episodi urbani differenti, chiusi alla comunicazione reciproca, possano diventare un organismo dominato da regole di funzionamento e dalla collaborazione fra le parti.

Nobilitare, restituire il cuore ad una città senza anima, recuperare il mito dell’agorà, il luogo dove sentirsi cittadini, il punto di partenza per ricostruire una comunità. Gli enormi vuoti lasciati a disposizione dalla pianificazione precedente, da essere monumento all’assurdità, diventano un’occasione progettuale di grande valore. Il processo di umanizzazione del vuoto permette di interpretare in modo differente gli spazi a disposizione, creando episodi urbani che, mantenendo la memoria di dimensioni che ci sono sempre state, ne stravolgono il senso: dal vuoto come alienazione, al vuoto come strumento fisico della coesione.

Orientare in questo caso significa indicare la via, intervenire sullo spaesamento che rende il San Paolo difficilmente percorribile. Significa seguire le tracce di quelli che appaiono gli assi principali e completarli, significa dare la continuità visiva e fisica all’esperienza dell’attraversamento. Intervenire sulla sezione delle vie principali con i materiali, piantumando con essenze mediterranee che ricordino che questa terra di nessuno ha una collocazione geografica precisa. Tematizzare, arricchire di suggerimenti sensoriali il procedimento di comprensione del quartiere.

Invogliare al percorso e, tornato il cuore a battere, far scorrere la linfa vitale di ogni città, che è la gente per la strada. Ipotizzare modi differenti per collocare tutti i servizi mancanti in modo che vadano a soccorso della strada, che rappresentino il primo colpo alla città dei cancelli. Ripensare al valore della strada è il primo passo per restituire sicurezza e fiducia agli abitanti che dalla strada si proteggono.

Contestualizzare, valorizzare le risorse ambientali presenti, prima fra tutte la Lama Balice come strumento di rilancio del quartiere. Aumentare la permeabilità e gli scambi fra il costruito e la grande infrastruttura naturale su cui questo si affaccia. Inserire le attrezzature per il parco nel tessuto del quartiere, come occasione economica e come opportunità di ritrovare una nuova identità territoriale.

Lo stupore è la conseguenza di questa matrice moltiplicatrice di scenari. Una volta sbloccati i nodi che hanno per anni compromesso un uso completo del quartiere, si può procedere anche alla valorizzazione di tutti quegli spazi residuali in cui oggi è difficile intravedere potenzialità alcuna.

Densificare è il metodo alternativo di crescita proposto. L’aumento di unità immobiliari, considerato per anni l’unica cura per il San Paolo, deve diventare un mezzo per ricomporre un disegno urbano lacunoso, proponendo modelli insediativi differenti che arricchiscano la scena preesistente instaurando un rapporto dialettico con essa. I nuovi edifici, recuperando di volta in volta rapporti differenti con la strada, con il parco, con la zona industriale, avranno il compito di essere pionieri di nuove forme e soprattutto di affollare un quartiere ammalato di deserto.

 

 

Bibliografia

 

Amendola G. (1985), Atlante sociale di Bari, Laterza, Roma-Bari.

Amendola G (1997), La città postmoderna, magie e paure della metropoli contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari.

Astengo G. (1962), Urbanistica in parlamento, in “L’urbanistica”, n. 36-37.

Astengo G. (1963), Le prime applicazioni della 167, in “L’urbanistica”, n. 39.

Bari Statistica, Annuario statistico 1996, Levante Editore, Bari.

Borri D., Cucciola A., Morelli D., Pastore P., Petrignani M. (1980), Questione urbana e sviluppo edilizio. Il caso di Bari, Dedalo Libri, Bari.

Boscaglia R. (1995), Perifanie, Edizioni Kappa, Roma.

Bozzo L. (2003), Bari città frontiera, Progedit, Bari.

Buncaga F. ( 2000), Conversazioni con Giancarlo De Carlo, Eleuthera, Milano.

Celine L. F. (2000), Viaggio al termine della notte, Thea, Milano.

Crotti S. (a cura di) (1988), Vittorio Gregotti, Zanichelli, Bologna.

Ferracuti G., Marcelloni M. (1982), La casa, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino.

Franz G. (a cura di) (2001), Trasformazione, innovazione, riqualificazione urbana in Italia, FrancoAngeli, Milano.

Franz G., Leder F. (a cura di) (2003), La riqualificazione delle periferie residenziali, Alinea Editrice, Firenze.

Fuksas M. (2001), Caos Sublime, Rizzoli Editore, Milano.

Il Sole 24 ore (2003), Qualità della vita, Dossier sull’Italia del 2003.

Pasolini P. (1988), Ragazzi di vita, Garzanti, Torino.

Petrignani M., Porsia F. (1982), Le città nella storia d’Italia, Bari, Laterza Editori, Roma-Bari.

Regione Puglia (2000), Piano operativo regionale (Puglia) del quadro comunitario di sostegno 2000-2006.

Regione Puglia, Assessorato all’urbanistica e assetto del territorio (2000), Piano urbanistico territoriale tematico “paesaggio”, norme tecniche d’attuazione.

Rea E. (2003), La dismissione, Bur, Milano.

Reina L. (1994), Scenario Novecento, Editrice Ferraro, Napoli.

Ripamonti C. (1963), Le finalità della 167, in “L’urbanistica”, n. 39.

Rogers R. (1997), Città per un piccolo pianeta, Edizioni Kappa, Roma.

Salvia L., Teresi F. (2002), Diritto Urbanistico, Cedam, Padova.

Samperi P. (1964), Le caratteristiche urbanistiche e tecniche del piano di zona, in “L’urbanistica”, n. 40.

Sclavi M. (2002), Avventure urbane, progettare la città con gli abitanti, Eleuthera, Milano.

Secchi B. (2000), Prima lezione di urbanistica, Laterza Editori, Roma-Bari.

 

 

Sitografia

 

www.antithesi.it

www.architettura.it

www.comune.bari.it

www.cittàplurale.it

www.ilmanifesto.it

www.svileg.censis.it

 

 

Presentazione | Referenze Autori | Scrivi alla redazione | AV News | HOME

 

 Il sito web di Area Vasta è curato da Michele Sol