Considerare gran parte del territorio veneto
come territorio della produzione significa
descrivere la crescita insediativa che si è
avuta dal secondo dopoguerra ad oggi. È in
questo periodo, infatti, che il gap
in termini di produzione industriale tra
questa e altre regioni italiane viene
colmato e inizia un legame simbiotico tra le
vicende urbanistico-territoriali e lo
sviluppo manifatturiero.
Sia le imprese di più vecchia fondazione che
le più recenti, avendo trovato un ambiente
fecondo per il loro sviluppo grazie alla
presenza di materie prime e al notevole
sforzo di infrastrutturazione, avevano
creato fenomeni di urbanizzazione di
notevole importanza. Si trattava per lo più
di grandi industrie capaci di dare lavoro,
anche attraverso il sistema dell’indotto che
creavano, a quantità sempre crescenti di
lavoratori.
Questo aveva portato alla creazione di una
struttura territoriale policentrica1.
La dimensione di questi centri era
variabile, con una forte preponderanza verso
quelli di media grandezza. Il polo fungeva
così da attrattore e attorno ad esso si
sviluppavano dei cluster
caratterizzati principalmente da un’unica
specializzazione produttiva e dalle attività
di supporto e di filiera. L’industria
ricopriva dunque il ruolo di catalizzatore
della crescita, di elemento ordinatore
all’interno dei bacini di mobilità casa
lavoro.
Nei territori al di fuori dell’area centrale
veneta, in particolar modo nelle Province di
Belluno e Rovigo e, più in generale, in
tutta la fascia montana, l’insediamento
industriale trovava difficoltà a diffondersi
per l’inadeguatezza delle connessioni
infrastrutturali, per la mancanza di spazi
con caratteristiche idonee e/o per la
presenza di differenti vocazioni produttive,
come ad esempio quella ortofrutticola nel
rodigino.
In questa fase di concentrazione locale di
attività il territorio rifiutato era quello
marginale, in cui causa ed effetto di questa
situazione erano intrinseci alle invarianti
territoriali dell’orografia e dell’infrastrutturazione.
Quindi un territorio in cui continuava a
prevalere la dimensione naturale delle cose,
in cui l’uomo, o meglio, la fabbrica, non
erano riusciti a creare un sistema di
coordinamento e di controllo. Non fare parte
dell’industrialismo2
significava non partecipare all’insieme di
strategie atte a coordinare l’attività umana
con la produzione, a gestire in maniera
univoca territorio, trasporti, comunicazione
e quotidianità.
Successivamente l’andamento ciclico, alti e
bassi, dell’economia, legato all’altalena
dei prezzi del greggio, alle lotte
sindacali, all’aumento dei costi di
produzione, ad un mercato del lavoro sempre
più costoso, portò alla crisi della grande
impresa; nacque la necessità di superare il
concetto di concentrazione legato al polo
attrattore della grande industria per
favorire sistemi più flessibili e dinamici
capaci di creare valore aggiunto. Prendeva
così corpo il sistema produttivo della
piccola e media impresa, facilitato da un
mix di propensione
all’imprenditorialità, dalla diffusione di
know how all’interno del sistema
locale manifatturiero e dall’alto livello di
specializzazione3.
Ciò produceva in termini insediativi un
diffuso “coagulo di localismi produttivi”4
favoriti da una legislazione in materia
urbanistica piuttosto permissiva5;
a riscontro cresceva la domanda di nuove
aree industriali e artigianali, che venivano
localizzate lungo le principali direttrici
infrastrutturali e, accanto a queste, si
propagava il diffuso produttivo
attraverso l’occupazione puntuale in vasti
brani di territorio agricolo. Il
disequilibrio dettato dall’autonomismo
progettuale-attuativo comportava dunque
il progressivo superamento della struttura
policentrica verso un’organizzazione
reticolare in cui, se i nodi erano già
storicamente definiti, le maglie venivano
identificate negli insediamenti lineari
lungo gli assi di comunicazione. Qui
l’alternarsi continuo di porzioni
residenziali e produttive favoriva la
formazione di uno schermo visivo verso il
territorio non urbanizzato e lo sviluppo di
un sistema connettivo reticolare dove, al di
là del margine costituito dalla
contestualità della produzione, non si
consolidava un’armatura territoriale e le
porzioni di scarso interesse strategico
venivano relegate all’indifferenza
pianificativa. Questa diffusione trovava un
riscontro ed un substrato organizzativo
nella strutturazione dei distretti
industriali, che erano capaci di creare il
valore aggiunto necessario al territorio per
svilupparsi pur lasciando ancorata la
filiera produttiva ad una dimensione
localistica. Il valore aggiunto era
rappresentato da un complesso sistema di
servizi alla produzione, che andavano dalla
formazione degli operai fino alle strutture
di sostegno, come le associazioni di
categoria, e da politiche aggregative capaci
di favorire le economie di scala e l’entrata
nel mercato globale internazionale.
Alla situazione attuale si è arrivati
attraverso un’ulteriore trasformazione della
struttura reticolare di tipo territoriale
infrastrutturale, a cui si è sovrapposto il
sistema dei links immateriali.
Infatti, la diffusione delle tecnologie
informatiche e della comunicazione,
l’abbattimento delle barriere doganali e la
ricerca di mercati del lavoro più
convenienti hanno portato l’affiancamento,
prima, e il primato, poi, della rete
immateriale-comunicazionale su quella
territoriale-infrastrutturale.
La localizzazione di una certa impresa sul
territorio o la propensione allo sviluppo di
una specializzazione produttiva rispetto ad
un’altra sono sempre meno legate alla
capacità di un territorio di fornire il
valore aggiunto dato da un sistema integrato
di servizi, ma, in un’ottica prettamente
speculativa, la scelta ricade su quei
territori capaci di soddisfare quelle
relazioni immateriali, quei fili invisibili
propri dell’assetto economico. Si tratta
dunque di un sistema complesso di molteplici
connessioni e relazioni che, attraverso il
superamento del primato storicamente
acquisito rappresentato dal ruolo centrale
del polo, ha portato alla dispersione su
area vasta del complesso produttivo e alla
progressiva mancanza di connotazione locale.
L’indifferenza insediativa della produzione
e la multidirezionalità delle connessioni
producono un modello labile di rete,
caratterizzato da una variabilità dinamica e
in continua evoluzione. Questa risulta
essere autoreferente e autorganizzata e
perciò capace di adattarsi alle variazioni
repentine del mercato del lavoro e di
vendita in un sistema economico labile in
cui l’appartenenza o meno ad un cluster
economico territoriale o ad un altro non
pregiudica il successo produttivo.
L’incapacità, quindi, di prevedere e
governare la rete dei ruoli e la necessità
di reinventare quella degli spazi, affetta
da una cronica inadeguatezza nella
infrastrutturazione, hanno portato a
fenomeni di selezione, segmentazione
territoriale, discriminazione e dispersione.
Qui si inseriscono dunque le politiche di
distretto basate sull’autopromozione6,
in cui un’impresa può decidere o meno di
entrare a far parte del sistema, limitando
così la possibilità di intervenire in
maniera massiccia ed efficace nella gestione
delle grandi tematiche territoriali
dell’infrastruttura, del limes tra
edificato e sistema ambientale, dell’uso del
suolo, della qualità territoriale, in quanto
si creano degli aggregati territoriali dal
confine variabile.
A scala edilizia poi si diffonde in maniera
sempre più preoccupante il problema dello
sfitto produttivo. Esso trae origine da
un lato dalla delocalizzazione di cui si è
parlato sopra e, dall’altro, da una serie di
leggi sul reinvestimento degli utili
d’impresa. Ciò ha portato alla
proliferazione di nuovi capannoni sul
territorio e ad una continua richiesta di
ampliamento e formazione di nuove aree
industriali. Quindi, ci troviamo di fronte a
frammenti urbani che richiedono misure
strutturali atte alla riconversione e
riorganizzazione di città, territorio e
insediamenti produttivi fino ad arrivare a
ricucire gli strappi legati alla crisi del
settore manifatturiero e alla
discriminazione territoriale.
Una delle soluzioni possibili, tra l’altro
già sperimentata, potrebbe essere quella di
favorire l’insediamento di attività
terziarie all’interno delle aree produttive
in ordine alla crescente domanda di servizi
legati alla formazione, alla gestione e alla
ricerca per la produzione.
Ci si sta forse avviando verso l’equazione
territorio della produzione-territorio
rifiutato?
Note
1
Regione Veneto (1993), Piano Territoriale
Regionale di Coordinamento, Treviso.
2
Giddens A. (1994), Le conseguenze della
modernità, Bologna, pag. 63.
3
Si vedano sull’argomento dei distretti
industriali veneti gli studi realizzati tra
gli altri dall’Istat e da Anastasia e Corò
(1993), I distretti industriali in Veneto,
Portogruaro.
4
Giordani P. L. (1990), AA.VV., Vicenza.
La qualità dello sviluppo, Padova, pag.
18.
5
Lr Veneto 5 marzo 1985, n. 24, Tutela ed
edificabilità delle zone agricole.
Lr Veneto 27 giugno 1985, n. 61, Norme
per l’assetto del territorio.
6
Lr Veneto 4 aprile 2003, n. 8, Disciplina
dei distretti produttivi e interventi di
politica industriale locale. |