Nell’ultimo mezzo secolo è stata urbanizzata
una superficie enorme rispetto a quella dei
millenni precedenti, con violente e pesanti
trasformazioni del territorio che hanno
portato ad una drastica diminuzione della
changing capacity del pianeta, con il
rischio di escludere definitivamente il
perseguimento di uno sviluppo sostenibile;
le alterazioni ambientali che ne sono
derivate, hanno inciso notevolmente sulla
salute e sul benessere fisico della
popolazione, suscitando l’esigenza
collettiva di una maggiore attenzione verso
le problematiche connesse ai rischi
ambientali.
Conseguentemente nei cittadini, vittime
delle patologie che si sono sviluppate negli
ultimi decenni, si è generalizzata una
sfiducia nelle imprese e nelle istituzioni,
poiché mancano sia la lettura chiara della
reale situazione ambientale, sia la
trasparenza nella gestione degli impianti.
Anche da queste incertezze sociali è nata la
sindrome di nimby, acronimo
dell’espressione inglese not in my
backyard, che traduce il rifiuto di
avere vicini a casa propria impianti e
infrastrutture considerati pericolosi per la
salute e per l’ambiente.
Il rifiuto delle nuove grandi opere
tecnologiche da parte delle popolazioni è
quindi dovuto principalmente alle
alterazioni ambientali (inquinamento,
alterazioni climatiche, distruzione degli
ecosistemi, ecc.) che determinano numeri
elevati di malattie e decessi quanto gli
eventi catastrofici così detti naturali.
Oggi è evidente la necessità di programmare
lo sviluppo economico attraverso un nuovo
democratico orizzonte culturale (che è poi
orizzonte politico) che consenta di
osservare la società in profondità e di
percepirne le domande oscurate da una
oligarchia economica sempre più ristretta e
insofferente rispetto ai diritti dei singoli
e della collettività, nonché a sottostare
alle regole di una società civile. È
necessaria una visione nuova della società,
fondata su paradigmi che superino le
totalizzanti categorie economiche, e diano
risposte efficaci a domande, sempre più
pressanti, di tutela, promozione e
affermazione dell’ambiente salubre, poste
già dagli attuali soggetti sociali.
È quindi necessario porre l’attenzione ad
un’altra categoria di rischi, che chiameremo
urbani, dovuti alle alterazioni delle
componenti terrestri (aria, acqua e suolo)
fortemente compromesse specialmente nelle
città.
Il concetto di rischio deve infatti essere
esteso a tutti quei fattori che intervengono
in modo incisivo sulla salute umana, quali
l’inquinamento (da elettrosmog, traffico
veicolare, impianti di riscaldamento,
rifiuti, sostanze chimiche, ecc.), le
alterazioni (climatiche, del sistema idrico,
ecc.), la perdita dei caratteri territoriali
locali e del genius loci di ogni
realtà socio-territoriale.
Il rischio che era espresso mediante la
relazione R = P·V·E (Campo G., 1989)
nel caso urbano si modifica: l’esposizione
di popolazione E che nei sistemi
antropici è comunque massima, non può essere
ridotta e va considerata una costante che
non influenza più il valore del rischio. Si
dovrà parlare allora di rischio specifico
per un individuo come grado di danno
atteso, quale conseguenza di un particolare
fenomeno antropico e la precedente relazione
diventa Rsi = P?V, dove:
- P è la probabilità che l’individuo
(più o meno predisposto) contragga una certa
malattia;
- V è la vulnerabilità, che indica
quale tipo di individuo è più a rischio (più
vulnerabile) a quella malattia.
Ma la nostra attenzione non può essere
rivolta al singolo individuo, bensì
all’intera popolazione di un sistema
insediativo e si parlerà di rischio
specifico come prodotto Rsi = P·V,
dove:
- P è la percentuale di popolazione
che può contrarre una certa malattia nel
sistema insediativo;
- V è la vulnerabilità della
popolazione, intesa come caratteristiche che
influenzano l’aumento della morbilità nel
sistema stesso.
Si evince, quindi, che per mitigare questi
nuovi, e sempre più frequenti, rischi
urbani si deve intervenire sul sistema
insediativo, modificandone le
caratteristiche e gli elementi che possono
alterare le componenti ambientali. Ed è qui
che quel rifiuto delle alterazioni prodotte
agli elementi del cortile di ciascuno
di noi, può sollecitare le opportune azioni
di mitigazione di rischi, nella
consapevolezza che questi hanno conseguenze
pari a quelle degli sconvolgimenti naturali.
E solo questa consapevolezza costituirebbe
motivo per affermare l’utilità del ricorso
ad una pianificazione del territorio attenta
ai rischi ambientali (Campo, 1989; Beguinot,
1994); ma da sola essa non è sufficiente a
promuovere le conseguenti azioni di governo
atte a incidere sulle realtà urbane e
territoriali, per limitarne e controllarne
gli esiti negativi.
Questa consapevolezza sembra però assente in
Sicilia, dove il rifiuto si trasforma
anzi in richiesta di nuovi interventi, senza
eccessive preoccupazioni per ulteriori
effetti di alterazioni ambientali.
In questo territorio le velocità di
cambiamento degli interessi economici che
presiedono sempre all’occupazione e alla
trasformazione d’uso degli spazi fisici, da
una parte, e la politica del quotidiano
dall’altra, non sembrano aver bisogno di
programmi di medio e lungo termine
determinati da una visione strategica di
tutela costituzionale degli interessi
diffusi. E non è un caso che le mutevoli e
pretestuose necessità della competizione
economica dettino legge persino sulla
Costituzione, e ne vadano anzi modificando i
principi sacri, ispirati al rispetto dei
diritti umani, e di quello alla salute e
alla vita, soprattutto.
Così, ad esempio, due decreti governativi
determinano le soglie di respirabilità
dell’aria inquinata di Gela e di potabilità
delle acque di falda attorno al
petrolchimico di Priolo-Augusta e ciò
avviene sotto le spinte pressanti della
popolazione che sciopera e protesta.
Se infatti nel luglio del 2001 quando i
magistrati fermarono parte dell’impianto di
Gela bastò un decreto regionale per
riattivare la struttura e riprendere la
produzione, nel febbraio del 2002 gli
abitanti di Gela e di tutto l’indotto
dovettero scendere in piazza.
Benché la Procura di Gela riteneva rifiuto
speciale il pet coke usato come
combustibile e conseguentemente riscontrava
la violazione della legge Ronchi e danni per
la salute umana, più di tremila cittadini
scesero in piazza contro i magistrati e i
sindacati, affermando che “se chiude
l’industria a Gela c’è la fame”,
organizzarono una serie di successivi
scioperi generali con manifestazioni a Gela
come a Palermo e il blocco agli accessi
della città. La reazione popolare imponente
e pressante si concluse quando venne emanato
un nuovo decreto regionale poi seguito
dall’approvazione di una legge ad hoc
la 55/2002, che ribattezza il pet coke
“prodotto da raffineria e combustibile”;
prevedendone quindi l’uso.
In seguito la magistratura sollevò del
problemi per un’altra sostanza il fok
che non può considerarsi un olio
combustibile ma un vero e proprio rifiuto
pericoloso. Anche stavolta le reazioni degli
operai non tardano ad arrivare: venne
bloccata la statale Gela-Vittoria e si
prepararono le mobilitazioni generali per i
giorni seguenti.
Le cieche manifestazioni dei cittadini e la
pressante richiesta di lavoro non bastano
però a coprire una gestione poco chiara
di impianti ad alto rischio e proprio nel
petrolchimico di Gela si verifica una
violenta esplosione le cui ripercussioni,
commentano gli ambientalisti determineranno
“danni all’agricoltura, al mare e
all’atmosfera … incalcolabili”.
In realtà a pagare le conseguenze di tale
degrado ambientale è la popolazione, infatti
un’indagine della procura siracusana ha
rilevato che a Gela si è registrato un
indice molto più alto rispetto all’isola per
la mortalità dovuta a malattie del sistema
circolatorio (+18,9%) e cerebrovascolari
(+16,4%) e tra il 1990 e il 1994 si è
registrato un +63% di tumori al colon e un
+57% di tumori all’apparato digerente, per
non parlare delle malformazioni neonatali e
dei danni all’apparato respiratorio.
L’indagine parte proprio dall’analisi delle
schede dell’Ismac (indagine siciliana
malformazioni congenite) che ha rilevato
che dal 1991 al 2000 sono nati centinaia di
bambini con problemi fisici più o meno gravi
ed è emerso che le aree più a rischio sono
quelle industriali e delle zone dove sono
presenti discariche di rifiuti speciali.
Dunque non solo Gela ma anche Milazzo e il
triangolo Priolo-Augusta-Melilli.
Ma la disperazione e la necessità di lavoro
fa sì che tra una seduta di chemioterapia e
un’altra un ex operaio del polo
petrolchimico (trent’anni di raffineria a
Priolo) affermi con molta disillusione
“meglio morire di tumore ma sazio piuttosto
che crepare di fame” (Bolzoni A., 2003).
La politica, conscia di tali rischi, da
tempo considera i siti a elevato rischio, ma
manomette qualunque aspetto
tecnico-scientifico pur di non turbare lo
sviluppo industriale, e di non intaccare
i costi elevati dei processi produttivi
nella competizione globale.
La consapevolezza sociale viene così messa a
tacere a livello locale dall’esigenza di
mantenere almeno i livelli di occupazione
attuali, e a livello globale dall’esigenza
di non turbare gli equilibri
economico-politici raggiunti.
Così non meraviglia se la protesta sociale
sia montata tutte le volte che, per motivi
vari, le aziende petrolchimiche abbiano
minacciato la chiusura degli impianti: in
ultimo a seguito della scoperta giudiziaria
delle velenose scorie sepolte nel
sottosuolo. La difesa del posto di lavoro e
dello sviluppo locale indotto assume
rilevanza maggiore che non la difesa della
salute e della sicurezza di un’area che
mette a rischio una rilevante quantità di
popolazione.
Ma la Sicilia è luogo di contraddizioni,
luogo dove l’uomo si è piegato
all’invasore per carattere, ignoranza,
fame; luogo dove il popolo ha poi rialzato
la testa per risorgere e combattere il
medesimo invasore. Così mentre a
Priolo si continua a morire per il
bisogno di lavoro c’è chi in un’altra
parte della Sicilia ancora insorge a
difesa dell’ambiente e della salute. È il
caso degli abitanti di Paternò che si sono
mobilitati, con manifestazioni, scioperi e
appelli anche scritti, contro il governo
locale e nazionale che ha previsto di
allocare nel loro territorio un
termovalorizzatore e gli annessi impianti
che dovrebbero trattare la frazione residua
dei rifiuti solidi urbani provenienti dalle
Province di Catania e Messina.
Si è formato un comitato spontaneo composto
da gente normale fatta di
agricoltori, artigiani, medici, insegnanti,
studenti, casalinghe, madri, padri, ragazzi
di ogni età, accomunati tra loro solo dalla
voglia e dal bisogno di opporsi alla
costruzione dell’impianto “un vero e proprio
progetto politico che danneggerebbe, a dir
loro, la vita di tutti” (Volzone L., 2003).
Ciò ci fa ricollocare i cittadini siciliani
tra l’opinione pubblica italiana,
condizionata da una congenita sfiducia nelle
imprese e nelle istituzioni, poiché ciò che
manca è una lettura chiara della reale
situazione ambientale e la trasparenza nella
gestione degli impianti. E la vicenda del
termovalorizzatore di Paternò rappresenta il
caso tipico di una forte reazione popolare
scaturita da una scelta politica miope, che
non guarda gli impatti significativi che un
impianto può avere sull’ambiente e sulla
salute dei cittadini, determinando così tra
la popolazione la sindrome di nimby.
Nel caso in specie infatti il sito prescelto
è del tutto inidoneo ad accogliere il polo
di trattamento dei rifiuti, prima di tutto
perché è un’area di rilevante interesse
naturalistico e paesaggistico. Gli impianti
insistono infatti su un sito di interesse
comunitario (Sic), istituito per la
tutela di un habitat prioritario: le
particolari formazioni vegetali tipiche
delle aree calanchive. Ciò presuppone che la
valutazione di impatto ambientale deve
considerare l’analisi delle possibili
incidenze sul sito; ma di ciò non vi è
alcuna traccia nella valutazione presentata
e, solo alla fine della “Sintesi non
tecnica”, viene precisato che il progetto
ricade all’interno del Sic, affermando che
“l’incidenza negativa prodotta sulla
componente naturalistica presente sul
territorio … sia di livello non
significativo in quanto la superficie
interessata risulta minima rispetto a quella
totale”; e sulla base di questa osservazione
si asserisce che il progetto proposto non
arreca effetti negativi.
L’impianto potrebbe, inoltre, avere
possibili conseguenze negative sul fiume
Simeto, riserva naturale orientata,
le cui acque verso la foce sono oggetto di
tutela sia come Sic che come zona di
protezione speciale.
Superfluo insistere sulla grave
incompletezza dei dati relativi alla
meteorologia e al microclima e alla reale
diffusione dei fumi, delle polveri, del
calore, del percolato di tutto il territorio
interessato dal progetto, sulla base
dell’anemometria, della piovosità,
dell’umidità e altri valori indispensabili
per una approfondita e seria valutazione
degli effetti dell’impianto in esercizio e
delle modifiche al territorio.
Deve essere ancora rilevato che benché “i
picchi delle concentrazioni si verificano in
zone poste a circa 2 km a est dall’impianto”
l’abitato di Paternò dista meno di 5 km dal
luogo dell’impianto ed i numerosi
inquinanti, che vengono liberati
nell’ambiente o quelli che potrebbero
sprigionarsi a causa di guasti, cattivo
funzionamento o insufficienza dei controlli,
potrebbero facilmente investire l’area
urbana.
Tale timore è rafforzato anche dalla
presenza, in seno all’impianto, della
discarica, destinata ad accogliere i residui
fortemente tossici della combustione, la cui
stabilizzazione non dà garanzie di sicurezza
nel lungo periodo, a causa della
degradazione e dei fenomeni erosivi (Chandler
et al., 1997).
Non va infine dimenticato che nel
comprensorio vaste aree accolgono colture
specializzate di pregiate varietà di agrumi,
olivo e fico d’india e, vanno affermandosi
aziende agrituristiche e di coltivazioni
biologiche come l’olio ivi prodotto che è
provvisto del marchio Doc “Monte Etna”. Ed è
proprio per salvaguardare la qualità di
questi prodotti che il DLgs 36/2003 vieta la
costruzione di impianti o la presenza di
discariche per rifiuti speciali in dette
aree.
Lo sconvolgimento che potrebbe essere
causato dalla costruzione, dal funzionamento
e dalle attività conseguenti del
termovalorizzatore, porranno l’area
interessata e i territori limitrofi in uno
stato di degrado tale, da vanificare ogni
progetto di sviluppo economico sostenibile
legato alle sue bellezze naturalistiche,
paesaggistiche, archeologiche e
architettoniche, numerose in quell’area e di
elevato pregio.
Non differente è la situazione
dell’inceneritore previsto a Bellolampo,
vicino Palermo, che “non risponde neanche ai
requisiti richiesti nelle linee guida
allegate al bando di gara dove si legge che
il sito deve essere distante da nuclei
abitati e aree urbane”.
Questo impianto, che diventerebbe il più
grande di Europa, sarebbe collocato in
un’area attualmente destinata a discarica e
prossima a esaurirsi, sopraelevata rispetto
alla città di Palermo e praticamente dentro
la cinta urbana; servita da una viabilità di
accesso già oggi critica. Inoltre, è
prevista nella stessa area la discarica per
i rifiuti speciali prodotti come residui dal
termovalorizzatore.
L’inceneritore di Bellolampo, con l’attuale
dimensionamento e a regime, per effetto
dell’inversione termica, potrebbe riversare
su Palermo:
- 33.300 kg/a di ceneri disperse contenenti
sostanze tossiche;
- 546.000 t/a di fumi immessi in atmosfera
contenenti fra l’altro, oltre a vapore
acqueo e anidride carbonica: diossine,
idrocarburi, metalli pesanti, come piombo,
mercurio, cadmio, anidride solforosa,
polveri fini, ecc.
Naturalmente non esiste nessun filtro in
grado di portare a zero i valori di
emissione di queste sostanze, che sono
dannose per la salute e provocano in molti
casi malformazione nei feti e cancro, come
ampiamente dimostrato dalla letteratura
medica.
Ma il caso Sicilia non è l’unica
realtà dove la competizione globale,
l’economia locale e la gestione politica
dimenticano i cambiamenti dello stato di
salute delle popolazioni e le radicali
trasformazioni dell’ambiente portano ad un
aumento, ormai incontrollato, dei rischi
urbani, che sono oggi una realtà
indiscutibile. Tali alterazioni possono
riguardare anche interi ecosistemi ed è
quindi importate parlare di salute
dell’ecosistema e di salute umana: ciò
implica la ricerca di una nuova prospettiva,
che riguarda la salvaguardia globale
dell’ambiente. Così se “le politiche
territoriali del passato hanno dato un
grande contributo alla drammatizzazione
delle trasformazioni ambientali. La
pianificazione territoriale convenzionale
risulta inadeguata, per cui si debbono
definire irrinunciabili approcci analitici
che tengano conto dei fondamenti
dell’ecologia” (Bettini, 1996).
In tal senso la legislazione europea da anni
pone l’accento sui rischi urbani ed è
stato riconosciuto che la qualità ambientale
delle aree antropizzate, intesa come
benessere fisico e psichico, è oggi la
principale richiesta della popolazione;
conseguentemente ponendo l’attenzione alla
mitigazione di tali rischi, con interventi
ad ampio raggio, basati soprattutto su
ordinarie iniziative politiche e non su
singoli episodi, i cittadini potranno
accettare i nuovi impianti.
I paesi europei hanno delineato strategie
nazionali, a sostegno della mitigazione dei
rischi in funzione dello sviluppo
sostenibile, cui riferire la pianificazione
alle diverse scale, promuovendo numerose
politiche e iniziative mirate sia a
sperimentare nuove soluzioni sia a
educare progressivamente la coscienza
dei cittadini (Monti, Roda, 2002).
Con quest’ottica è stato realizzato il
progetto del Quartiere Millennium Village, a
Londra, nella penisola di Greenwich, non più
abitata da alcuni decenni, in quanto
contaminata da industrie ormai abbandonate
che avevano determinato un inquinamento del
suolo da sostanze chimiche.
La scelta è stata quella di demolire le
strutture preesistenti e rimuovere lo strato
superficiale di terreno, mentre quello
sottostante è stato protetto da una
barriera, in modo da impedire il
trasferimento delle sostanze dannose.
Durante questa fase, ma anche durante quella
di costruzione, sono state osservate
procedure di sicurezza che garantissero
l’integrità di questo strato protettivo.
Tale intervento ha permesso il recupero di
un sito contaminato e una nuova
rifunzionalizzazione dello stesso; dunque un
processo inverso rispetto a quelli
realizzati o previsti in Sicilia.
Un caso differente ma trattato con le
medesime finalità è quello del Quartiere BO.01
della città di Malmö, dove l’area, una sorta
di penisola conquistata dall’uomo al mare,
con una popolazione prevalentemente
immigrata, nasce come città industriale,
destinata ad attività produttive e portuali,
ormai dimesse. Oggi è stata riconvertita in
un nuovo quartiere, con l’area edificabile
che occupa circa il 60% della superficie e
la restante destinata a parco lungomare, a
giardini, a nuovo porto turistico e a spazi
espositivi.
Il concetto di sostenibilità assume, in
questo progetto, un significato sociale,
ancora poco esplorato: il benessere dei
cittadini, infatti, non è soltanto
realizzazioni tecniche ma anche
coinvolgimento emotivo che induca
atteggiamenti positivi. L’elevata qualità
architettonica è stata una scelta primaria,
convinti che l’uomo abbia bisogno di
bellezza e varietà delle forme.
Inoltre, la città ha vinto il primo premio
di una campagna promossa dall’Unione europea
poiché il quartiere è alimentato
esclusivamente da energia prodotta in loco
da fonti rinnovabili e il Ministero
dell’edilizia della Comunità europea ha
offerto il proprio patrocinio, giudicando di
particolare interesse l’esempio di questa
nuova area residenziale.
Questi sono due esempi dei numerosi già
realizzati in diverse parti d’Europa dove la
pianificazione è attenta ai rischi urbani
in un’ottica globale, per cui qualunque
intervento sul territorio è attento alla
salute dei cittadini e diventa fattore di
competizione.
Il legislatore italiano inizia solo ora ad
accorgersi del problema e sono le regioni e
i comuni che primi si sono mossi
autonomamente avviando agenzie per
l’ambiente quali espressioni di nuove
intenzionalità dei governi di protezione
integrata, al di là di meri approcci
regolativi, mitigativi e compensativi,
guardando alle emissioni in atmosfera delle
combustioni e produzioni di energia, alle
qualità delle acque, alle esondazioni, alle
radiazioni naturali e artificiali, ai rischi
chimici dei materiali di sintesi e ai loro
cicli di vita.
A livello regionale numerose le iniziative
per la redazione di linee guida o documenti
di indirizzo che hanno il medesimo scopo;
come le linee guida, del 1999, per la
realizzazione dello studio di impatto
ambientale della Regione Toscana.
Su questi indirizzi si sta muovendo anche la
Regione Lombardia che, in collaborazione con
l’Arpa, sta predisponendo il primo manuale
di linee guida operative e di liste di
controllo per la gestione in qualità dei
processi di Agenda 21 locali.
Analogamente si muovono le province; infatti
già nel 1999 la Provincia di Milano
pubblicava le “Linee guida per la
perimetrazione di un sito contaminato”,
nelle quali veniva specificato, in modo
chiaro e sintetico, come procedere e a quale
scala operare per caratterizzare le aree
contaminate; definendo, inoltre, i contenuti
minimi della relazione tecnica relativa alla
fase di perimetrazione e le modalità di
raccolta e archiviazione dati.
Particolarmente significativa è anche la
scelta della Provincia di Roma, che prima di
redigere il piano territoriale provinciale
generale ha elaborato un documento di
indirizzi, che ne anticipa le modalità
tecniche di redazione e gli obiettivi di
programmazione, sulla base dei quali l’ente
ha sviluppato le proprie linee politiche e
di gestione. Inoltre, la redazione del piano
territoriale provinciale generale segue un
piano qualità, ai sensi della norma
Uni Iso 9000-2000, ottenendo la prima
certificazione di processo in questo
settore.
Anche a livello comunale si è cercato di
incentivare l’applicazione di interventi
sostenibili attraverso la riduzione degli
oneri di urbanizzazione o con premi
volumetrici, poiché oggi si è convinti che
il sistema volontaristico è quello che dà
migliori risultati.
È il caso del Comune di Calenzano che si è
dotato di linee guida per la
bioarchitettura, nelle quali i criteri e gli
indirizzi sono volti a incentivare la
consapevolezza del valore della
sostenibilità ambientale e della qualità
costruttiva associata a interventi di
riqualificazione urbana ed edilizia, oltre a
rendere realizzabili condizioni di benessere
psicofisico e di salubrità degli ambienti
interni.
O ancora del Comune di Sesto San Giovanni
che ha realizzato uno “Studio dell’impatto
sulla qualità dell’aria dei programmi di
sviluppo urbanistico della città”.
Questa scelta è stata particolarmente
significativa, infatti tramite i processi di
concertazione si è arrivati a progetti
condivisi per il riuso di aree
particolarmente degradate e anche la scelta
di inserire nuovi impianti porterà alla
formazione di nuovi territori accettati.
Queste sono solo alcune delle possibili
soluzioni che potrebbe avere “Il gioco
dell’urbanista” nei nostri territori, dove
il controllo e il contenimento dei rischi
urbani devono diventare motori di nuove
economie e, principalmente, occasioni di
riqualificazione ambientale. È necessaria
una nuova cultura che superi i paradigmi
dell’attuale politica economica e miri alla
salute e al rispetto dei diritti umani. |