Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il gioco dell'urbanista


Cinzia Di Paola


 

Il rifiuto delle nuove opere tecnologiche da parte delle popolazioni è dovuto alle alterazioni ambientali che determinano numeri elevati di malattie e decessi alla stregua degli eventi catastrofici naturali. Il concetto di rischio deve essere, quindi, esteso a tutti quei fattori che intervengono in modo incisivo sulla salute dei cittadini. Cinzia Di Paola, analizzando le varie realtà siciliane, afferma l’utilità del ricorso ad una pianificazione attenta ai rischi ambientali e in grado di controllare e contenere i rischi urbani, trasformandoli in occasioni di riqualificazione ambientale

 

 

Nell’ultimo mezzo secolo è stata urbanizzata una superficie enorme rispetto a quella dei millenni precedenti, con violente e pesanti trasformazioni del territorio che hanno portato ad una drastica diminuzione della changing capacity del pianeta, con il rischio di escludere definitivamente il perseguimento di uno sviluppo sostenibile; le alterazioni ambientali che ne sono derivate, hanno inciso notevolmente sulla salute e sul benessere fisico della popolazione, suscitando l’esigenza collettiva di una maggiore attenzione verso le problematiche connesse ai rischi ambientali.

Conseguentemente nei cittadini, vittime delle patologie che si sono sviluppate negli ultimi decenni, si è generalizzata una sfiducia nelle imprese e nelle istituzioni, poiché mancano sia la lettura chiara della reale situazione ambientale, sia la trasparenza nella gestione degli impianti. Anche da queste incertezze sociali è nata la sindrome di nimby, acronimo dell’espressione inglese not in my backyard, che traduce il rifiuto di avere vicini a casa propria impianti e infrastrutture considerati pericolosi per la salute e per l’ambiente.

Il rifiuto delle nuove grandi opere tecnologiche da parte delle popolazioni è quindi dovuto principalmente alle alterazioni ambientali (inquinamento, alterazioni climatiche, distruzione degli ecosistemi, ecc.) che determinano numeri elevati di malattie e decessi quanto gli eventi catastrofici così detti naturali.

Oggi è evidente la necessità di programmare lo sviluppo economico attraverso un nuovo democratico orizzonte culturale (che è poi orizzonte politico) che consenta di osservare la società in profondità e di percepirne le domande oscurate da una oligarchia economica sempre più ristretta e insofferente rispetto ai diritti dei singoli e della collettività, nonché a sottostare alle regole di una società civile. È necessaria una visione nuova della società, fondata su paradigmi che superino le totalizzanti categorie economiche, e diano risposte efficaci a domande, sempre più pressanti, di tutela, promozione e affermazione dell’ambiente salubre, poste già dagli attuali soggetti sociali.

È quindi necessario porre l’attenzione ad un’altra categoria di rischi, che chiameremo urbani, dovuti alle alterazioni delle componenti terrestri (aria, acqua e suolo) fortemente compromesse specialmente nelle città.

Il concetto di rischio deve infatti essere esteso a tutti quei fattori che intervengono in modo incisivo sulla salute umana, quali l’inquinamento (da elettrosmog, traffico veicolare, impianti di riscaldamento, rifiuti, sostanze chimiche, ecc.), le alterazioni (climatiche, del sistema idrico, ecc.), la perdita dei caratteri territoriali locali e del genius loci di ogni realtà socio-territoriale.

Il rischio che era espresso mediante la relazione R = P·V·E (Campo G., 1989) nel caso urbano si modifica: l’esposizione di popolazione E che nei sistemi antropici è comunque massima, non può essere ridotta e va considerata una costante che non influenza più il valore del rischio. Si dovrà parlare allora di rischio specifico per un individuo come grado di danno atteso, quale conseguenza di un particolare fenomeno antropico e la precedente relazione diventa Rsi = P?V, dove:

- P è la probabilità che l’individuo (più o meno predisposto) contragga una certa malattia;

- V è la vulnerabilità, che indica quale tipo di individuo è più a rischio (più vulnerabile) a quella malattia.

Ma la nostra attenzione non può essere rivolta al singolo individuo, bensì all’intera popolazione di un sistema insediativo e si parlerà di rischio specifico come prodotto Rsi = P·V, dove:

- P è la percentuale di popolazione che può contrarre una certa malattia nel sistema insediativo;

- V è la vulnerabilità della popolazione, intesa come caratteristiche che influenzano l’aumento della morbilità nel sistema stesso.

Si evince, quindi, che per mitigare questi nuovi, e sempre più frequenti, rischi urbani si deve intervenire sul sistema insediativo, modificandone le caratteristiche e gli elementi che possono alterare le componenti ambientali. Ed è qui che quel rifiuto delle alterazioni prodotte agli elementi del cortile di ciascuno di noi, può sollecitare le opportune azioni di mitigazione di rischi, nella consapevolezza che questi hanno conseguenze pari a quelle degli sconvolgimenti naturali.

E solo questa consapevolezza costituirebbe motivo per affermare l’utilità del ricorso ad una pianificazione del territorio attenta ai rischi ambientali (Campo, 1989; Beguinot, 1994); ma da sola essa non è sufficiente a promuovere le conseguenti azioni di governo atte a incidere sulle realtà urbane e territoriali, per limitarne e controllarne gli esiti negativi.

Questa consapevolezza sembra però assente in Sicilia, dove il rifiuto si trasforma anzi in richiesta di nuovi interventi, senza eccessive preoccupazioni per ulteriori effetti di alterazioni ambientali.

In questo territorio le velocità di cambiamento degli interessi economici che presiedono sempre all’occupazione e alla trasformazione d’uso degli spazi fisici, da una parte, e la politica del quotidiano dall’altra, non sembrano aver bisogno di programmi di medio e lungo termine determinati da una visione strategica di tutela costituzionale degli interessi diffusi. E non è un caso che le mutevoli e pretestuose necessità della competizione economica dettino legge persino sulla Costituzione, e ne vadano anzi modificando i principi sacri, ispirati al rispetto dei diritti umani, e di quello alla salute e alla vita, soprattutto.

Così, ad esempio, due decreti governativi determinano le soglie di respirabilità dell’aria inquinata di Gela e di potabilità delle acque di falda attorno al petrolchimico di Priolo-Augusta e ciò avviene sotto le spinte pressanti della popolazione che sciopera e protesta.

Se infatti nel luglio del 2001 quando i magistrati fermarono parte dell’impianto di Gela bastò un decreto regionale per riattivare la struttura e riprendere la produzione, nel febbraio del 2002 gli abitanti di Gela e di tutto l’indotto dovettero scendere in piazza.

Benché la Procura di Gela riteneva rifiuto speciale il pet coke usato come combustibile e conseguentemente riscontrava la violazione della legge Ronchi e danni per la salute umana, più di tremila cittadini scesero in piazza contro i magistrati e i sindacati, affermando che “se chiude l’industria a Gela c’è la fame”, organizzarono una serie di successivi scioperi generali con manifestazioni a Gela come a Palermo e il blocco agli accessi della città. La reazione popolare imponente e pressante si concluse quando venne emanato un nuovo decreto regionale poi seguito dall’approvazione di una legge ad hoc la 55/2002, che ribattezza il pet coke “prodotto da raffineria e combustibile”; prevedendone quindi l’uso.

In seguito la magistratura sollevò del problemi per un’altra sostanza il fok che non può considerarsi un olio combustibile ma un vero e proprio rifiuto pericoloso. Anche stavolta le reazioni degli operai non tardano ad arrivare: venne bloccata la statale Gela-Vittoria e si prepararono le mobilitazioni generali per i giorni seguenti.

Le cieche manifestazioni dei cittadini e la pressante richiesta di lavoro non bastano però a coprire una gestione poco chiara di impianti ad alto rischio e proprio nel petrolchimico di Gela si verifica una violenta esplosione le cui ripercussioni, commentano gli ambientalisti determineranno “danni all’agricoltura, al mare e all’atmosfera … incalcolabili”.

In realtà a pagare le conseguenze di tale degrado ambientale è la popolazione, infatti un’indagine della procura siracusana ha rilevato che a Gela si è registrato un indice molto più alto rispetto all’isola per la mortalità dovuta a malattie del sistema circolatorio (+18,9%) e cerebrovascolari (+16,4%) e tra il 1990 e il 1994 si è registrato un +63% di tumori al colon e un +57% di tumori all’apparato digerente, per non parlare delle malformazioni neonatali e dei danni all’apparato respiratorio. L’indagine parte proprio dall’analisi delle schede dell’Ismac (indagine siciliana malformazioni congenite) che ha rilevato che dal 1991 al 2000 sono nati centinaia di bambini con problemi fisici più o meno gravi ed è emerso che le aree più a rischio sono quelle industriali e delle zone dove sono presenti discariche di rifiuti speciali. Dunque non solo Gela ma anche Milazzo e il triangolo Priolo-Augusta-Melilli.

Ma la disperazione e la necessità di lavoro fa sì che tra una seduta di chemioterapia e un’altra un ex operaio del polo petrolchimico (trent’anni di raffineria a Priolo) affermi con molta disillusione “meglio morire di tumore ma sazio piuttosto che crepare di fame” (Bolzoni A., 2003).

La politica, conscia di tali rischi, da tempo considera i siti a elevato rischio, ma manomette qualunque aspetto tecnico-scientifico pur di non turbare lo sviluppo industriale, e di non intaccare i costi elevati dei processi produttivi nella competizione globale.

La consapevolezza sociale viene così messa a tacere a livello locale dall’esigenza di mantenere almeno i livelli di occupazione attuali, e a livello globale dall’esigenza di non turbare gli equilibri economico-politici raggiunti.

Così non meraviglia se la protesta sociale sia montata tutte le volte che, per motivi vari, le aziende petrolchimiche abbiano minacciato la chiusura degli impianti: in ultimo a seguito della scoperta giudiziaria delle velenose scorie sepolte nel sottosuolo. La difesa del posto di lavoro e dello sviluppo locale indotto assume rilevanza maggiore che non la difesa della salute e della sicurezza di un’area che mette a rischio una rilevante quantità di popolazione.

Ma la Sicilia è luogo di contraddizioni, luogo dove l’uomo si è piegato all’invasore per carattere, ignoranza, fame; luogo dove il popolo ha poi rialzato la testa per risorgere e combattere il medesimo invasore. Così mentre a Priolo si continua a morire per il bisogno di lavoro c’è chi in un’altra parte della Sicilia ancora insorge a difesa dell’ambiente e della salute. È il caso degli abitanti di Paternò che si sono mobilitati, con manifestazioni, scioperi e appelli anche scritti, contro il governo locale e nazionale che ha previsto di allocare nel loro territorio un termovalorizzatore e gli annessi impianti che dovrebbero trattare la frazione residua dei rifiuti solidi urbani provenienti dalle Province di Catania e Messina.

Si è formato un comitato spontaneo composto da gente normale fatta di agricoltori, artigiani, medici, insegnanti, studenti, casalinghe, madri, padri, ragazzi di ogni età, accomunati tra loro solo dalla voglia e dal bisogno di opporsi alla costruzione dell’impianto “un vero e proprio progetto politico che danneggerebbe, a dir loro, la vita di tutti” (Volzone L., 2003).

Ciò ci fa ricollocare i cittadini siciliani tra l’opinione pubblica italiana, condizionata da una congenita sfiducia nelle imprese e nelle istituzioni, poiché ciò che manca è una lettura chiara della reale situazione ambientale e la trasparenza nella gestione degli impianti. E la vicenda del termovalorizzatore di Paternò rappresenta il caso tipico di una forte reazione popolare scaturita da una scelta politica miope, che non guarda gli impatti significativi che un impianto può avere sull’ambiente e sulla salute dei cittadini, determinando così tra la popolazione la sindrome di nimby.

Nel caso in specie infatti il sito prescelto è del tutto inidoneo ad accogliere il polo di trattamento dei rifiuti, prima di tutto perché è un’area di rilevante interesse naturalistico e paesaggistico. Gli impianti insistono infatti su un sito di interesse comunitario (Sic), istituito per la tutela di un habitat prioritario: le particolari formazioni vegetali tipiche delle aree calanchive. Ciò presuppone che la valutazione di impatto ambientale deve considerare l’analisi delle possibili incidenze sul sito; ma di ciò non vi è alcuna traccia nella valutazione presentata e, solo alla fine della “Sintesi non tecnica”, viene precisato che il progetto ricade all’interno del Sic, affermando che “l’incidenza negativa prodotta sulla componente naturalistica presente sul territorio … sia di livello non significativo in quanto la superficie interessata risulta minima rispetto a quella totale”; e sulla base di questa osservazione si asserisce che il progetto proposto non arreca effetti negativi.

L’impianto potrebbe, inoltre, avere possibili conseguenze negative sul fiume Simeto, riserva naturale orientata, le cui acque verso la foce sono oggetto di tutela sia come Sic che come zona di protezione speciale.

Superfluo insistere sulla grave incompletezza dei dati relativi alla meteorologia e al microclima e alla reale diffusione dei fumi, delle polveri, del calore, del percolato di tutto il territorio interessato dal progetto, sulla base dell’anemometria, della piovosità, dell’umidità e altri valori indispensabili per una approfondita e seria valutazione degli effetti dell’impianto in esercizio e delle modifiche al territorio.

Deve essere ancora rilevato che benché “i picchi delle concentrazioni si verificano in zone poste a circa 2 km a est dall’impianto” l’abitato di Paternò dista meno di 5 km dal luogo dell’impianto ed i numerosi inquinanti, che vengono liberati nell’ambiente o quelli che potrebbero sprigionarsi a causa di guasti, cattivo funzionamento o insufficienza dei controlli, potrebbero facilmente investire l’area urbana.

Tale timore è rafforzato anche dalla presenza, in seno all’impianto, della discarica, destinata ad accogliere i residui fortemente tossici della combustione, la cui stabilizzazione non dà garanzie di sicurezza nel lungo periodo, a causa della degradazione e dei fenomeni erosivi (Chandler et al., 1997).

Non va infine dimenticato che nel comprensorio vaste aree accolgono colture specializzate di pregiate varietà di agrumi, olivo e fico d’india e, vanno affermandosi aziende agrituristiche e di coltivazioni biologiche come l’olio ivi prodotto che è provvisto del marchio Doc “Monte Etna”. Ed è proprio per salvaguardare la qualità di questi prodotti che il DLgs 36/2003 vieta la costruzione di impianti o la presenza di discariche per rifiuti speciali in dette aree.

Lo sconvolgimento che potrebbe essere causato dalla costruzione, dal funzionamento e dalle attività conseguenti del termovalorizzatore, porranno l’area interessata e i territori limitrofi in uno stato di degrado tale, da vanificare ogni progetto di sviluppo economico sostenibile legato alle sue bellezze naturalistiche, paesaggistiche, archeologiche e architettoniche, numerose in quell’area e di elevato pregio.

Non differente è la situazione dell’inceneritore previsto a Bellolampo, vicino Palermo, che “non risponde neanche ai requisiti richiesti nelle linee guida allegate al bando di gara dove si legge che il sito deve essere distante da nuclei abitati e aree urbane”.

Questo impianto, che diventerebbe il più grande di Europa, sarebbe collocato in un’area attualmente destinata a discarica e prossima a esaurirsi, sopraelevata rispetto alla città di Palermo e praticamente dentro la cinta urbana; servita da una viabilità di accesso già oggi critica. Inoltre, è prevista nella stessa area la discarica per i rifiuti speciali prodotti come residui dal termovalorizzatore.

L’inceneritore di Bellolampo, con l’attuale dimensionamento e a regime, per effetto dell’inversione termica, potrebbe riversare su Palermo:

- 33.300 kg/a di ceneri disperse contenenti sostanze tossiche;

- 546.000 t/a di fumi immessi in atmosfera contenenti fra l’altro, oltre a vapore acqueo e anidride carbonica: diossine, idrocarburi, metalli pesanti, come piombo, mercurio, cadmio, anidride solforosa, polveri fini, ecc.

Naturalmente non esiste nessun filtro in grado di portare a zero i valori di emissione di queste sostanze, che sono dannose per la salute e provocano in molti casi malformazione nei feti e cancro, come ampiamente dimostrato dalla letteratura medica.

Ma il caso Sicilia non è l’unica realtà dove la competizione globale, l’economia locale e la gestione politica dimenticano i cambiamenti dello stato di salute delle popolazioni e le radicali trasformazioni dell’ambiente portano ad un aumento, ormai incontrollato, dei rischi urbani, che sono oggi una realtà indiscutibile. Tali alterazioni possono riguardare anche interi ecosistemi ed è quindi importate parlare di salute dell’ecosistema e di salute umana: ciò implica la ricerca di una nuova prospettiva, che riguarda la salvaguardia globale dell’ambiente. Così se “le politiche territoriali del passato hanno dato un grande contributo alla drammatizzazione delle trasformazioni ambientali. La pianificazione territoriale convenzionale risulta inadeguata, per cui si debbono definire irrinunciabili approcci analitici che tengano conto dei fondamenti dell’ecologia” (Bettini, 1996).

In tal senso la legislazione europea da anni pone l’accento sui rischi urbani ed è stato riconosciuto che la qualità ambientale delle aree antropizzate, intesa come benessere fisico e psichico, è oggi la principale richiesta della popolazione; conseguentemente ponendo l’attenzione alla mitigazione di tali rischi, con interventi ad ampio raggio, basati soprattutto su ordinarie iniziative politiche e non su singoli episodi, i cittadini potranno accettare i nuovi impianti.

I paesi europei hanno delineato strategie nazionali, a sostegno della mitigazione dei rischi in funzione dello sviluppo sostenibile, cui riferire la pianificazione alle diverse scale, promuovendo numerose politiche e iniziative mirate sia a sperimentare nuove soluzioni sia a educare progressivamente la coscienza dei cittadini (Monti, Roda, 2002).

Con quest’ottica è stato realizzato il progetto del Quartiere Millennium Village, a Londra, nella penisola di Greenwich, non più abitata da alcuni decenni, in quanto contaminata da industrie ormai abbandonate che avevano determinato un inquinamento del suolo da sostanze chimiche.

La scelta è stata quella di demolire le strutture preesistenti e rimuovere lo strato superficiale di terreno, mentre quello sottostante è stato protetto da una barriera, in modo da impedire il trasferimento delle sostanze dannose. Durante questa fase, ma anche durante quella di costruzione, sono state osservate procedure di sicurezza che garantissero l’integrità di questo strato protettivo. Tale intervento ha permesso il recupero di un sito contaminato e una nuova rifunzionalizzazione dello stesso; dunque un processo inverso rispetto a quelli realizzati o previsti in Sicilia.

Un caso differente ma trattato con le medesime finalità è quello del Quartiere BO.01 della città di Malmö, dove l’area, una sorta di penisola conquistata dall’uomo al mare, con una popolazione prevalentemente immigrata, nasce come città industriale, destinata ad attività produttive e portuali, ormai dimesse. Oggi è stata riconvertita in un nuovo quartiere, con l’area edificabile che occupa circa il 60% della superficie e la restante destinata a parco lungomare, a giardini, a nuovo porto turistico e a spazi espositivi.

Il concetto di sostenibilità assume, in questo progetto, un significato sociale, ancora poco esplorato: il benessere dei cittadini, infatti, non è soltanto realizzazioni tecniche ma anche coinvolgimento emotivo che induca atteggiamenti positivi. L’elevata qualità architettonica è stata una scelta primaria, convinti che l’uomo abbia bisogno di bellezza e varietà delle forme.

Inoltre, la città ha vinto il primo premio di una campagna promossa dall’Unione europea poiché il quartiere è alimentato esclusivamente da energia prodotta in loco da fonti rinnovabili e il Ministero dell’edilizia della Comunità europea ha offerto il proprio patrocinio, giudicando di particolare interesse l’esempio di questa nuova area residenziale.

Questi sono due esempi dei numerosi già realizzati in diverse parti d’Europa dove la pianificazione è attenta ai rischi urbani in un’ottica globale, per cui qualunque intervento sul territorio è attento alla salute dei cittadini e diventa fattore di competizione.

Il legislatore italiano inizia solo ora ad accorgersi del problema e sono le regioni e i comuni che primi si sono mossi autonomamente avviando agenzie per l’ambiente quali espressioni di nuove intenzionalità dei governi di protezione integrata, al di là di meri approcci regolativi, mitigativi e compensativi, guardando alle emissioni in atmosfera delle combustioni e produzioni di energia, alle qualità delle acque, alle esondazioni, alle radiazioni naturali e artificiali, ai rischi chimici dei materiali di sintesi e ai loro cicli di vita.

A livello regionale numerose le iniziative per la redazione di linee guida o documenti di indirizzo che hanno il medesimo scopo; come le linee guida, del 1999, per la realizzazione dello studio di impatto ambientale della Regione Toscana.

Su questi indirizzi si sta muovendo anche la Regione Lombardia che, in collaborazione con l’Arpa, sta predisponendo il primo manuale di linee guida operative e di liste di controllo per la gestione in qualità dei processi di Agenda 21 locali.

Analogamente si muovono le province; infatti già nel 1999 la Provincia di Milano pubblicava le “Linee guida per la perimetrazione di un sito contaminato”, nelle quali veniva specificato, in modo chiaro e sintetico, come procedere e a quale scala operare per caratterizzare le aree contaminate; definendo, inoltre, i contenuti minimi della relazione tecnica relativa alla fase di perimetrazione e le modalità di raccolta e archiviazione dati.

Particolarmente significativa è anche la scelta della Provincia di Roma, che prima di redigere il piano territoriale provinciale generale ha elaborato un documento di indirizzi, che ne anticipa le modalità tecniche di redazione e gli obiettivi di programmazione, sulla base dei quali l’ente ha sviluppato le proprie linee politiche e di gestione. Inoltre, la redazione del piano territoriale provinciale generale segue un piano qualità, ai sensi della norma Uni Iso 9000-2000, ottenendo la prima certificazione di processo in questo settore.

Anche a livello comunale si è cercato di incentivare l’applicazione di interventi sostenibili attraverso la riduzione degli oneri di urbanizzazione o con premi volumetrici, poiché oggi si è convinti che il sistema volontaristico è quello che dà migliori risultati.

È il caso del Comune di Calenzano che si è dotato di linee guida per la bioarchitettura, nelle quali i criteri e gli indirizzi sono volti a incentivare la consapevolezza del valore della sostenibilità ambientale e della qualità costruttiva associata a interventi di riqualificazione urbana ed edilizia, oltre a rendere realizzabili condizioni di benessere psicofisico e di salubrità degli ambienti interni.

O ancora del Comune di Sesto San Giovanni che ha realizzato uno “Studio dell’impatto sulla qualità dell’aria dei programmi di sviluppo urbanistico della città”.

Questa scelta è stata particolarmente significativa, infatti tramite i processi di concertazione si è arrivati a progetti condivisi per il riuso di aree particolarmente degradate e anche la scelta di inserire nuovi impianti porterà alla formazione di nuovi territori accettati.

Queste sono solo alcune delle possibili soluzioni che potrebbe avere “Il gioco dell’urbanista” nei nostri territori, dove il controllo e il contenimento dei rischi urbani devono diventare motori di nuove economie e, principalmente, occasioni di riqualificazione ambientale. È necessaria una nuova cultura che superi i paradigmi dell’attuale politica economica e miri alla salute e al rispetto dei diritti umani.

 

 

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