Questo studio sul quartiere San Paolo di
Bari, svolto nell’ambito di una tesi di
laurea in Pianificazione territoriale presso
la Facoltà di Architettura di Ferrara
(relatrice Prof.ssa Francesca Leder), nasce
dalla volontà di esplorare una questione
antica per l’urbanistica italiana: quella
della periferia residenziale pubblica. Si
tratta forse di un tema inattuale, se si
considera il panorama del dibattito
nazionale e non, che pure riserva un ruolo
da protagonista alla riqualificazione.
Oggi, infatti, appare difficile curarsi
profondamente dei quartieri popolari,
territorio ideologicamente impraticabile,
nella lontananza siderale dal clima
ideologico che li ha prodotti.
La ormai generalizzata presa di distanza
dall’urbanistica politicizzata e militante,
che ha guidato il dibattito sul problema
della casa, è solo apparentemente positiva.
Nonostante, infatti, siano abbondantemente
superate le condizioni che hanno consentito
il proliferare di tante isole infelici
intorno a molte città italiane, è superato,
tuttavia, anche l’impeto morale del
dibattito urbanistico, che consentiva ancora
di impegnarsi (pur con molti errori e
ingenuità) a non accettare passivamente i
meccanismi di esclusione della città, e di
immaginare la stessa come possibile
generatrice di diritti e di uguaglianza.
Così non è stato, e quei quartieri, che
dovevano rispondere al sacrosanto diritto
alla casa delle classi meno abbienti, sono
diventati spesso, soprattutto nelle città
meridionali, i luoghi del non diritto, i
luoghi attraverso i quali, con enorme
disinvoltura, la nostra società ha accettato
di segnare il destino di centinaia di
migliaia di persone, di negare loro il senso
stesso della democrazia occidentale:
l’uguaglianza e la parità di diritto per
tutti.
Il fatto che di quartieri popolari non se ne
costruiscano praticamente più, il fatto che
il problema della casa sia scomparso (a
torto più che a ragione) dal dibattito
specialistico, non è un motivo sufficiente
per trascurare questa pesante eredità
accumulata dalle città italiane.
Ciò non solo perché la cronaca
periodicamente ce la ricorda, imponendo agli
occhi quello che fortemente si è voluto
allontanare dal cuore, non solo perché
dovrebbe essere dovere civico occuparsi di
tali e tanti disastri che almeno in parte
ricadono sotto la diretta responsabilità
dell’urbanistica.
Evidentemente non si può pensare né parlare
né progettare la città contemporanea
eludendo la questione della periferia
residenziale pubblica, che per peso
demografico e per impatto ambientale rimane
uno dei fatti più importanti
dell’urbanistica italiana, uno di quelli che
sono il segno distintivo della città
italiana del XX secolo.
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Figura 1 - Immagini del quartiere
San Paolo |
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Figura 2 - Immagini del quartiere
San Paolo |
Cenni sul metodo di lavoro
Si è scelto di impostare il lavoro di tesi
su tre livelli differenti che si intersecano
tra loro senza soluzione di continuità: il
livello generale, che vuole storicizzare il
fenomeno della periferia residenziale
pubblica, cercando di dipanare quel
groviglio di luoghi comuni e di verità, ma
anche di accuse sulle origini e le
responsabilità degli scempi che politici,
urbanisti e architetti muovono gli uni agli
altri reciprocamente; il livello dell’area
metropolitana di Bari, importante città del
sud in bilico tra motivate ambizioni di
riuscire a emergere come modello positivo ed
una politica urbana che, almeno fino ad un
anno fa (quando è stato concluso questo
lavoro), appariva inadeguata e incapace di
interpretare correttamente queste legittime
aspirazioni; infine il livello del
quartiere, il cui studio complesso e
articolato, come richiede la realtà in cui
si opera, si propone due finalità: quella
relativa alla necessità di comprendere le
relazioni critiche fra disegno urbano e
contesto sociale, e quella relativa alle
scelte progettuali di piccola scala, assunte
come esempi di una strategia della
normalità in grado di offrire ciò di cui
qualunque quartiere di qualunque città
necessita e dunque legittimamente richiede.
Lo spirito che ha animato il lungo lavoro di
analisi è stato quello di mettere in
comunicazione e relazione le informazioni
più disparate che man mano si raccoglievano
dai differenti livelli di ricerca sopra
indicati. Tale metodo ha condotto da un
iniziale senso di disorientamento al
conseguimento di risultati insperati: lo
sforzo principale è stato quello di non
lasciarsi scoraggiare dall’inerzia di una
situazione apparentemente disperata, ma di
cercare tenacemente fuori e dentro il
quartiere le possibili chiavi del riscatto.
Questi quartieri, che sembrano essere stati
progettati in modo tale da poter essere
rapidamente dimenticati, hanno innanzitutto
bisogno, con gli strumenti che l’urbanistica
dispone e non solo, di essere osservati, di
essere ascoltati.
Le scoperte indotte da un approccio di
studio sgombro da preconcetti e lontano dal
consueto assetto di emergenza sono state
sorprendenti.
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Figura 3 - Livello di istruzione su
un campione di otto quartieri |
Storia del quartiere San Paolo di Bari
Durante gli anni ’50 Bari si appresta ad
affrontare per la prima volta in maniera
seria la questione dell’emergenza abitativa:
benché a Bari l’Istituto autonomo case
popolari fosse presente dall’inizio del
’900, gli interventi erano stati puntuali e
le assegnazioni scarse a fronte di uno
scenario sociale tutt’altro che roseo. Dai
dati del censimento del 1951 risulta a Bari
un indice di affollamento pari a 2,25
abitanti per stanza, con punte di 4 in
quartieri più popolari come Libertà. Si
calcola, inoltre, che nello stesso periodo
circa 30.000 persone risiedono in abitazioni
improprie come grotte, seminterrati,
cantine, baracche.
Ad aggravare questa situazione endemica,
subentrano fattori nuovi derivanti dalle
politiche dell’Italia postbellica. Ad
allargare le fila del sottoproletariato
barese contribuisce una crisi generale
dell’agricoltura, non supportata in alcun
modo e sacrificata al miraggio dei poli
industriali del sud.
È in questo clima che viene accolta la
nascita dei Cep, quartieri coordinati
autosufficienti. Il Comitato di
coordinamento di edilizia popolare viene
istituito nel 1954, con la finalità di
coordinare l’attività dei vari istituti e di
rendere meno frammentaria e più organica
allo sviluppo del territorio la
realizzazione degli alloggi popolari.
A Bari si incomincia a parlare del Cep nel
1956, in stretta relazione con
l’approvazione del primo piano di
risanamento della città vecchia. Sorge
infatti il problema di dove collocare gli
sfollati, nonché tutte le fasce di
popolazione deboli che non trovano più posto
nel quartiere centrale di Murat.
La scelta della collocazione del nuovo
quartiere viene fatta da una maggioranza
politica conservatrice e antipopolare, e
soprattutto non estranea alle enormi manovre
speculative appena legalizzate dal piano
Piacentini. Così, il primo progetto degli
Iacp di acquisizione di 85.000 m2 in zona di
espansione viene accantonato.
Con grande rapidità e all’insaputa
dell’opinione pubblica viene invece
stabilito che il Cep sorgerà a 7 km dal
centro abitato, in una zona che non solo non
è indicata come edificabile dal piano
regolatore, ma che non è toccata da nessuna
ipotesi di espansione presente o futura
della città.
Viene poi scelto di localizzarlo in un
territorio isolato e attanagliato da
infrastrutture pesanti come l’aeroporto, la
ferrovia, una strada statale e, dopo
pochissimi anni, anche la zona industriale.
Nell’ottobre del 1957 l’incarico per un
primo piano di massima viene affidato ad
un’equipe di architetti e ingegneri. I
progettisti prevedono uno studio su di
un’area di 80 ettari contro i 55 ettari
effettivamente acquistati dall’Ina-Casa.
Giustificano questo sovradimensionamento
come strumento per consentire l’insediamento
futuro di alloggi non popolari. Questo per
conseguire, almeno in un secondo momento,
quella frammistione di funzioni ma anche di
classi sociali dichiarata fondamentale nei
programmi per i quartieri coordinati.
L’ipotesi si mostra subito utopistica e
infondata: negli stessi anni in cui viene
realizzato il Cep, infatti, è in atto la
massiccia edificazione della zona di
espansione a sud della città, destinata
naturalmente a soddisfare il bisogno di casa
della piccola e media borghesia.
Risultato di questo sovradimensionamento è
che le aree ai margini del primo nucleo da
edificare, e comunque destinate
all’investimento pubblico, aumentano
ulteriormente il loro valore in quanto da
terreno agricolo diventano nel giro di
pochissimo suoli edificabili, con sommo
vantaggio dei proprietari.
Questa operazione condiziona pesantemente in
anticipo la crescita di un quartiere non
ancora nato.
Dal punto di vista progettuale, il quartiere
rispecchia perfettamente la cultura degli
anni ’50, fatta propria dall’Ina-Casa: si
rinnegano le esperienze del movimento
moderno, perseguendo un linguaggio
artificiosamente popolare, con la speranza
di ricreare, per tutte quelle persone che
stanno lasciando i loro luoghi d’origine, un
ambiente intimo e familiare che spinga alla
socialità.
Gli esiti progettuali, almeno nel nucleo
originario del Cep, sono scadenti, ma i
problemi del neonato quartiere sono di ben
altra natura.
Il dispositivo legislativo attraverso cui si
attua il Cep non prevede finanziamenti per i
servizi. Il comune promette di occuparsi di
questo aspetto e tempestivamente provvede a
far edificare una chiesa.
Nel 1964 la situazione è già altamente
critica e lo scempio è sotto gli occhi di
tutti. In un periodo in cui il mezzo privato
di trasporto per le classi basse è
assolutamente un miraggio, il Cep si rivela
una prigione: malamente collegato alla
città, con servizi scarsi e
sottodimensionati, senza neanche i telefoni
pubblici.
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Figura 4 - Evoluzione storica della
città di Bari |
Nel 1969 il Cep, quartiere di 20.000
abitanti, può contare su due scuole materne,
due elementari, una media, un mercato,
alcuni negozi di prima necessità.
Con la legge del 1962 sui piani di zona 167
la storia si ripete.
Bari, città di più di 300.000 abitanti,
rientra fra quelle con l’obbligo di redigere
un piano di zona 167. Nel dicembre 1963, a
pochissimi giorni dalla scadenza, viene
approvata in comune la prima bozza di piano.
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Figura 5 - Analisi del sistema
ambientale barese |
Ancora una volta l’operazione si conclude in
tempi relativamente brevi e senza
minimamente coinvolgere la cittadinanza in
un dibattito. La questione viene presentata
come esclusivamente tecnica, come un
problema di quantità e aree da requisire. I
progettisti si limitano a mettere su carta
le decisioni prese in sede politica.
In sintesi vengono identificate tre zone,
una a completamento del quartiere Ina-Casa
Japigia, risalente agli anni ’50; la
seconda, Poggiofranco, nella zona di
espansione a sud della città, e la terza,
come era prevedibile, in zona Cep.
Il problema scottante non è l’ampliamento
del Cep, che potrebbe in qualche modo
beneficiare dell’aumento delle sue
dimensioni, ma l’impostazione
dell’operazione, che non è finalizzata alla
risoluzione dei vecchi errori, ma che
diventa infausta occasione per ribadire
pratiche consolidate di malgoverno urbano.
Fra gli anni ’70 e ’80 il Cep, che nel
frattempo diventa San Paolo, viene
completato aumentando più del doppio la sua
popolazione. La parte più recente, che viene
progettata secondo un impianto
geometricamente più rigido, è contigua a
quella più antica, ma non realmente
comunicante con essa. Il San Paolo oggi si
presenta come un misterioso prodotto urbano
di dimensioni considerevoli, composto da
tante parti differenti, tanto da sembrare un
museo a cielo aperto della storia
dell’edilizia popolare in Italia.
La storia del quartiere San Paolo dovrebbe
essere assurda ed eccezionale e invece non
riesce nemmeno a stupire: è consueta in
ambito italiano, scontata in quello
meridionale e addirittura emblematica nel
contesto barese. Le scelte progettuali del
Cep hanno infatti costituito il progetto
pilota per altre esperienze simili nella
stessa città, con il risultato che oggi
svariati quartieri si contendono la palma
del peggiore.
Fondamentale per il lavoro di ricerca è
stato il rifiuto della concezione
monadologica che pur si presta a prodotti
urbani come il San Paolo. Nonostante il
quartiere in questione appaia all’improvviso
nella campagna, surreale come un villaggio
turistico gigante e squallido in mezzo al
nulla, non bisogna dimenticare che è a tutti
gli effetti parte integrante della città di
Bari.
Gli interventi puntuali, che pure in questi
anni non sono mancati, non hanno la
possibilità di incidere sul serio, perché
non mettono in discussione l’organizzazione
di tutto il sistema metropolitano di cui
questo quartiere costituisce una parte
importante.
Bari è una città che, sotto un unico nome,
racchiude tante realtà differenti, che si
preferisce non nominare: San Paolo, Catino,
Enziteto, Carbonara, tutte dimore degli
ultimi che si sono voluti via via espellere,
ma anche molte altre realtà affette non
certo da degrado eclatante, come i suddetti
quartieri, ma da sindrome di abbandono
cronico da parte dell’amministrazione
pubblica.
È necessario ipotizzare una serie di
strategie che colpiscano il consolidato
sistema che punta sullo sfruttamento del
centro e che si impegna a mantenere a fatica
una serie di aree funzionalmente
parassitarie.
Disperdere i fondi dei programmi complessi
per mantenere lo status quo, che può
essere definito un assistenzialismo
nell’assistenzialismo (dove per assistenza
si intende al massimo un parchetto
recintato), vuol dire sprecare tante
occasioni di ripensare una città.
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Figura 6 - Immagini del lungomare
dell'area metropolitana barese |
Nel caso specifico, riprogettare San Paolo,
quartiere di circa 60.000 abitanti,
significa in ogni caso riprogettare una
città, che per vastità e peso demografico
potrebbe avere la capacità di condizionare
(finalmente positivamente) le dinamiche di
funzionamento di Bari.
Nonostante tutto oggi la cura e soprattutto
l’assunzione di responsabilità verso queste
realtà difficili non è scontata. Il motivo e
la spinta non devono trovarsi nei clamori
dell’emergenza, nell’urgenza che
ciclicamente affiora dalle cronache dei
quartieri e nemmeno da quel vago sentimento
di pietà e solidarietà che spesso aleggia
nelle parole della politica (e che comunque
fatica a trovare riscontro nei fatti).
Il motivo è tutto compreso nella necessità
di governare la città intera e non mutilata,
di non lasciare parti consistenti di essa al
governo di altri tipi di forze che spesso e
ovviamente sono antagoniste dello Stato.
Quando si parla della periferia pubblica
residenziale, che si tratti di San Paolo,
Scampia o degli altri nomi noti o meno noti,
si sta parlando di territori rifiutati in
maniera molteplice. È noto e palese il
rifiuto storico e iniziale, il rifiuto
politico (nel senso più ampio del termine)
di sacrificare l’interesse privato ad una
realizzazione razionale e non sconsiderata
di molti quartieri popolari; è altrettanto
evidente il rifiuto quotidiano allo status
di cittadini di serie A per tutti i
loro abitanti. Ma è necessario riflettere
anche su una realtà meno ovvia: i tanti
quartieri popolari degradati sono territori
rifiutati alla città, antagonisti ad essa,
serbatoi di risorse territoriali e sociali
sprecate. Il processo di riappropriazione
auspicato ha senso solo se reciproco: non
solo restituire agli abitanti del San Paolo
lo stato di cittadini, ma soprattutto
restituire a Bari il quartiere San Paolo.
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Figura 7 - Analisi delle principali
reti infrastrutturali nella città di
Bari |
Progetto di quartiere, progetto di città
L’esito della prima parte della ricerca,
quella tesa a inquadrare il quartiere nel
contesto più ampio di appartenenza consiste
in una bozza, un’ipotesi di strategia in 6
mosse per mettere in discussione l’area
metropolitana barese.
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Figura 8 - I principali progetti per
il quartiere San Paolo |
Immaginare:
la capacità di vedere possibilità dove per
anni si sono visti soltanto problemi da
risolvere con soluzioni più o meno
superficiali, è sicuramente il primo passo
del cambiamento. Si tratta di scomporre
Bari, trattata testardamente come se fosse
un unico blocco, riconoscere le singole
realtà e ipotizzare un processo di
ricomposizione armonica degli elementi, dove
ogni luogo giochi un ruolo positivo e non
quello classico di appendice sempre a
rischio di cancrena.
Contestualizzare:
significa per Bari riguadagnare quel
rapporto con gli ecosistemi che la
accolgono, rapporto dimenticato e in alcuni
casi compromesso da una crescita urbana che
definire disattenta è eufemistico. Prima di
tutto il mare: Bari città sul mare e non di
mare, rapporto di rispetto che regola la
relazione fra la città e il grande elemento
su cui si affaccia. Di parole se ne possono
dire molte per descrivere l’uso che Bari fa
delle sue spiagge, e questo sempre perché,
quando si parla della città, si considera
sempre e solo quella stretta fascia centrale
dell’area metropolitana. Basta però
percorrere il lungomare da Santo Spirito a
Torre a Mare per capire che l’unica regola
che sorregge il rapporto fra mare e città è
la follia. Perché solo la follia può
giustificare, non solo la sciatteria di cui
è pieno il mondo, ma la cecità di fronte ad
una risorsa economica ingente. La richiesta
che arriva da più parti per il porto
turistico consente di rilanciare con valore
turistico non solo il centro storico di
Bari, ma anche quello delle frazioni che si
trovano sul mare. Partendo, infatti, dal
potenziamento delle attività portuali per il
turismo, si potrebbe avviare una
riqualificazione del tessuto edilizio
fortemente disperso con criteri di
sostenibilità. Così anche l’avviare progetti
di recupero di un sistema di spiagge a opera
di privati sulla base di un progetto
generale, spalmato su tutta la linea di
costa cittadina, potrebbe avere il duplice
effetto di rilanciare Bari come città
turistica a trecentosessanta gradi, e di
avvicinare al mare interi quartieri che, pur
vicinissimi, non possono viverlo in nessun
modo.
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Figura 9 - Analisi morfologica del
quartiere San Paolo |
Attualmente non esiste alcuna possibilità
per percorrere in macchina o con qualsiasi
altro mezzo il lungomare per intero, e le
strade sono sottodimensionate. Questa
situazione di svantaggio rappresenta in
realtà l’occasione di creare una
infrastruttura leggera di percorsi
prevalentemente pedonali e ciclabili che
diventi il modo privilegiato di vivere il
mare.
L’attrezzatura e l’accessibilità al mare,
oltre ad avere un alto valore intrinseco, ne
hanno anche uno strumentale ad un altro
obiettivo: quello della riscoperta della
terra. È necessario infatti recuperare il
senso della profonda relazione fra il mare e
la terra di cui le lame, elementi peculiari
del paesaggio carsico, sono la
rappresentazione tangibile. Parchi come la
Lama Balice, nonostante una riconosciuta
importanza che va al di là dei confini
comunali, non sono altro che tagli sperduti
in luoghi irraggiungibili, se non vengono
interpretati per quello che effettivamente
sono: corridoi verdi che dalla collina vanno
verso il mare.
Correttamente riqualificata, la Lama Balice
potrebbe contribuire a collegare San Paolo
meglio della nuova metropolitana.
Orientare:
Quaroni, parlando del San Paolo, sosteneva
che era possibile superare l’isolamento
ipotizzando un salto di scala. Questo non è
corretto, perché non è possibile mutare la
scala del vivere quotidiano e della
percezione del mondo. Ciò che è possibile
cambiare è l’orientamento, la gerarchia che
stabilisce da cosa si è lontani e a cosa si
è vicini. Il San Paolo è e sarà sempre
lontano 7 km dal quartiere murattiano, ma
questo è così importante solo in un sistema
a forte dipendenza dal centro. La strategia
di contestualizzazione prima esposta mette
in luce che il San Paolo sorge su un
territorio privilegiato da più punti di
vista, anche se ciò è dovuto decisamente ad
una coincidenza più che alla lungimiranza di
chi ne decise la localizzazione. San Paolo
non solo è vicino al mare e si affaccia sul
suggestivo paesaggio carsico delle lame, ma
ha anche dei punti di forza tuttora
inesplorati. Il fatto di essere a metà
strada fra aeroporto, zona industriale e
scalo ferroviario rende San Paolo un nodo
logistico estremamente interessante. La
vicinanza alla zona industriale per anni ha
fatto pensare a San Paolo semplicemente come
ad un serbatoio di manodopera, mentre parte
di questo quartiere, e soprattutto la
circoscrizione, potrebbe essere rilanciata
come luogo di servizi all’impresa.
Invogliare:
pur delineata una ricca serie di scenari
positivi, non è possibile ipotizzare una
reale riabilitazione di San Paolo
senza reagire contro uno dei più grossi
handicap che gravano sul quartiere: il luogo
comune. Da molti anni si parla delle
modalità del marketing applicate alle città.
Lo stesso Pic Urban del centro storico di
Bari ha rappresentato forse la prima forma
di marketing urbano della città. Sarebbe
interessante analizzare gli effetti dello
stesso tipo di pratica all’interno della
città, finalizzato non solo (e non in primo
luogo) alla vendibilità di un prodotto, ma
soprattutto al miglioramento della qualità
della vita, una pubblicità per coinvolgere
tutti i cittadini nel processo di
ripensamento della città. Gli strumenti di
quello che potrebbe essere definito
marketing di quartiere possono essere
vari, da concerti a manifestazioni
temporanee, ma anche installazioni d’arte e
tutto ciò che possa essere di forte richiamo
e che possa aiutare a rompere quel tabù che
circonda il San Paolo.
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Figura 10 - Abaco delle strategie
proposte alla scala dell'area
metropolitana barese |
Nobilitare:
la collocazione di poli attrattivi per tutta
la città all’interno del quartiere non è
cosa nuova nell’ambito delle politiche per
il San Paolo. Le scelte degli ultimi anni
sono cadute sull’ospedale regionale e le
cittadelle di polizia, aeronautica e
finanza. È lampante che questo tipo di
insediamento possiede una capacità
attrattiva del tutto limitata, non migliora
la percezione che la città ha del San Paolo
e non innesca circoli virtuosi nel contesto
in cui si colloca. La scelta di un polo, di
una funzione pregiata da affidare al
quartiere è delicata. Questo tipo di
funzione deve rispondere sia al requisito
della forte attrattività nei confronti degli
altri quartieri, sia a quello della
compatibilità con il contesto del San Paolo.
A seguito di tutte le considerazioni fatte
in precedenza, si ritiene che fare del San
Paolo un polo culturale per Bari possa
portare a risultati interessanti sia a breve
che a lunga scadenza. La mancanza di spazi
per la cultura e la creatività, che vadano
oltre l’Ateneo o il Politecnico, rappresenta
per tutta Bari un handicap gravissimo che
penalizza pesantemente tutta la
cittadinanza. La vitalità dei piccoli teatri
è frustrata dalla mancanza di strutture
adeguate, così anche la creatività dei
cineasti, che sono sempre e comunque
costretti alla fuga dalla città. San Paolo,
anche grazie alla grande disponibilità di
spazio al suo interno, potrebbe essere il
quartiere ideale per alloggiare la sede di
uno dei teatri sperimentali di Bari o un
centro per il cinema, un tipo di struttura
che a Bari manca del tutto. Una
sperimentazione del genere costituirebbe non
solo l’occasione di sopperire a clamorosi
ritardi sul piano dei servizi, sarebbe anche
un modo per riscoprire il ruolo militante di
una cultura che sempre più spesso viene
vissuta solo come business; un modo per
cogliere la capacità che ha l’arte di
liberare la mente e infrangere i pregiudizi.
Sarebbe l’occasione per cui San Paolo e gli
altri quartieri infelici di Bari smettano di
essere solo la fonte d’ispirazione dei tanti
ritratti grotteschi della città per
diventare il laboratorio di una creatività
in atto.
Stupire:
il processo di ripensamento del sistema
metropolitano di Bari non passa solo
attraverso San Paolo. In questo arcipelago
le isole da riscoprire sono molte.
Attrezzare in modo adeguato la linea di
costa, metterla a sistema con la Lama Balice,
riqualificare il quartiere San Paolo e
connetterlo attivamente alle dinamiche
metropolitane: si tratta di azioni
prioritarie e strategiche che possono fare
da volano alla riscoperta di altri scenari
in attesa di essere valorizzati. Del tutto
inesplorata è la possibilità di cura e
tutela del paesaggio agricolo all’interno
dei confini comunali, nonostante il profondo
significato che esso rivesta per la cultura
della terra di Bari. Il paesaggio agricolo,
la sua relazione con le lame, la
valorizzazione delle numerosissime masserie
tutelate solo sulla carta, rappresentano
solo alcune delle chiavi interpretative per
leggere quel tessuto connettivo di centri su
cui tanto si gioca il futuro della città. È
ancora valida l’idea di Quaroni di
reinterpretare Bari come una rete di centri,
ma questa prospettiva va riletta in maniera
contemporanea e sostenibile. La creazione di
un sistema delle centralità diffuse che
scardinino il policentrismo debole e
gerarchico presente attualmente, infatti,
non è legata tanto alla creazione di potenti
assi viari e grandi rotatorie, quanto alla
capacità di sovrapporre all’infrastrutturazione
pesante presente una maglia di percorsi
leggeri che seguano la valorizzazione
delle numerose risorse ambientali,
artistiche e culturali.
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Figura 11 - Abaco delle proposte
progettuali alla scala del quartiere |
La scala del quartiere: progettare la
normalità
Una città riuscita, una città bella
da vivere, una città che fa felici i propri
abitanti, è il risultato di un’alchimia in
cui si compongono in delicato equilibrio
fattori di natura diversa. Se condizione
sociale, insieme di politiche, modi di
vivere, centralità o marginalità rispetto a
scenari più ampi, tasso di occupazione e
livello culturale giocano sicuramente la
parte più consistente della partita, non si
può nemmeno credere che il disegno urbano
sia soltanto lo scenario indifferente di
tutto quello che è una città.
Elementi squisitamente morfologici di un
aggregato urbano, il più delle volte,
rivestono il duplice ruolo di componente
funzionale e di oggetto simbolico evocativo
per la collettività.
“La forza del sogno e del desiderio non è
inferiore nel modellare la città nuova a
quella del profitto o della rendita
differenziale” (Amendola G., 1997).
Prodotti urbani come San Paolo sono
doppiamente modellati dalla componente
simbolica: innanzitutto dall’immagine
negativa che dall’esterno viene proiettata
su di essi aderendovi in maniera totale e,
all’interno, dalla mancanza di qualsiasi
elemento che si discosti dalla semplice
funzione abitativa.
Gli stessi abitanti del quartiere avvertono
profondamente la frustrazione di un ambiente
urbano mancato, tanto da compiere un esodo
quotidiano che va al di là della ragione di
un pendolarismo forzato per assumere i
connotati di un viaggio esistenziale nel
cuore della vita.
Il progetto del quartiere, però, deve
sapersi confrontare con una scala minuta, e
non solo per motivi contingenti quali la
difficoltà di reperire finanziamenti per un
tipo di intervento a forte impatto
sull’esistente, ma perché la strategia della
normalità è fatta di piccoli obiettivi, non
per questo meno importanti.
Si è già visto come il modello di crescita
del San Paolo seguito fino a questo momento,
fatto di grossi interventi che si andavano a
contrapporre a quelli precedenti, non ha
avuto altro risultato che il sommarsi delle
solitudini.
Una riqualificazione del tessuto urbano, per
ottenere la massima efficacia sull’area più
estesa, deve seguire il metodo del rammendo:
utilizzare le singole componenti di una
materia, apparentemente inerte, come la
risorsa prima di un progetto, lavorare sulle
aree interstiziali lasciate in abbondanza
dalla sciatteria del disegno urbano che si
eredita.
Il lavoro sulle piccole cose non deve
perdere di vista gli obiettivi generali che
persegue, la forte progettualità che lo
sorregge.
Per questo motivo si ripropone la strategia
in più tappe, che però assume un significato
diverso dalla strategia dell’area
metropolitana. Se per la città di Bari si
tratta di un insieme di grandi ipotesi da
conseguire in fasi successive, nel caso del
quartiere si propone una sequenza di
priorità, un insieme di valori simbolici cui
gli interventi fisici devono dare risposta.
Gli scenari possibili che si prospettano
sono diversi, e i grandi obiettivi possono
essere declinati in maniera differente a
seconda delle possibilità, ma anche delle
reazioni che il contesto mostra rispetto
agli input che riceve.
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Figura 12 - Proposte per il parco
della Lama Balice |
Immaginare
che questo aggregato di episodi urbani
differenti, chiusi alla comunicazione
reciproca, possano diventare un organismo
dominato da regole di funzionamento e dalla
collaborazione fra le parti.
Nobilitare,
restituire il cuore ad una città senza
anima, recuperare il mito dell’agorà, il
luogo dove sentirsi cittadini, il punto di
partenza per ricostruire una comunità. Gli
enormi vuoti lasciati a disposizione dalla
pianificazione precedente, da essere
monumento all’assurdità, diventano
un’occasione progettuale di grande valore.
Il processo di umanizzazione del vuoto
permette di interpretare in modo differente
gli spazi a disposizione, creando episodi
urbani che, mantenendo la memoria di
dimensioni che ci sono sempre state, ne
stravolgono il senso: dal vuoto come
alienazione, al vuoto come strumento fisico
della coesione.
Orientare
in questo caso significa indicare la via,
intervenire sullo spaesamento che rende il
San Paolo difficilmente percorribile.
Significa seguire le tracce di quelli che
appaiono gli assi principali e completarli,
significa dare la continuità visiva e fisica
all’esperienza dell’attraversamento.
Intervenire sulla sezione delle vie
principali con i materiali, piantumando con
essenze mediterranee che ricordino che
questa terra di nessuno ha una collocazione
geografica precisa. Tematizzare, arricchire
di suggerimenti sensoriali il procedimento
di comprensione del quartiere.
Invogliare
al percorso e, tornato il cuore a battere,
far scorrere la linfa vitale di ogni città,
che è la gente per la strada. Ipotizzare
modi differenti per collocare tutti i
servizi mancanti in modo che vadano a
soccorso della strada, che rappresentino il
primo colpo alla città dei cancelli.
Ripensare al valore della strada è il primo
passo per restituire sicurezza e fiducia
agli abitanti che dalla strada si
proteggono.
Contestualizzare,
valorizzare le risorse ambientali presenti,
prima fra tutte la Lama Balice come
strumento di rilancio del quartiere.
Aumentare la permeabilità e gli scambi fra
il costruito e la grande infrastruttura
naturale su cui questo si affaccia. Inserire
le attrezzature per il parco nel tessuto del
quartiere, come occasione economica e come
opportunità di ritrovare una nuova identità
territoriale.
Lo stupore
è la conseguenza di questa matrice
moltiplicatrice di scenari. Una volta
sbloccati i nodi che hanno per anni
compromesso un uso completo del quartiere,
si può procedere anche alla valorizzazione
di tutti quegli spazi residuali in cui oggi
è difficile intravedere potenzialità alcuna.
Densificare
è il metodo alternativo di crescita
proposto. L’aumento di unità immobiliari,
considerato per anni l’unica cura per il San
Paolo, deve diventare un mezzo per
ricomporre un disegno urbano lacunoso,
proponendo modelli insediativi differenti
che arricchiscano la scena preesistente
instaurando un rapporto dialettico con essa.
I nuovi edifici, recuperando di volta in
volta rapporti differenti con la strada, con
il parco, con la zona industriale, avranno
il compito di essere pionieri di nuove forme
e soprattutto di affollare un quartiere
ammalato di deserto.
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