Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

Presentazione

Sommario

Editoriale

Osservatorio Europa

Osservatorio Italia

Osservatorio Campania

La provincia di Salerno

Le province campane

Università e Ricerca

Antologia

Recensioni

Giurisprudenza

 Autori del numero

 Home

 

In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Territorio della produzione... territorio rifiutato?


Alessandro Bove


 

Dalla densificazione delle attività industriali sul territorio, con modalità e forme scoordinate dai sottosistemi della mobilità e avulse dalla stessa quotidianità di vita delle popolazioni, al superamento della pratica della concentrazione spaziale, frutto di necessità legate alla crescente esigenza di flessibilità e dinamicità del lavoro. Alessandro Bove, con tratto breve ma efficace, riassume la parabola dell'impatto urbanistico delle attività produttive, sino a proporre ipotesi diriconversione di un esteso patrimonio immobiliare

 

 

Considerare gran parte del territorio veneto come territorio della produzione significa descrivere la crescita insediativa che si è avuta dal secondo dopoguerra ad oggi. È in questo periodo, infatti, che il gap in termini di produzione industriale tra questa e altre regioni italiane viene colmato e inizia un legame simbiotico tra le vicende urbanistico-territoriali e lo sviluppo manifatturiero.

Sia le imprese di più vecchia fondazione che le più recenti, avendo trovato un ambiente fecondo per il loro sviluppo grazie alla presenza di materie prime e al notevole sforzo di infrastrutturazione, avevano creato fenomeni di urbanizzazione di notevole importanza. Si trattava per lo più di grandi industrie capaci di dare lavoro, anche attraverso il sistema dell’indotto che creavano, a quantità sempre crescenti di lavoratori.

Questo aveva portato alla creazione di una struttura territoriale policentrica1. La dimensione di questi centri era variabile, con una forte preponderanza verso quelli di media grandezza. Il polo fungeva così da attrattore e attorno ad esso si sviluppavano dei cluster caratterizzati principalmente da un’unica specializzazione produttiva e dalle attività di supporto e di filiera. L’industria ricopriva dunque il ruolo di catalizzatore della crescita, di elemento ordinatore all’interno dei bacini di mobilità casa lavoro.

Nei territori al di fuori dell’area centrale veneta, in particolar modo nelle Province di Belluno e Rovigo e, più in generale, in tutta la fascia montana, l’insediamento industriale trovava difficoltà a diffondersi per l’inadeguatezza delle connessioni infrastrutturali, per la mancanza di spazi con caratteristiche idonee e/o per la presenza di differenti vocazioni produttive, come ad esempio quella ortofrutticola nel rodigino.

In questa fase di concentrazione locale di attività il territorio rifiutato era quello marginale, in cui causa ed effetto di questa situazione erano intrinseci alle invarianti territoriali dell’orografia e dell’infrastrutturazione.

Quindi un territorio in cui continuava a prevalere la dimensione naturale delle cose, in cui l’uomo, o meglio, la fabbrica, non erano riusciti a creare un sistema di coordinamento e di controllo. Non fare parte dell’industrialismo2 significava non partecipare all’insieme di strategie atte a coordinare l’attività umana con la produzione, a gestire in maniera univoca territorio, trasporti, comunicazione e quotidianità.

Successivamente l’andamento ciclico, alti e bassi, dell’economia, legato all’altalena dei prezzi del greggio, alle lotte sindacali, all’aumento dei costi di produzione, ad un mercato del lavoro sempre più costoso, portò alla crisi della grande impresa; nacque la necessità di superare il concetto di concentrazione legato al polo attrattore della grande industria per favorire sistemi più flessibili e dinamici capaci di creare valore aggiunto. Prendeva così corpo il sistema produttivo della piccola e media impresa, facilitato da un mix di propensione all’imprenditorialità, dalla diffusione di know how all’interno del sistema locale manifatturiero e dall’alto livello di specializzazione3.

Ciò produceva in termini insediativi un diffuso “coagulo di localismi produttivi”4 favoriti da una legislazione in materia urbanistica piuttosto permissiva5; a riscontro cresceva la domanda di nuove aree industriali e artigianali, che venivano localizzate lungo le principali direttrici infrastrutturali e, accanto a queste, si propagava il diffuso produttivo attraverso l’occupazione puntuale in vasti brani di territorio agricolo. Il disequilibrio dettato dall’autonomismo progettuale-attuativo comportava dunque il progressivo superamento della struttura policentrica verso un’organizzazione reticolare in cui, se i nodi erano già storicamente definiti, le maglie venivano identificate negli insediamenti lineari lungo gli assi di comunicazione. Qui l’alternarsi continuo di porzioni residenziali e produttive favoriva la formazione di uno schermo visivo verso il territorio non urbanizzato e lo sviluppo di un sistema connettivo reticolare dove, al di là del margine costituito dalla contestualità della produzione, non si consolidava un’armatura territoriale e le porzioni di scarso interesse strategico venivano relegate all’indifferenza pianificativa. Questa diffusione trovava un riscontro ed un substrato organizzativo nella strutturazione dei distretti industriali, che erano capaci di creare il valore aggiunto necessario al territorio per svilupparsi pur lasciando ancorata la filiera produttiva ad una dimensione localistica. Il valore aggiunto era rappresentato da un complesso sistema di servizi alla produzione, che andavano dalla formazione degli operai fino alle strutture di sostegno, come le associazioni di categoria, e da politiche aggregative capaci di favorire le economie di scala e l’entrata nel mercato globale internazionale.

Alla situazione attuale si è arrivati attraverso un’ulteriore trasformazione della struttura reticolare di tipo territoriale infrastrutturale, a cui si è sovrapposto il sistema dei links immateriali. Infatti, la diffusione delle tecnologie informatiche e della comunicazione, l’abbattimento delle barriere doganali e la ricerca di mercati del lavoro più convenienti hanno portato l’affiancamento, prima, e il primato, poi, della rete immateriale-comunicazionale su quella territoriale-infrastrutturale.

La localizzazione di una certa impresa sul territorio o la propensione allo sviluppo di una specializzazione produttiva rispetto ad un’altra sono sempre meno legate alla capacità di un territorio di fornire il valore aggiunto dato da un sistema integrato di servizi, ma, in un’ottica prettamente speculativa, la scelta ricade su quei territori capaci di soddisfare quelle relazioni immateriali, quei fili invisibili propri dell’assetto economico. Si tratta dunque di un sistema complesso di molteplici connessioni e relazioni che, attraverso il superamento del primato storicamente acquisito rappresentato dal ruolo centrale del polo, ha portato alla dispersione su area vasta del complesso produttivo e alla progressiva mancanza di connotazione locale. L’indifferenza insediativa della produzione e la multidirezionalità delle connessioni producono un modello labile di rete, caratterizzato da una variabilità dinamica e in continua evoluzione. Questa risulta essere autoreferente e autorganizzata e perciò capace di adattarsi alle variazioni repentine del mercato del lavoro e di vendita in un sistema economico labile in cui l’appartenenza o meno ad un cluster economico territoriale o ad un altro non pregiudica il successo produttivo. L’incapacità, quindi, di prevedere e governare la rete dei ruoli e la necessità di reinventare quella degli spazi, affetta da una cronica inadeguatezza nella infrastrutturazione, hanno portato a fenomeni di selezione, segmentazione territoriale, discriminazione e dispersione.

Qui si inseriscono dunque le politiche di distretto basate sull’autopromozione6, in cui un’impresa può decidere o meno di entrare a far parte del sistema, limitando così la possibilità di intervenire in maniera massiccia ed efficace nella gestione delle grandi tematiche territoriali dell’infrastruttura, del limes tra edificato e sistema ambientale, dell’uso del suolo, della qualità territoriale, in quanto si creano degli aggregati territoriali dal confine variabile.

A scala edilizia poi si diffonde in maniera sempre più preoccupante il problema dello sfitto produttivo. Esso trae origine da un lato dalla delocalizzazione di cui si è parlato sopra e, dall’altro, da una serie di leggi sul reinvestimento degli utili d’impresa. Ciò ha portato alla proliferazione di nuovi capannoni sul territorio e ad una continua richiesta di ampliamento e formazione di nuove aree industriali. Quindi, ci troviamo di fronte a frammenti urbani che richiedono misure strutturali atte alla riconversione e riorganizzazione di città, territorio e insediamenti produttivi fino ad arrivare a ricucire gli strappi legati alla crisi del settore manifatturiero e alla discriminazione territoriale.

Una delle soluzioni possibili, tra l’altro già sperimentata, potrebbe essere quella di favorire l’insediamento di attività terziarie all’interno delle aree produttive in ordine alla crescente domanda di servizi legati alla formazione, alla gestione e alla ricerca per la produzione.

Ci si sta forse avviando verso l’equazione territorio della produzione-territorio rifiutato?

 

 

Note

 

1 Regione Veneto (1993), Piano Territoriale Regionale di Coordinamento, Treviso.

2 Giddens A. (1994), Le conseguenze della modernità, Bologna, pag. 63.

3 Si vedano sull’argomento dei distretti industriali veneti gli studi realizzati tra gli altri dall’Istat e da Anastasia e Corò (1993), I distretti industriali in Veneto, Portogruaro.

4 Giordani P. L. (1990), AA.VV., Vicenza. La qualità dello sviluppo, Padova, pag. 18.

5 Lr Veneto 5 marzo 1985, n. 24, Tutela ed edificabilità delle zone agricole.

Lr Veneto 27 giugno 1985, n. 61, Norme per l’assetto del territorio.

6 Lr Veneto 4 aprile 2003, n. 8, Disciplina dei distretti produttivi e interventi di politica industriale locale.

 

 

Presentazione | Referenze Autori | Scrivi alla redazione | AV News | HOME

 

 Il sito web di Area Vasta è curato da Michele Sol