Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Paesaggi dismessi, rifiutati, riciclati, partecipati, edificati...


Mila Sichera


 

La Giunta della Regione Lombardia, prendendo coscienza dei processi di deterritorializzazione in atto, approva nel 1996 un documento di programmazione nel quale si propone una positiva inversione di tendenza. L’istituto dell’accordo di programma viene sperimentato a Sesto S. Giovanni, caso emblematico di deindustrializzazione nel panorama italiano. Mila Sichera descrive come la città, dopo avere ospitato il quinto centro industriale italiano, abbia conosciuto una crisi sociale ed economica tale da costringerla a prefigurare scenari futuri in anticipo rispetto ad altre città italiane

 

 

Paesaggi dismessi, Paesaggi rifiutati

 

“Ciascun territorio è unico per cui è necessario riciclare, grattare una volta di più (ma possibilmente con la massima cura) il vecchio testo che gli uomini hanno inscritto sull’insostituibile materiale del suolo, per deporvene uno nuovo, che risponda alle esigenze d’oggi, prima di essere a sua volta abrogato” (Corboz A., 1983).

Quanto afferma Corboz, autorizza a leggere con un’accezione ampia i paesaggi rifiutati da riciclare, enumerando fra questi ad esempio i paesaggi delle aree industriali dismesse, quelli che, ormai privi di una funzione produttiva, diventano dei buchi neri. Deserti, spazi smisurati privi di un’identità, voragini dentro i tessuti urbani consolidati, percepiti da tutti con disagio.

Vissuti dai cittadini o meglio dai passanti, come spazi ostili, enclaves spettrali, luoghi di insediamento di emarginati, immigrati, zingari, giostre e discariche abusive; intesi dai sociologi e dagli esperti di statistica come indicatori del calo occupazionale, della perdita di specifiche strutture produttive e della modifica delle strutture sociali; riconosciuti dagli economisti e dagli operatori finanziari come depositari di cospicui valori immobiliari e, infine, dagli urbanisti e dai pianificatori come spazi problematici, difficili da gestire per la loro superficie, in cui le dimensioni metriche non possono essere interpretate unicamente in base a parametri economici, ma richiedono una riflessione riguardo agli investimenti necessari per la riconversione produttiva, per l’insediamento di attività pubbliche o private, rivolte ad un uso del suolo non soltanto residenziale, ma anche commerciale, terziario, ricreativo e culturale.

“Dismissioni di edifici e di aree industriali, di impianti, di attrezzature e infrastrutture urbane, di ospedali, di caserme, di scuole, di scali e linee ferroviarie, di stazioni, di banchine portuali, di cave e miniere, di strade e canali” (Secchi B., 1987), nelle città grandi ma anche nelle piccole, in Italia e in Europa, già a partire dalla fine degli anni ’60 e agli inizi degli anni ’70. Ma mentre in Inghilterra, in Francia, in Danimarca, in Olanda venivano avviate ben presto azioni politiche capaci, almeno in parte, di proporre soluzioni positive, in Italia la crisi non percepita sopraggiungeva generando una lunga fase di impasse, aprendo laceranti controversie tra conservazione e innovazione, producendo “vuoti ancor più rilevanti dentro il tessuto sociale, istituzionale e culturale di ciascun paese e di ciascuna regione”, senza riuscire a lasciare “nel palinsesto di ciascuna città e di ciascun territorio, tracce profonde (…) di un evidente passaggio epocale” (Secchi B., 1995).

I vuoti avrebbero potuto rappresentare un’occasione per tessere trame sociali ormai sfaldate, una possibilità per ripensare forme urbane e architettoniche più confacenti e funzionali alle necessità della vita moderna, un’opportunità per intervenire correttamente all’interno dei perimetri urbani, raschiando delicatamente una volta di più la superficie, per trovare le tracce e i sedimenti lasciati dalle generazioni trascorse: “Gli abitanti di un territorio cancellano e riscrivono incessantemente il vecchio incunabolo del suolo” (Corboz A., 1983). Invece, lo sbandamento dei vuoti ha innescato processi di deterritorializzazione che hanno annullato gerarchie e forme sedimentate dell’abitare e del produrre, dando il via al decentramento produttivo, all’economia sommersa, ai distretti industriali, alla campagna urbanizzata e alla città diffusa, indicatori della “dispersione delle politiche” (Secchi B., 1995) territoriali italiane.

“Il processo generale di deterritorializzazione comporta effetti a cascata sul paesaggio, sull’ambiente, sulle relazioni sociali” (Magnaghi A., 2000). Così è avvenuto in Lombardia, che tra le realtà italiane è la più emblematica della dismissione industriale (3.000 ha di aree dismesse a metà degli anni ’90), perché regione fra tutte, a maggior “diffusione storica di complessi industriali e artigianali connessi all’abitato o a grandi valori ambientali” (Viganò A., 2001). Una regione dalla complessa orografia, in cui la localizzazione degli insediamenti produttivi era stata dettata dalla presenza di laghi, di fiumi e di servizi e da un’elevata quantità di manodopera indigena, proveniente da quelle centinaia di piccoli paesi, disseminati in tutta la regione. Un connubio tra ambiente produttivo e insediamento urbano, che aveva segnato, con stratificazioni successive, l’identità dei luoghi durante il tempo lungo della storia industriale.

Negli anni ’80, con la crisi del fordismo e della produzione di massa, matura progressivamente una scissione netta tra modificati modelli economico-aziendali e non più rispondenti modelli architettonico-urbanistici, a causa dell’incompatibilità tra attività produttive e standard di sicurezza ambientale all’interno dei centri abitati, ma anche per ragioni funzionali, legate al riassetto produttivo delle aziende che, richiedendo nuove tecnologie, minor personale e ridotte superfici produttive, necessitano di forti investimenti di adeguamento produttivo e di bonifica ambientale, quale risarcimento per le risorse sottratte alla comunità e per ragioni economiche, legate al valore posizionale delle aree produttive che, inducendo alla dismissione del sito, ne prospettano la rilocalizzazione in aree più periferiche, in vista di un reinvestimento finanziario, generato da appetibili operazioni immobiliari.

Processi di deindustrializzazione, di riconversione e rilocalizzazione produttiva i quali generano processi di deterritorializzazione, riducendo i luoghi a spazi connettivi tra funzioni, organizzando sistemi funzionali lineari, adeguati ai modelli reticolari e degerarchizzati della città diffusa, pervasiva e tentacolare, che distrugge le morfologie insediative dei luoghi e i connessi contesti ambientali e disgrega le trame sociali.

La Giunta della Regione Lombardia, prendendo coscienza di tale realtà, ha approvato nel 1996 un documento di programmazione “Linee di indirizzo per lo sviluppo territoriale della regione Lombardia”, nel quale si propone un’inversione di tendenza, nei riguardi del dissennato consumo di suolo, rispettando tuttavia, le caratteristiche industriali e manifatturiere della regione, prediligendo nelle azioni di recupero e riqualificazione delle aree dismesse la riconversione produttiva dell’area in settori tecnologicamente avanzati a più elevata compatibilità con il tessuto urbano circostante, o in alternativa, in casi limitati, ricercando mix funzionali tra attività produttive e servizi a scala urbana, o inserendo l’area nel sistema degli spazi verdi, dopo un’adeguata bonifica dei suoli.

Si tratta di un manuale di buone pratiche per lo sviluppo del territorio lombardo che supporta la Lr 30/1994 “Interventi regionali per il recupero, la qualificazione e la formazione delle aree da destinare a nuovi insediamenti produttivi”, e inserendosi a sua volta in un nuovo trend legislativo, sollecitato dall’Unione europea e dal governo nazionale, sancisce l’interesse della regione per proposta o in accordo con enti locali, operatori economici (singoli o associati) e organizzazioni dei lavoratori, a definire le regole e le tipologie di intervento per le aree in crisi e per il reinsediamento delle piccole e medie imprese e apre una strada innovativa, tentando di fondere la sfera economico-produttiva con un’adeguata azione pianificatoria, generata dalla concertazione di una pluralità di soggetti, perseguendo finalità integrate di promozione del contesto locale considerato.

Con questa legge affiancata dalla Lr 2/2003 “Programmazione negoziata regionale” vengono pertanto ridisegnate le geometrie delle relazioni istituzionali tra centro e periferia, individuando negli accordi a base territoriale, nuovi modelli d’azione, frutto di un processo di negoziazione tra attori, che liberamente contrattano la loro partecipazione a progetti d’interesse comune. L’istituto dell’accordo di programma è stato ampiamente sperimentato a Sesto S. Giovanni, caso emblematico di deindustrializzazione nel panorama italiano, area-problema che ha segnato in maniera significativa il rapporto tra mutamenti della struttura produttiva, trasformazioni sociali e territoriali, politiche pubbliche.

 

 

Sesto S. Giovanni, paesaggi di fabbriche

 

“Città delle fabbriche”, un appellativo usato e abusato negli anni trascorsi, che racchiude sinteticamente la vera identità di Sesto nel XX secolo. Dopo essere stata nel dopoguerra il quinto centro industriale d’Italia, ha conosciuto uno dei fenomeni di dismissione più imponenti della penisola (superficie territoriale comunale destinata a impianti produttivi industriali pari al 25% del totale). Questa realtà così macroscopica ha generato una altrettanto macroscopica crisi a livello sociale ed economico, costringendo Sesto a prefigurare per sé scenari futuri, più velocemente di quanto non abbiano fatto altre città italiane.

Oggi la “città delle macchine” fa parte della memoria storica di Sesto, che per non dimenticare le sirene che squarciavano l’aria grigia e nebbiosa, carica di polveri e fatiche, ha pensato di costruire il Museo dell’industria e del lavoro e di allestire un percorso storico, all’interno della città, segnato dalla presenza di totem, capaci di generare fieri ricordi del passato e positivi intenti di crescita della “città del futuro, che si dovrà costruire”, con la speranza che “possa radicarsi su quella solida base, costituita dalla tavola dei valori elaborata nel corso del Novecento” (Vimercati L., 2003).

Viene da chiedersi se le diffuse pratiche politiche e associative potranno, ancora una volta, far leva sulla vitalità di un tessuto sociale, forgiato dalle trasformazioni e dai mutamenti del mondo industriale, per riconvertire il patrimonio collettivo materiale e immateriale acquisito nel XX secolo e se i nuovi strumenti legislativi potranno concretizzare dopo un secolo e mezzo le idee innovative di Carlo Cattaneo. Giungono, infatti, segnali contraddittori che rendono plausibile qualche dubbio: da un canto pare che Sesto abbia ancora in mente per sé il profilo di una delle cento città italiane, con “una persona politica, uno stato elementare permanente e indissolubile” (C. Cattaneo, 1858), dall’altro l’applicazione degli strumenti della programmazione negoziata conferisce tali maggiori capacità decisionali e libertà nel processo attuativo, che inducendo la possibilità di gestire le ordinarie politiche di intervento sulla città e il territorio in maniera agile ed efficace, genera a volte trasformazioni ardite e, spesso, non rispettose della tradizione sestese.

 

 

Sesto S. Giovanni, paesaggi del lavoro

 

L’antico borgo agricolo, sorto al sesto miglio dalla Porta Argentea sulla strada che da Milano conduceva a Olginate, passando per Monza, era ancora a metà dell’800 costituito da un nucleo di case e botteghe (3.500 ab.), da poche cascine sparse e da alcune ville di signori milanesi, che lì trascorrevano un periodo di villeggiatura. I terreni posti al di là della linea dei fontanili, erano asciutti e trovavano nel fiume Lambro e in altri corsi d’acqua minori la loro risorsa idrica, fondamentale per la coltivazione della terra e per la produzione serica, praticata a sostegno dell’agricoltura.

Nel 1840 era tuttavia già sorta sul territorio di Sesto la ferrovia Milano-Monza, quell’infrastruttura che ne avrebbe cambiato la storia, proiettandola col proseguimento della rete fino al S. Gottardo (1882), al centro dell’Europa e in diretto contatto coi territori ricchi di carbone, che avrebbe, di lì a poco, costituito la risorsa fondamentale, assieme a quella idrica, per l’insediamento delle attività industriali. Tuttavia Gian Paolo Semino, recuperando la tradizione estrattiva dell’arco alpino a partire dal ’400, riconosce a Sesto, per la sua posizione di crocevia di strade, un ruolo territoriale notevole nel Bacino della Brianza, regione che già allora poteva essere interpretata come area metropolitana milanese ante litteram.

L’armatura infrastrutturale del territorio fu successivamente incrementata con la realizzazione della tramvia a cavalli (1876), poi elettrificata (1901), mentre quella stradale era già stata definita nei primi decenni dell’800, con l’apertura della Strada Veneta verso i ponti dell’Adda, della Via Militare verso Monza e delle strade di valico del Sempione, dello Spluga e dello Stelvio. Se a ciò si aggiunge la notevole portanza dei terreni, il loro basso costo, un regime fiscale favorevole e la non ultima intraprendenza di Giulio Vigoni (diventerà in seguito sindaco di Sesto), che offrì ai suoi amici, ricchi imprenditori milanesi, vaste aree del territorio sestese di sua proprietà, a prezzi sicuramente più appetibili rispetto a quelli di Milano, la storia di Sesto, piccola Manchester d’Italia, è presto delineata.

La ripresa industriale degli inizi del ’900 aveva spinto molte aziende ad abbandonare il territorio di Milano e a cercare altrove suoli liberi, disponibili a vasti insediamenti. Gli elementi favorevoli presenti sul territorio sestese permisero in pochi anni l’insediamento della Campari, della Breda, delle Pompe Gabbioneta, della Ercole Marelli, delle Acciaierie Falck e ancora dell’Osva, della Maggi, della Distillerie Moroni e di un’enorme quantità di imprese piccole e medie, attive nei settori leggeri.

Nel 1913 la nuova composizione urbana e sociale, che sarebbe diventata ben presto politica e culturale, aveva preso forma e la città con i suoi abitanti si avviava verso una delle esperienze più paradigmatiche dell’industrialismo italiano. La grande guerra, infatti, non scalfì il successo economico degli imprenditori sestesi, che seppero trarre, anche dalla difficile situazione bellica, incentivi alla modernizzazione e alla competitività internazionale.

All’esterno dei recinti industriali, il tempo del lavoro e della produzione, modellava il paesaggio urbano e permeava la cultura della società. Gli insediamenti industriali, voraci di suolo occupavano più di un terzo della superficie comunale e lasciavano alle residenze operaie solo spazi di risulta, incuneati spesso tra le fabbriche e le infrastrutture stradali o ferroviarie. La trama insediativa del vecchio paese agricolo fu fagocitata dalla rapida crescita di fabbriche e residenze operaie; l’amministrazione locale non fu in grado di rispondere tempestivamente, in termini di servizi e infrastrutture, alle esigenze di una popolazione più che raddoppiata in pochi anni, a causa della mancanza di fondi e di lungimiranza politica.

Così fino agli anni ’20, le grandi imprese milanesi che non avevano previsto un piano di riassetto urbano del piccolo centro, contemporaneo al progetto di sviluppo e di espansione industriale, governarono la crescita urbana, costruendo quartieri operai, alloggi per i pendolari, villini per gli impiegati, brani di città sopraffatti dalla maestosità delle cattedrali del lavoro che li fronteggiavano, luoghi urbani fortemente introversi, in cui si sviluppò la città corporativa. Solo negli anni ’30 e in maniera più considerevole nel secondo dopoguerra, il governo del territorio urbano tornò all’amministrazione pubblica o meglio tornò alla comunità locale. Gli anni della guerra e della Resistenza avevano infatti formato la coscienza civile della comunità sestese, avevano costruito la società del lavoro.

Il mondo della grande fabbrica esercitava un forte fascino su tutti: era un universo all’interno del quale “si trasferivano e si acquisivano saperi generali e capacità specifiche, in cui si esprimevano competenze e socialità, intelligenza produttiva e piglio organizzativo, forme di solidarietà e spinte conflittuali” (Piluso G., 2003). Il rinnovato spirito positivo e propositivo degli anni del boom economico, la solidarietà professionale e le varie culture associative cattoliche e social-comuniste, permisero di sostituire il welfare delle imprese con quello pubblico, di “combinare il conflitto sociale con il governo della città, la lotta di classe con il buon governo”.

Petrillo, nella lucida analisi del mondo sestese che introduce il saggio di Berti e Donegà, scrive: “Una volta stabilito che la fabbrica era alla base di tutto, l’amministrazione popolare si prodigò inconsapevolmente a interpretare al meglio la più recondita ambizione degli operai di fabbrica: abbandonare la fabbrica, mimetizzarsi, mescolarsi ai bottegai, ai farmacisti, agli insegnanti, alla gente. Se non loro in persona, i loro figli. Far dimenticare che a Sesto c’erano le fabbriche, con i loro rumori, la loro sporcizia, la loro fatica: questo sembra essere stato il vero punto d’onore delle forze politiche e amministrative che traevano la loro legittimità dalle fabbriche, in un tempo in cui i padroni delle ferriere detenevano addirittura la proprietà di quasi la metà dell’intero territorio comunale”.

 

 

Sesto S. Giovanni, paesaggi industriali in declino

 

Le “capacità di autogoverno” (De Bernardi A., 2003), manifestate dalla comunità sestese nel secondo dopoguerra, inducevano a confidare, a metà degli anni ’90, nelle possibilità di resistenza al disorientamento, seguito alla scompaginazione della “società del lavoro”, avvenuta con la chiusura delle grandi fabbriche. E la politica, intesa come arte del governo della città, si sarebbe potuta rivelare quale chiave di volta per risolvere la crisi di Sesto S. Giovanni, connotandosi di pratiche partecipate e condivise, per condurre la trasformazione post-industriale della città, assieme a quella di tutto il Nord Milano.

Si può affermare, infatti, che il nuovo elemento introdotto nelle politiche successive alla dismissione sia stato proprio la dimensione territoriale degli interventi, intuizione già presente nel piano di Bottoni, che aveva previsto nella “vecchia città-fabbrica” l‘innesto di una nuova città, aperta alle relazioni intercomunali con la presenza di una serie di centri di lavoro e di infrastrutture organizzative; un nuovo sistema di centralità civiche che avrebbe utilizzato il sistema della città corporativa dell’anteguerra, per integrare “la città per parti” voluta dalla grande industria.

Chiamato a intervenire, nel 1962, su un tessuto urbano fortemente connotato dalla presenza industriale e urbanizzato per il 95% della sua superficie, Piero Bottoni aveva intuito che perseverare “con l’aumento a qualunque costo delle zone di lavoro e produzione”, sarebbe stata una scelta col tempo insostenibile e avrebbe congestionato ancor più la città, che necessitava piuttosto di un rapporto più equilibrato tra industrie, residenze, servizi e aree verdi. Sarebbe azzardato supporre che Bottoni avesse già intuito il declino del sistema sestese, secondo una visione biologica, che interpreta la crisi connaturata al sistema stesso (non da ascrivere a cause esogene, quale il tracollo mondiale della siderurgia degli anni ’70); tuttavia, la prefigurazione di una “Sesto città moderna e industriale, con un centro di interesse ambientale e storico artistico che forse nessuna delle città sorelle del territorio industriale lombardo può vantare”, lascia spazio per pensare che egli volesse dare a Sesto l’opportunità di emanciparsi dalla propria immagine stigmatizzata di “città delle fabbriche”.

 

 

Paesaggi riciclati, paesaggi partecipati

 

“… Il sito, le sue risorse naturali, le relazioni e i collegamenti costruiti nei secoli, la cultura e la memoria promuovono una rinascita. E condizionano i modi in cui la comunità esce dalla crisi, dalla frattura che segna la sua storia, per avviarsi a costruire una nuova identità” (Bergamaschi M., 2003).

Un processo lungo più di vent’anni, durante i quali Sesto ha proposto per sé nuovi abiti, nuove immagini: “città simbolo della salvaguardia ambientale; città simbolo del volontariato e del terzo settore; città della comunicazione; nuova città del lavoro; parte strategica di una grande città del consumo (Nord Milano)” (Visco Gilardi L., 2001), riciclando in ciascuna di esse parti peculiari della sestesità che “abbracciava tutti: ricchi e poveri, padroni e operai, comunisti socialisti e democristiani, preti e sindacalisti” (Piluso G., 2003) e che trovava la sua massima estrinsecazione nelle pratiche partecipative e nell’esercizio della “voce” (Hirschman, 1987), unico strumento capace di “veicolare le espressioni del consenso e del dissenso” (Berti, Donegà, 1992) e di produrre azioni considerate “investimenti nell’identità individuale e di gruppo” (Hirschman, 1987).

Indubbiamente dopo la drammatica “rottamazione sociale” (Penati F., 2001), succeduta alla strenua e vana difesa degli impianti, che i capitani della grande industria progressivamente smantellavano, alle migliaia di lavoratori, espulsi dal mondo produttivo sestese, non fu più consentito l’esercizio della “voce”: per essi delusi dal fallimento, era possibile soltanto “l’uscita” (Hirschman, 1987) dal sistema della grande fabbrica. Tuttavia la conclusione del lungo ciclo di Sesto “città delle fabbriche”, pur diffondendo “comportamenti e strategie di tipo egoistico in un ambiente prevalentemente regolato da relazioni di mercato” (Berti, Donegà, 1992), a causa delle mutate condizioni dei lavoratori, da dipendenti ad autonomi, ha innescato col tempo, nuovi processi partecipativi, non più a scala locale ma a scala territoriale.

La costituzione nel 1995 dell’Agenzia di sviluppo Nord Milano (Asnm), società per azioni a capitale misto pubblico-privato, compartecipata dal Comune di Sesto San Giovanni, dalla Provincia di Milano e dal gruppo Falck ed inoltre dal 1996 dai Comuni di Bresso, Cinisello e Cologno Monzese (cui si aggiungono Finlombarda e Svi, finanziaria dell’Iri, Camera di Commercio e Comune di Milano, gruppo internazionale Asea Brown Boveri-Marcegaglia e Fratelli Pasini) ha manifestato la nuova dimensione identitaria cercata: non più cittadini di Sesto ma cittadini del Nord Milano. L’Asnm ha “progettato, promosso e attuato indirizzi strategici e progetti speciali, finalizzati al marketing territoriale e alla valorizzazione socio-economica e ambientale dell’area; progetti che per loro natura e dimensione esulano dalle ordinarie competenze degli enti locali” (Salone C., 1999) andando dalla reindustrializzazione di alcune aree dismesse al sostegno all’interno di incubatori d’impresa di attività imprenditoriali innovative nel settore biotech e multimediale (supportate da centri di ricerca pubblici e privati e dall’Università degli Studi di Milano Bicocca), dalla creazione di un Business Innovation Centre ad un Centro risorse per l’impresa sociale, dal Concorso internazionale per la realizzazione di un parco urbano nelle aree dismesse Falck alla riqualificazione del Parco della Media Valle del Lambro e del Parco Nord, dall’Agenda 21 del Nord Milano al Piano strategico del Nord Milano, fino all’insediamento a Sesto della nuova Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Statale di Milano e di alcune fra le più prestigiose emittenti radiotelevisive nazionali ed internazionali.

 

 

Paesaggi edificati …

 

A dieci anni dalla costituzione dell’Asnm si può affermare che la rinascita di Sesto, avviata col sostegno di Cinisello, Bresso e Cologno, attraverso prassi partecipative e politiche negoziali, praticate a tutte le scale territoriali, in un’ottica di governance istituzionale, sostenuta dalla costruzione di una nuova identità sociale, capace di riciclare la sestesità del ‘900 e come questa in grado di intervenire positivamente, realizzando una “coalizione locale di sviluppo”, ha permesso ai soggetti coinvolti di partecipare al processo di trasformazione dell’area, mettendo a disposizione le loro risorse.

Una scelta oculata da parte di tutti gli attori che hanno avviato il processo se, a febbraio del 2005, l’Asnm ha ricapitalizzato la Spa modificando la sua denominazione in “Milano Metropoli”!

Ciò induce a pensare che l’agenzia abbia voluto liberarsi dell’identità sestese, lusingata dalla rinnovata attrazione che Sesto suscita da qualche tempo sul popolo milanese con i suoi numerosi locali trendy (primo fra tutti lo Zelig Circus) e abbia accettato per la vecchia “città delle fabbriche” la nuova condizione di “città-quartiere a quindici minuti da Piazza Duomo” (F. Terragni).

E l’autonomia amministrativa, le dichiarazioni di inveterata identità sestese, le visioni di Cattaneo e il mito del Nord Milano? Evanescenti … Sesto sarà una nuova propaggine della tentacolare megalopoli padana, che ha trovato nei milioni di mq di aree dimesse, un nuovo serbatoio per il mercato immobiliare, eternamente assetato di superfici da edificare. Lo skyline della nuova Sesto, non più contraddistinto dalle affumicate ciminiere della Falck e della Breda, è già segnato da iperboliche gru, che ne modificheranno definitivamente l’anima, versando milioni di mc di calcestruzzo sul vessato suolo dell’antica “Stalingrado d’Italia”.

Sembrano dunque ben lontani e diversi i problemi dei territori rifiutati e riciclati in altre parti del paese. Sembrano persino opposte, rispetto ad esempio a quelle della Campania (che pure ha vissuto l’esperienza di Bagnoli), le cause che a Sesto generano iniziative di riuso.

Ma questa considerazione, a prescindere dall’unificante problema di dismissione industriale, rimarca anche i differenti caratteri del ciclo industriale privato del nord e di quello di Stato al sud.

Il coinvolgimento partecipativo dei tanti capitani di finanza (non più tanto d’industria) alle iniziative di riuso delle aree private dismesse a Sesto si spiega infatti con l’interesse diretto che essi mostrano alle più o meno lucrose trasformazioni fondiarie che ne possono derivare.

Lo stesso non trova riscontro a Bagnoli, dove l’unico conflitto d’interesse degli operai pre-pensionati avrebbe potuto valere sulla sola titolarità del paesaggio, ammesso che la dismissione avesse lasciato a questo la dignità biologica capace di caratterizzarne un’identità rugginosa, e ammesso che il concetto di paesaggio possa suscitare interesse costituzionale diffuso ad una sua tutela, in chi non ha più la dignità del suo lavoro. Ma è sicuro che nemmeno a Sesto, dove pure sono avanzate le esperienze partecipative, gli operai pre-pensionati abbiano trovato posto, per difendere l’identità post-industriale del proprio paesaggio, al tavolo concertativo …

 

 

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