Siamo tutti ormai assuefatti all’idea che la
nostra sia, a pieno titolo, la società
del rischio; una società costretta a
convivere con una crescente molteplicità di
fonti di pericolo1. Questa
consapevolezza è associata alla sensazione
di una maggiore vulnerabilità dei nostri
sistemi territoriali e ad una sempre più
diffusa percezione del fallimento delle
strategie di trattamento del rischio sino ad
oggi messe in campo.
Questo fallimento, almeno in parte, sembra
legato alle sempre più complesse modalità di
interazione fra le nuove fonti di pericolo e
il sistema delle relazioni sociali,
economiche e ambientali, che ci costringono
a sperimentare ed elaborare nuovi paradigmi
e strumenti di trattamento dei problemi
associati al rischio. Paradigmi e strumenti
che, in quella che è ormai considerata l’era
della tecnica2, vanno
necessariamente finalizzati alla costruzione
di modalità differenti di declinazione del
rapporto individuo-società-ambiente3.
Il lavoro presentato in queste pagine è il
risultato di una ricerca-azione svolta dal
Laboratorio per la progettazione ecologica e
ambientale del territorio (Lab.PEAT)
dell’Università di Catania nel comprensorio
industriale Asi di Siracusa dove è insediato
uno dei maggiori poli della chimica
italiana. Il principale obiettivo del lavoro
è di aprire nuove prospettive progettuali
per lo sviluppo di questo territorio a
partire dal senso di alcune riflessioni
costruite intorno ai contenuti della Carta
del paesaggio europeo, sottoscritta a
Firenze nel 2000.
In particolare la ricerca è costruita
attorno al significato che la Carta europea
del paesaggio attribuisce al termine
paesaggio inteso come “… una determinata
parte di territorio, così come è percepita
dalle popolazioni, il cui carattere deriva
dall’azione di fattori naturali e/o umani e
dalle loro interrelazioni”, e soprattutto su
ciò che la carta attribuisce come funzione
alla “gestione dei paesaggi” comprendendone
tutte “… le azioni volte, in una prospettiva
di sviluppo sostenibile, a garantire il
governo del paesaggio al fine di orientare e
di armonizzare le sue trasformazioni
provocate dai processi di sviluppo sociali,
economici e ambientali” e alla
“pianificazione dei paesaggi” che va
correttamente intesa come l’insieme “...
delle azioni fortemente lungimiranti, volte
alla valorizzazione, al ripristino o alla
creazione di paesaggi”.
Qualche considerazione preliminare … dal
paesaggio ai paesaggi
Dai contenuti della Carta del paesaggio
europeo emerge in primo luogo che, se il
paesaggio è in qualche modo ciò che una
comunità percepisce del suo ambiente di
vita, e comunità è ormai un termine
inevitabilmente plurale e atomizzato, il
paesaggio non può, per sua natura, essere
ormai declinato al singolare, ma solo al
plurale così come plurali sono le dimensioni
con cui può essere percepito e con cui
chiede di essere interpretato.
I paesaggi del rischio sono dunque
costituiti in primo luogo, da ciò che le
comunità hanno come consapevolezza dei
fattori di pericolo e delle vulnerabilità
presenti nel proprio territorio. Parlare di
paesaggio acquista tuttavia un senso solo in
relazione alla formulazione di strategie
finalizzate alla produzione di ambienti di
vita ecologicamente sostenibili e
socialmente non solo condivisi quanto
soprattutto progettati. Parlare di paesaggi
del rischio significa in particolare
esplorare le modalità con cui una data
comunità percepisce e vive la condizione di
esposizione ad alcune fonti di pericolo, ma
anche tentare di recuperare le sue facoltà
progettuali latenti al fine di restituire al
paesaggio e alle condizioni di vita presenti
in questi territori dignità e possibilità
plurali di esistenza.
È ormai evidente che per la costruzione di
nuovi paesaggi occorre mettere in campo
politiche integrate capaci di valorizzare e
interpretare queste istanze ed esigenze e
che i temi della mitigazione del rischio
richiedono, più che una implementazione
della tecnica, una forte implementazione
della politica, intesa quale luogo della
critica sociale volta a migliorare le
condizioni di vita delle comunità
territorializzate e volta a ricomporre le
relazioni ternarie
individuo-società-ambiente.
Qualche breve cenno storico … per recuperare
la memoria del luogo
Il processo di industrializzazione a Priolo
ha inizio nell’immediato secondo dopoguerra,
allorché nel 1948 il giovane Angelo Moratti,
trasferisce ad Augusta gli impianti di una
raffineria dismessa a Longview nel Texas
dando vita alla Rasiom (Raffineria siciliana
oli minerali) che successivamente diventerà
Esso.
La scelta del territorio di Priolo è
determinata da numerosi fattori: dal fatto
di trovarsi sulla rotta che collega il
Canale di Suez a Gibilterra dove si
registrava il maggior traffico di greggio
proveniente dal Medio Oriente e dalla
Russia; dalle favorevoli condizioni
orografiche del sito; dalla notevole
disponibilità idrica; dalla presenza di una
rada naturale; dalla possibilità di impiego
dei serbatoi e del pontile della Marina
militare costruiti durante la seconda Guerra
Mondiale. Soprattutto dal fatto che la
Provincia di Siracusa è l’emblema di un
meridione ancora rurale e arretrato, facile
all’incantamento delle promesse della
modernizzazione e con una grande
disponibilità di manodopera locale a basso
costo.
Sfruttando alcune agevolazioni e gli
incentivi economici erogati dalla Cassa per
il Mezzogiorno in pochi anni si vanno
progressivamente a insediare nell’area
numerosi altri impianti: la Liquichimica,
oggi Sasol, la Co.Ge.Ma.; l’Eternit, la
Sicilfusti; l’Edison che investe nell’area
quanto ricavato dalla cessione delle
industrie elettriche allo Stato realizzando
la S.IN.CAT (Società industriale catanese)
successivamente denominata Enichem per la
produzione di fertilizzanti; la Celene per
la produzione di polimeri; la Montecatini
che produce prodotti chimici e
petrolchimici.
A questi impianti verranno presto aggiunte
la centrale Enel Tifeo e negli anni settanta
l’Icam per la produzione di etilene, la
centrale termoelettrica Enel di Melilli, la
Erg energy e la raffineria Isab che cancella
con la sua localizzazione il tessuto urbano
di Marina di Melilli ormai incompatibile con
gli impianti allocati nell’area.
Negli anni settanta Priolo vive il miraggio
delle migliaia di posti di lavoro promesse
dall’industria, ma cambia il suo volto e nel
suo territorio cominciano ad affacciarsi
anche alcuni problemi inediti.
A Priolo, ad Augusta e a Melilli si
riversano centinaia di famiglie da tutta la
Sicilia alla ricerca di un posto di lavoro,
di una occupazione fissa in grado di
sottrarle alla precarietà del lavoro
agricolo, alla durezza di quello di mare e
alla dilagante disoccupazione
dell’entroterra siciliano.
L’ecosistema tuttavia comincia presto a
mostrare i primi sintomi di malessere:
insieme ai fumi delle ciminiere diventano
visibili i primi effetti dei gas inquinanti,
dei reflui delle lavorazioni chimiche e
degli scarichi industriali nelle acque del
mare. Soprattutto cominciano a venir meno
gran parte delle relazioni che prima
garantivano l’equilibrio del territorio: i
saperi del mondo contadino scompaiono e con
essi le cure per il suolo agricolo e i
vecchi legami di solidarietà e mutualità fra
la gente. La vita della comunità subisce
delle trasformazioni radicali. Il lavoro in
fabbrica diventa il principale elemento
regolatore e ordinatore della vita
dell’intera comunità.
Crescono la ricchezza pro-capite e i
consumi, nascono nuove attività commerciali,
ma la comunità comincia a soffrire le prime
situazioni di disagio a causa della sua
rapida crescita demografica e della mancanza
di adeguati servizi. Soprattutto cresce
senza tener conto di ciò che la circonda,
del nuovo paesaggio che ormai ha preso il
posto dei vecchi agrumeti, uliveti e
mandorleti.
È quasi la mezzanotte del 19.5.1985 quando
un guasto provoca l’esplosione di un
serbatoio di Etilene nello stabilimento
dell’impianto dell’Icam. Il paese deve
improvvisamente essere evacuato. Nel panico
migliaia di persone si riversano in strada
rimanendovi intasate con le proprie auto.
Nessuno sa cosa fare, dove andare. La gente
tenta di scappare ma non ci riesce.
Fortunatamente è solo etilene e non
ammoniaca come anni prima a Seveso, anche se
di ammoniaca negli stabilimenti di Priolo ce
ne era a sufficienza da provocare danni
assai gravi.
Questo non è un incidente del tutto
inaspettato: già da tempo specialisti di
vari settori, avevano cominciato a segnalare
i possibili effetti di alcune fonti di
pericolo presenti nell’area.
Alcuni medici, che operavano nel territorio
di Priolo, si erano già accorti di come le
patologie legate alla presenza di sostanze
nocive (malformazioni perinatali e
carcinoma, solo per citare i più frequenti)
fossero aumentate vertiginosamente. Così,
avevano cominciato da un lato a catalogare e
a monitorare tutte quelle patologie che
possono colpire i lavoratori e gli abitanti,
e dall’altro tentato di far prendere
conoscenza dei reali pericoli a cui sono
esposti. Avevano cioè tentato di far nascere
una cultura del rischio nella comunità
locale attraverso l’informazione.
Anche biologi e geologi avevano tuttavia
cominciato a denunciare alcuni fatti
meritevoli di attenzione.
I biologi analizzando la qualità dell’aria e
dell’ambiente marino, avevano trovato forti
correlazioni tra gli odori sgradevoli,
l’irritazione delle mucose e degli occhi, la
modificazione genetica di alcuni organismi
marini e la massiccia presenza di metalli
pesanti nell’aria e nel mare.
I geologi e i geofisici avevano messo in
guardia dai pericoli di inquinamento della
falda e del sottosuolo derivanti dalla
presenza delle numerose discariche abusive e
delle cave. Soprattutto avevano segnalato
l’elevata pericolosità sismica dell’area che
può facilmente e fatalmente tramutarsi in
occasione di innesco per una catena di
incidenti negli impianti industriali dagli
effetti imprevedibili e assai catastrofici
poiché difficilmente controllabili.
Questi studi, che hanno avuto una certa
diffusione all’interno della comunità
locale, costituiscono ancor oggi le
principali fonti di informazione sulle reali
condizioni di rischio dell’area di Priolo. È
su di essi che ancora oggi è fondata gran
parte dell’informazione diffusa ovvero il
sapere comune della popolazione che vive
nell’area.
La gestione (?) istituzionale del rischio
Tragedie come quelle di Seveso o
Manfredonia, o il fortunato epilogo
dell’incidente del 1985 a Priolo, portano a
trattare già a partire dal 1988 il problema
del rischio industriale anche a livello
istituzionale.
La risposta istituzionale tuttavia ancora
oggi non affronta le condizioni strutturali
e la complessità dei problemi realmente
presenti, limitandosi a organizzare solo
l’eventuale emergenza, trascurando le
condizioni normali di esercizio degli
impianti che nell’area di Priolo, come in
tantissime altre realtà, costituiscono la
vera emergenza. Essa è affidata alla
applicazione di direttive, per alcuni
aspetti troppo generiche, che lasciano le
questioni del rischio fuori dalla
costruzione di una strategia complessiva di
sviluppo del comprensorio.
La legge 334/1999, meglio conosciuta come
Seveso II4, attualmente norma
le situazioni di rischio industriale in
Italia. Con questa legge il legislatore si
prefigge di censire e controllare tutte
quelle fabbriche che possono causare un
incidente rilevante, cioè una
esplosione, un incendio o una fuga di
sostanze tossiche.
Le fabbriche ritenute pericolose vengono
così individuate attraverso due parametri:
il tipo e il quantitativo di sostanza
lavorata. Se l’azienda detiene una certa
quantità di sostanza pericolosa superiore ai
limiti fissati dalla legge, questa viene
ritenuta fonte d’incidente rilevante, mentre
restano escluse da qualunque controllo le
cave, le discariche di rifiuti, gli
elettrodotti, gli impianti militari, le
condotte, i trasporti pericolosi su ferro e
su gomma.
La Seveso II affida il trattamento
della messa in sicurezza del territorio a
due piani: uno interno all’area di
produzione che deve redigere l’azienda ed
uno esterno che deve essere redatto dal
Prefetto, d’intesa con le regioni e gli enti
locali interessati, mentre le
amministrazioni comunali in cui ricadono
questi impianti sono tenute a redigere un
rapporto di sicurezza, che deve informare la
popolazione esposta dei rischi presenti
nell’area.
Sulla base di questi elementi a Priolo, le
industrie ritenute pericolose risultano solo
il polo petrolchimico (Agip, Polimeri
Europa, Enichem), l’Isab-Erg e l’area Air
Liquide (Figura 1).
Figura 1 - Sorgenti di pericolo
presenti nel territorio di Priolo
secondo le istituzioni (vengono
considerate solo quelle capaci di
provocare danni provocati da un
incidente rilevante) |
|
1. Polo petrolchimico; 2. Isab-Erg;
3. Air Liquide |
A Priolo tuttavia gran parte delle fabbriche
interessate dalla Seveso II ha
redatto un piano di sicurezza interno che
per molti versi risulta di certo parziale e
incompleto, almeno per quanto attiene alla
definizione dei danni che alcune sostanze
pericolose possono causare al lavoratore o
al cittadino che vi si trovi a contatto, e
alla individuazione delle aree di ricaduta
in caso d’incidente rilevante. Questi
strumenti si limitano infatti a pianificare
la fuga dall’area degli impianti, senza
preoccuparsi di ciò che avviene dopo e
all’esterno.
Alla fine, sebbene siano trascorsi circa
quindici anni dall’emanazione della
Seveso e cinque dalla Seveso II,
non è neanche entrato in vigore il piano di
sicurezza esterno, l’unico strumento
previsto dalla legge per pianificare le
operazioni da svolgersi in caso d’incidente
industriale5, mentre l’Agenzia
regionale per la protezione dell’ambiente,
che ha il compito di monitorare le
condizioni dell’ambiente, stenta ancora a
partire e non dispone di propri strumenti
idonei al controllo della diffusione di
sostanze pericolose o nocive nell’ambiente.
La stessa protezione civile si limita a
controllare la situazione attraverso l’uso
di alcune telecamere poste sul tetto del
municipio, puntate sulle ciminiere delle
industrie a rischio. In caso d’allarme,
attraverso l’uso di megafoni posti agli
angoli di qualche strada del centro, si
pensa di poter avvisare la popolazione sul
da farsi. Sebbene si sia provveduto a fare
simulazioni nelle scuole e in altri ambienti
altamente frequentati, a Priolo non si sono
mai svolte prove generali di evacuazione in
caso d’allarme per incidente rilevante. Nel
piano di sicurezza del territorio sono
previste solo zone di raccolta in caso
d’evento sismico. Nessuna informazione si ha
invece sulle aree di raccolta e tanto meno
sulle vie di fuga in caso di un incidente
nella zona industriale.
Per quanto attiene all’informazione dei
cittadini, da un lato la Seveso II
attribuisce al sindaco la responsabilità di
informare i cittadini sia sul pericolo a cui
sono esposti sia sulle norme da seguire in
caso d’incidente, responsabilità che a
Priolo non appare comunque assolta;
dall’altro la medesima legge prevede la
secretazione di alcuni dati che sarebbero
fondamentali per una reale messa in
sicurezza di Priolo. Di fatto gli abitanti e
i lavoratori non sono informati del reale
rischio a cui sono quotidianamente esposti,
e ne hanno consapevolezza solo attraverso la
propria esperienza quotidiana: gli odori
sgradevoli, le intossicazioni e alcune
malattie gravi, e i mass media, che sono
oggi più attenti a portare in luce certe
situazioni di disagio sociale e ambientale.
La consapevolezza del rischio si ha più
perché esso è diventato un sapere diffuso
che si veicola da cittadino a cittadino, che
per il ruolo svolto dall’amministrazione di
costruzione di campagne di informazione
sull’argomento.
Nel frattempo di crisi in crisi cala
progressivamente il numero degli occupati
nell’area: dei 20.000 posti di lavoro degli
anni settanta ne restano ormai poco meno di
6.000. Resta invece in questo scenario di
generale smobilitazione che lascia
disoccupazione, malattie e inquinamento il
problema del che cosa fare, del come
costruire un modello credibile di futuro per
questa area a partire dalla situazione
attuale.
Verso la costruzione di una nuova immagine
di futuro con la comunità di Priolo
In questo contesto si è tentato di inserire
la ricerca-azione del Lab.PEAT che intende
recuperare e far emergere le capacità
progettuali latenti della comunità di Priolo
a partire dalla crescita della
consapevolezza delle effettive condizioni di
esposizione ai rischi presenti nel
territorio al fine di avviare processi utili
a costruire nuove immagini di futuro per
l’area. Immagini capaci di riannodare i
legami del sistema delle relazioni ternarie
individuo-società-ambiente.
Il lavoro del Lab.PEAT è stato indirizzato,
in una prima fase, verso l’individuazione
degli hazard che realmente incidono
sulla vita quotidiana degli abitanti, per
vedere come influenzano i comportamenti
della comunità e il tipo di pressione che
essi esercitano sull’ambiente naturale.
Gli hazard che abbiamo considerato
nel nostro lavoro sono molto più numerosi di
quelli previsti dalla normativa, perché
nella nostra prospettiva sono considerati
hazard non solo quelli che provocano
danni a causa di un qualche incidente, ma
anche quelli che creano danni diffusi e
continui nel tempo e nello spazio; in altre
parole si è attribuita maggiore rilevanza ai
fattori sempre presenti sul territorio e
dunque maggiormente percepiti dalla
popolazione. Alla luce degli studi ufficiali
e informali6 sino ad oggi
condotti nell’area, le sorgenti di pericolo
accertato che insistono sul territorio
comprendono almeno il polo petrolchimico (Agip,
Polimeri Europa, Enichem), l’Isab-Erg, l’Air
Liquide, la centrale termoelettrica Enel, il
depuratore Ias, il cementificio Unicem, le
cave, le discariche abusive, l’elettrodotto,
l’energodotto, le vie di comunicazione
principali (Ss 114, ex Ss 114, ferrovia) e i
depositi militari (Figura 2).
Figura 2 - Sorgenti di pericolo
presenti nel territorio di Priolo
secondo le fonti scientifiche
(vengono considerate quelle capaci
di provocare sia danni puntuali, sia
danni diffusi, anche in assenza di
incidente rilevante) |
|
1. Polo petrolchimico; 2. Isab -
Erg; 3. Air Liquide; 4. C.T. Enel;
5. Depuratore Ias; 6. Cementificio
Unicum; 7. Cave; 8. Discariche
abusive; 9. Ss 114; 10. Ex Ss 114;
11. Linea ferroviaria; 12.
Elettrodotti; 13. Faglie |
Nel nostro lavoro abbiamo inoltre ritenuto
opportuno adottare un più ampio concetto di
vulnerabilità, inteso come propensione al
danno7. In questa accezione è
tutto l’ecosistema del territorio di Priolo
che diventa area sensibile ai danni
provocati dalle industrie, poiché ogni suo
elemento è in relazione con tutte le altre
componenti del territorio. Per questo motivo
è stata elaborata una carta in cui sono
evidenziate le aree d’impatto di tutte le
fonti di pericolo presenti nell’area
utilizzando i dati e le informazioni
scientifiche provenienti dagli studi fatti
sul territorio di Priolo e di Melilli (Figura
6). È stato così possibile individuare
quattro macro-aree:
Figura 6 - Aree d'impatto danni
diffusi |
|
|
1. aree in cui sono registrati effetti
diretti sulla salute: sono le aree in cui le
indagini mediche segnalano l’aumento di
alcune patologie correlate alla presenza di
alcune sostanze derivanti dai processi di
lavorazione delle industrie. In particolare
sono stati registrati tassi di mortalità più
elevati per tumori (al polmone, al pancreas
e all’encefalo) e risultano più frequenti i
casi di malformazioni congenite e malattie
perinatali;
2. aree interessate da effetti dannosi a
carico dell’ambiente marino: sono le aree in
cui alcuni studi di biologia marina hanno
dimostrato la presenza di mutazioni
genetiche in alcuni organismi marini
provocate da alcuni metalli pesanti
rilasciati in mare;
3. aree con presenza di sostanze inquinanti
nel sottosuolo: si tratta delle aree in cui
si sono riscontrate tracce di sostanze
inquinanti nelle acque del sottosuolo
impiegate negli usi civili e per irrigare i
campi e in cui il prelievo massiccio dalle
falde idriche da parte delle industrie, ha
fatto abbassare la quota piezometrica di
circa 100 m, con conseguente ingresso in
falda di acqua marina;
4. aree interessate dalla presenza di
inquinamento atmosferico: comprendono le
aree in cui si registra il superamento della
soglia massima di legge per concentrazione
in atmosfera di metalli pesanti, di
mercaptani e di ammine responsabili di odori
sgradevoli e di irritazione dei tessuti e
delle mucose.
La comparazione tra le aree di ricaduta
delle fonti di pericolo e i fattori di
vulnerabilità del territorio permette di
mettere in luce le rilevanti differenze tra
ciò che oggi viene considerato pericolo
dalle istituzioni e ciò che più
coerentemente dovrebbe essere preso in
considerazione come fattore di pericolo per
l’area.
Secondo le istituzioni le zone coinvolte da
un possibile rilascio di sostanza tossica o
di esplosione, non superano i confini delle
fabbriche (Figura 3);
Figura 3 - Aree d'impatto secondo le
istituzioni (per esse le aree
d'impatto non superano i confini
delle fabbriche) |
|
|
mentre attraverso una semplice
implementazione di alcune formule riportate
da Vismara (1988), le aree di ricaduta degli
impatti superano abbondantemente il
perimetro delle industrie interessando sia
il centro abitato di Priolo che gli altri
insediamenti industriali, provocando
possibili effetti domino di proporzioni
molto vaste. In particolare, qualora
esplodesse un serbatoio di ammoniaca avremmo
il probabile crollo totale degli edifici in
un raggio di 1073 m, la demolizione parziale
degli edifici fino a 1428 m, edifici
inabitabili, ma riparabili fino a 3213 m (Figura
4).
Figura 4 - Aree d'impatto in caso di
esplosione di un serbatoio di
ammoniaca |
|
|
Le cose peggiorano implementando le formule
per l’esplosione di un serbatoio di benzene
in cui si possono avere danni del primo tipo
sino a1400 m, del secondo tipo sino a 1850 m
e del terzo tipo sino a 4150 m (Figura 5).
Figura 5 - Aree d'impatto in caso di
esplosione di un serbatoio di
benzene |
|
|
Il focus del nostro lavoro, alla luce delle
considerazioni rappresentate
nell’introduzione, è tuttavia volto alla
individuazione delle cesure provocate dai
processi di trasformazione del secolo
scorso. In particolare, a cavallo degli anni
’50 il paesaggio da agricolo si è
trasformato in industriale, e ha sradicato
completamente le tradizioni e gli stili di
vita locali, cambiando soprattutto tempi e
forme del rapporto tra comunità e ambiente.
Quando, cioè, il contadino si trasformò in
operaio, il sistema sociale della comunità
rurale divenne quello della catena di
montaggio deresponsabilizzando gli abitanti
nei confronti del territorio.
I risultati di questa lettura sono
restituiti nella tavola delle dinamiche
dell’uso del suolo (Figura 7).
Figura 7.1 - Dinamiche dell'uso del
suolo di Priolo dal 1967 al 2004 |
|
|
Figura 7.2 - Aree derelitte presenti
a Priolo nel 2005 |
|
|
Questa carta è stata redatta confrontando l’Igm
del 1967 e le ortofoto del 2004. Dalla
matrice di trasformazione del territorio tra
gli anni ’60 e il 2000, appare subito come
coltivazioni da lungo tempo presenti sul
territorio (agrumeti, mandorleti, uliveti)
abbiano lasciato il posto negli ultimi anni
a vaste aree derelitte, che solo sui Monti
Climiti sono state rioccupate da vegetazione
spontanea. Il resto delle aree, soprattutto
sulla piana, dall’entroterra al mare,
risultano spoglie e spesso vandalizzate da
discariche abusive.
L’industrializzazione ha prodotto nel
territorio una presenza massiccia di aree
abbandonate, che possiamo oggi definire veri
e propri relitti paesistici. Mentre
l’effetto sull’ambiente è rappresentato
sottoforma di inquinamento dell’aria,
dell’acqua e del suolo e sulla salute umana
e l’effetto sulla psiche e sui comportamenti
umani è visibile nella assuefazione al
rischio, l’effetto sul territorio assume la
forma visibile delle aree derelitte. Abbiamo
cioè, cercato di indagare come le fonti di
pericolo influenzano la vita della comunità
di Priolo. In questa fase sono stati
necessari uno scambio di conoscenza e un
dialogo diretto con la comunità, ma anche la
lettura della storia del territorio
interpretata e ricostruita attraverso i
testi e i documenti ufficiali e non, e
attraverso la comparazione delle carte e
delle ortofoto.
Il riscontro di questa mutazione
degenerativa si è poi avuto dialogando con
gli abitanti attraverso interviste mirate a
indagare i livelli di conoscenza, i gradi di
informazione e soprattutto di elaborazione
da parte degli abitanti di Priolo delle
fonti di pericolo, presenti nel loro
territorio, dei comportamenti e delle norme
da seguire in caso d’incidente, delle
influenze che tutto ciò ha sul loro vissuto
quotidiano.
Ne è emerso che la quasi totalità dei
cittadini sa di vivere in una zona ad alto
rischio industriale, ma lo sa perché, come
già detto, il rischio è un sapere diffuso e
non perché è realmente informata dalle
istituzioni. La maggior parte dei soggetti
sconosce, infatti, le norme principali di
comportamento in caso d’incidente.
Ma ciò che dal nostro punto di vista risulta
più rilevante è che gran parte del campione
intervistato identifica Priolo con le
fabbriche. Non riesce ad avere una immagine
differente del proprio luogo di vita: Priolo
è i suoi fumi infernali, i suoi serbatoi
d’ammoniaca, i suoi odori malsani. Questo
accerchiamento delle industrie, provoca un
senso di angoscia e di smarrimento negli
abitanti di questo territorio, che ne limita
le capacità progettuali. Le uniche due
possibilità di comportamento rilevate
attraverso le interviste sono così ridotte
alla fuga da Priolo o all’assuefazione,
quasi patologica, a questo sistema di cose,
dimenticando come era la costa in passato e
non riuscendo a immaginare cosa essa
potrebbe diventare in futuro.
Questa immagine diffusa del proprio luogo di
vita emerge anche, e se vogliamo ancor più
drammaticamente, dal lavoro svolto con i
bambini della scuola elementare Manzoni, che
con i loro disegni ci hanno restituito la
loro visione del territorio, la loro
dimensione e prospettiva di esistenza (Figura
8).
Figura 8 - Priolo vista con gli
occhi dei bambini |
|
|
Questi dati ci hanno permesso di costruire
quella che abbiamo definito la carta
delle paure e delle abitudini, una carta
che non ha alcuna pretesa di oggettività e
che di certo presenta molti limiti a causa
delle difficoltà di trasferimento dei
comportamenti e dei sentimenti in una carta
territoriale al 25.000. Da questa tuttavia
emergono molte delle contraddizioni e delle
patologie a nostro avviso oggi presenti nel
territorio (Figura 9).
Figura 9 - Le paure e le abitudini
della comunità |
|
|
Attraverso lo studio delle dinamiche del
suolo e il dialogo con gli abitanti sono
emersi due racconti del territorio.
Il primo.
Priolo nasce dalla conformazione
geomorfologia dei Monti Climiti. Proprio la
loro forma e la loro sostanza sono l’inizio
di tutto. Dai loro canyon naturali di pietra
calcarea, si riescono a raccogliere e
incanalare le acque che dalle sommità
montuose arrivano fino al mare. È intorno a
questi corsi d’acqua che gli uomini di
questa porzione di Sicilia, fin dalla
antichità organizzano la loro vita. L’acqua
diventa l’elemento generatore e aggregatore
di tutte le risorse umane. Le permanenze
delle vecchie masserie e dei percorsi rurali
che le connettono sono segni che
testimoniano questo legame. L’uomo aveva un
forte interscambio con la natura: questa
veniva tutelata e curata e in cambio
sostentava tutte le comunità antropiche che
nel corso dei secoli si sono succedute.
Dunque, schematizzando, la relazione
ecologica fondamentale in questo territorio
è: conformazione geomorfologica — corsi
d’acqua - rete antropica rurale.
Il secondo.
Il territorio ci dice che queste relazioni
sono state interrotte e questa rottura ha
determinato la nascita dei relitti
paesistici. Infatti l’acqua prelevata in
forma massiccia dal sottosuolo per i
processi industriali ha spezzato il legame
con la terra; la città ingrandendosi per la
forte emigrazione verso la zona industriale
ha cementificato i corsi d’acqua. Nel
frattempo, il contadino ha smesso di
coltivare, preferendo la tuta blu.
Così in breve tempo tutto il territorio ha
assunto una conformazione industriale
dimenticando la sua essenza agricola.
Lacerti di territorio prima fiorenti,
diventano sterili e appetibili solo come
discariche a cielo aperto. Dunque
ripristinare la relazione ecologica
fondamentale, e di conseguenza tutto il
tessuto spaziale che intorno si era
attivato, è lo spunto e il suggerimento che
il territorio ci comunica.
Ri-significare il territorio significa
scardinare le relazioni malsane che legano
oggi l’uomo, la società e l’ambiente per
ritrovare quelle perse ed ecologicamente
valide. Per ritrovare il paesaggio sano,
fatto di relazioni compatibili e sostenibili
con il territorio. Questo non vuol dire
restaurare il territorio, non avrebbe senso.
Questo vuol dire ri-scoprire la relazione
ecologica fondamentale e ri-progettare i
relitti paesistici.
Per costruire e dare vita ad una struttura
di relazioni, è stata realizzata una
carta delle unità ambientali, attraverso
cui si è tentata una interpretazione del
territorio con la quale innescare il nostro
percorso ecologico progettuale (Figura 10
e 11).
Figura 10 - Il Parco delle
relazioni: la sua trama |
|
1. Parco agricolo; 2. Parco dei
monumenti naturali; 3. Parco delle
operosità ecologiche; 4. Parco della
memoria ecologica; 5. Il parco di
terra e di mare; 6. Parco della
pace; 7. Laboratorio del verde
sperimentale; 8. Aree filtro per il
biomonitoraggio e la fitoestrazione;
9. Aree di osmosi tra Parco e centro
abitato; 10. Aree di integrazione
con bosco diffuso; 11. Aree per
agricoltura no-food; 12. Aree per
agricoltura alimentare; 13. Aree per
il trattamento delle acque reflue |
Figura 11 - Il Parco delle
relazioni: le sue peculiarità
diffuse |
|
|
Ci sembra che essa possa costituire un utile
punto di partenza per approfondire alcune
relazioni presenti nel territorio, da cui è
possibile tentare una spiegazione per certe
dinamiche di cambiamento nell’uso del suolo
e del paesaggio. Ma soprattutto per avviare
un lavoro riflessivo di ri-immaginazione
collettiva del territorio. Magari a partire
da alcuni interventi che possono essere
concretamente avviati per ristabilire un
minimo di condizioni d’equilibrio tra la
comunità e il suo ambiente di vita e che
possono essere correttamente inseriti
nell’alveo delle politiche correnti e
ordinarie di programmazione e governo delle
trasformazioni d’uso del suolo.
Con ciò si spera di avviare un dibattito
sulla possibilità di innesco di modalità
differenti di coesistenza tra gli abitanti e
gli impianti industriali, ma soprattutto di
riaprire la collettività ad un maggior senso
di responsabilità e di voglia di
protagonismo nei confronti delle sorti del
suo territorio.
Ma quali contenuti dare a questo progetto?
Noi abbiamo pensato ad un progetto che ci
piace definire ecologico: una nuova rete di
relazioni da innestare sul territorio.
Qualcosa che implichi tutela e rispetto dei
segni antichi sia naturali che antropici, ma
anche frequentazione sociale ad ogni
livello: una differente declinazione
dell’idea di parco.
La nostra idea di parco per Priolo
Il territorio su cui si vuole intervenire è
ampio. Va dai Monti Climiti al mare,
passando per la pianura dove c’è il centro
abitato di Priolo. In esso sono chiaramente
identificabili almeno tre differenti unità
ambientali. Per questa ragione abbiamo
ritenuto opportuno articolare la nostra
proposta in tre ambiti: la fascia sopra il
gradino morfologico dei Monti Climiti; la
zona a sud dell’abitato di Priolo, la
penisola Magnisi.
Seppur differenti dal punto di vista
morfologico, tutti questi ambiti sono
tuttavia uniti dai corsi d’acqua che dai
monti scendono fino al mare; questi corridoi
biotici, sono da sempre delle cerniere
naturali che legano i monti al mare insieme
alle permanenze delle armature antropiche di
matrice rurale e archeologica.
Agire su questi ambiti implica la
rigenerazione delle loro relazioni
ecologiche, ma anche ri-considerare e
ri-progettare i vuoti, i relitti
paesistici che questi corridoi
connettono.
Un parco fatto da poche aree vincolate ma
che si propone quale ambiente creativo, di
incontro sociale, ma anche di lavoro. Ecco
qual è la nostra idea di parco. Niente di
confinato, anzi luogo di integrazione umana
e ambientale; luogo della memoria e
dell’innovazione tecnologica in chiave
ecologica e di ri-fondazione della comunità
locale.
Con questo intervento si vuole spostare
l’asse l’attenzione dalla zona industriale
all’entroterra, con una piccola appendice
sulla penisola Magnisi. Incidere sulla
identificazione della comunità con le
fabbriche. Ma anche altro: un nuovo modello
di sviluppo economico per il territorio che
vuole essere altro rispetto al polo
petrolchimico proponendosi come un polo di
sviluppo ecologico e scientifico. La
chimica verde, i bio-materiali, i centri
di ricerca e per l’agricoltura no-food
sono solo alcuni spunti di riflessione per
una nuova economia dell’area.
Il parco agricolo
Questo parco, da un lato ri-propone la
coltivazione e il mantenimento delle specie
agricole tipiche della zona mantenute coi
cicli della rotazione, con il ripristino di
tutte le strutture antropiche di supporto
(masserie, percorsi, pozzi); dall’altro
propone la fruizione tipica dell’ecoturismo,
della didattica, con percorsi pedonali,
ciclabili o da percorrere a cavallo.
Molta importanza è data alla chiusura di
alcuni cicli ecologici urbani usando come
concime i rifiuti organici della città. La
valenza storica, per un territorio che fonda
le sue radici nella cultura agricola, di un
parco del genere è fondamentale. Questo
ambito permette di ricucire lo strappo che
l’industria pesante ha creato tra comunità e
territorio; si propone quale luogo di
memoria e attrattore economico-turistico per
tutta la zona, luogo di svago e di cultura
allo stesso tempo.
Il parco dei monumenti naturali
In questo ambito rientra la formazione
geomorfologica dei monti Climiti. I Climiti
vanno ri-significati come sistema
ecologico, per la densità di segni di
valore storico e naturale presenti. I
rilievi (ad esempio Monte S. Nicola), i
canyon, le grotte, le gole presenti in
quest’ambito costituiscono un patrimonio di
inestimabile valore, insieme alla macchia
mediterranea qui in forte espansione nelle
aree abbandonate dall’uomo e alle
testimonianze archeologiche presenti
nell’area.
Le cave in questo contesto possono diventare
occasione per insediare nuove attività
economiche quali laboratori per la
trasformazione primaria dei prodotti
provenienti dalle coltivazioni no-food,
laboratori artigianali per il riciclaggio,
per la creazione di manufatti artistici,
spazi per attività sportive non agonistiche,
laboratori per la modellazione del gesso
(nei dintorni delle cave).
L’alveo del Mostringiano può così essere
riqualificato e proposto quale spina verde
che connette il parco da ovest a est. Da
essa può partire una rete di percorsi
pedonali trasversali recuperando le vecchie
trazzere rurali. Questo parco può
svolgere inoltre la funzione di connettore
delle periferie più estreme della città (i
quartieri a est e San Focà), diventando
elemento utile alla loro riqualificazione.
Il parco della memoria ecologica
Esso si inserisce in un ambito, tutto da
ri-progettare e ri-inventare: un cammeo di
territorio. Un territorio da esplorare per
strati nelle relazioni che legano le
masserie, i percorsi rurali, i pozzi e i
corsi d’acqua, alle permanenze archeologiche
e che ci testimoniano l’antico rapporto
presente in questo contesto tra uomo e
ambiente.
Questo spazio si presta inoltre a ospitare
molte forme di attività artistiche. Noi lo
immaginiamo come un museo a cielo aperto,
fatto di mostre itineranti e appuntamenti
periodici che comunque abbiano come tema
conduttore l’ambiente e il suo rapporto con
l’uomo.
Anche qui cerniera con le altre aree a parco
diventa il corso d’acqua che noi pensiamo
ripristinato e bonificato, insieme ai
numerosi percorsi rurali.
Il parco di mare e di terra
La penisola Magnisi è un posto assolutamente
da scippare agli scenari dei paesaggi
della industria del petrolio. La zona oltre
a rivestire una enorme valenza ecologica è
anche sede dei resti di Thapsos, uno dei più
importanti insediamenti siciliani dell’età
del bronzo. Oggigiorno la penisola è
abbandonata a se e i reperti difficilmente
fruibili. Bisogna mettere in valore tutto
ciò e riscoprire il rapporto col mare qui da
sempre presente.
Il parco della pace
Luogo simbolico, senza barriere o frontiere.
Luogo indefinito fra monti e collina,
crocevia di strade da nord, da sud, da est,
da ovest. Luogo di incontro e scambio di
esperienze e tematiche sull’integrazione, la
pace e la multicultura. Parco da
contrapporre alla base Nato che si trova
anch’essa sotto i Climiti, ma dalla parte
opposta, che è invece chiusura e sottrazione
di territorio.
Il parco sempre aperto, può ospitare forum
permanenti sulle tematiche ecologiche e
pacifiste, e attività artistiche di ogni
tipo ma può ospitare anche un centro di
accoglienza per i profughi di tutte le
guerre.
Il laboratorio del verde sperimentale
Questo spazio adiacente alle scuole, è un
luogo volto a costruire una spinta educativa
alla formazione ecologica dei bambini e dei
genitori. Qui, sarà possibile la
trasmissione del sapere locale alle nuove
generazioni che poco conoscono la storia e
le tradizioni di Priolo. Un luogo per la
elaborazione di possibili nuovi modelli di
sviluppo del territorio. Riavviare il
contatto con la terra e aprire nuove
prospettive nel rapporto tra i giovani e
ambiente.
Le aree filtro per il biomonitoraggio e per
la fitoestrazione
Nelle aree abbandonate intorno le industrie
sarebbe impossibile e dannoso recuperare il
territorio con attività antropiche di
fruizione a scopo ricreativo. Tuttavia sono
forse questi i paesaggi su cui è più
necessario intervenire. Una possibilità di
recupero, per mitigare i problemi di
inquinamento che come sappiamo sono qui
maggiormente evidenti, è data dalla loro
piantumazione con bioindicatori (piante che
riescono a indicare la presenza di metalli
pesanti nel suolo e in atmosfera) e
bioaccumulatori (piante che riescono a
mitigare la presenza dei metalli pesanti nel
suolo).
Le aree per agricoltura non alimentare
Non tutte le aree coltivate devono produrre
prodotti da inserire nella catena
alimentare. In questi ultimi anni le
ricerche sulle fonti alternative di energia
rinnovabile hanno creato una nicchia della
agricoltura, quella non alimentare (no-food).
Vi sono molte specie vegetali che servono
per questi scopi. A noi interessa
sostanziare l’uso alternativo dei suoli
derelitti, di nuovo produttori di territorio
e di economia locale. Infatti, i prodotti
della agricoltura no-food, non solo
possono essere qui prodotti ma anche
lavorati8.
Le aree per agricoltura alimentare
In alcune aree è tuttavia ancora possibile
praticare alcune colture per uso alimentare.
Queste aree in particolare sono collocate in
prossimità di contrada Feudo Grande e a sud
verso il fiume Anapo. Per gli abitanti di
Priolo, questa area rappresenta già la
campagna, il luogo dove trascorrere qualche
ora nel verde durante le festività.
Le aree per il trattamento delle acque
reflue
Questo è un ambito, da destinare al
trattamento delle acque con la
fitodepurazione. Qui si raccolgono le acque
reflue del centro abitato, si depurano in
modo naturale e si rimettono in ciclo.
L’area viene piantumata con una fitta
vegetazione di pini marittimi già presenti
lungo la costa. La vicinanza alla zona
industriale, la rende una zona filtro, e
quindi non fruibile da tutti i cittadini, ma
solo agli addetti ai lavori di depurazione e
di monitoraggio delle acque superficiali e
di sottosuolo.
Per tirar le somme
L’idea di parco che abbiamo cercato di
costruire è solo un modo per avviare un
dibattito sulla possibilità di esistenza di
un futuro differente per il comprensorio. Ci
sembra assai improbabile infatti che la
riduzione del rischio industriale a Priolo
possa passare solo attraverso la
realizzazione di nuove vie di fuga da
utilizzare in caso di incidente. Gli
incidenti a Priolo si verificano ogni
giorno. Basta scorrere con un po’ di
attenzione l’Atlante della mortalità per
tumori e per le patologie cronico
degenerative in Provincia di Siracusa dal
1995 al 19999. O ancora più
drammaticamente guardare gli occhi di quelle
madri che mettono alla luce bambini che non
potranno mai sorridere pienamente alla vita.
Con l’ingresso delle fabbriche nel
territorio di Priolo non è stato mutilato
infatti solo l’ambiente, ma anche le
persone, cui sono state limitati alcuni
diritti fondamentali quali quello alla
salute e ad una dignitosa qualità della
vita. Ma soprattutto le capacità creative e
inventive, la capacità di costruzione di
futuro. È su questa capacità che ci sembra
più utile fare affidamento e lavorare per
costruire i paesaggi del futuro.
Il paesaggio derelitto che oggi possiamo
vedere in questo territorio, infatti, non è
altro che il risultato della deriva di
questo complesso processo, della rottura
delle relazioni virtuose tra
individuo-comunità-ambiente che sono stati
da sempre i punti di forza di ogni comunità
territorializzata.
Note
1
Cfr.Beck (1992).
2
Cfr Galimberti (1999).
3
Cfr Micarelli, Pizziolo (2003).
4
La prima legge in Italia a occuparsi del
rischio industriale arriva come recepimento
della direttiva Cee 501/1982 (meglio nota
come direttiva Seveso), ed è la
175/1988, questa viene poi superata da
quella attualmente in vigore, la legge
334/1999 la cosiddetta Seveso II,
anch’essa frutto del recepimento della
direttiva Cee 82/1996.
5
Per quanto abbiamo potuto appurare, questo
strumento esiste, è depositato in Prefettura
a Siracusa, ma nessuno conosce le
motivazioni della sua non diffusione. È
difficile prendere visione delle fonti
impiegate per la redazione del piano, utili
quanto meno a informare la popolazione sui
rischi reali cui è quotidianamente esposta.
6
Cfr. Franco, Centineo (1989); Mededdu et
alii (2001).
7
Cfr. Menoni (1999).
8
I prodotti della agricoltura no-food
possono essere usati per:
- produzione di biomasse con specie arborie
a rapido accrescimento (pioppo, salice,
aucalipto) o con specie erbacee (arundo,
miscanthus);
- produzione di biodiesel e biolubrificanti
con semi di colza, soia, girasole;
- produzione di biopolimeri e materiali
riutilizzabili con l’amido derivato dalla
patata, il mais, il frumento;
- produzione di fibra naturale con colture
di cotone, lino, canapa.
9
Cfr. Mededdu A., Contrino L., Tisano F.,
Sciacca S., (2001).
I paragrafi “Qualche considerazione
preliminare … dal paesaggio ai paesaggi” e
“Qualche breve cenno storico … per
recuperare la memoria del luogo” sono da
attribuire all’ing. F. Gravagno; i paragrafi
“Verso la costruzione di una nuova immagine
di futuro con la comunità di Priolo” e “La
nostra idea di parco per Priolo” sono invece
da attribuire all’ing. S. Messina.
Bibliografia
Apat/Matt (2002), Mappatura del rischio
industriale in Italia, Iger, Roma.
Avarello P. (2003), Il paesaggio del
“buon governo”, in “Urbanistica”, n.
120, Inu, Roma.
Baiardi G., Ghiribelli P. (1987), Fonti
di inquinamento ambientale, Pirola
editore, Milano.
Bateson G. (2003), Steps to an ecology of
mind, trad. it.
Verso un’ecologia della mente,
Adelphi, Milano.
Beck U. (1992), (trad. di M. Ritter) Risk
Society-Towards a new modernity, Sage
Pubblication, London.
Bettin G. (2002), Danese M., Petrolkiller,
Feltrinelli, Milano.
Campo G. (2004), Anabasi di Sicilia dalla
foce alle sorgenti di fiumi ormai senz’acqua,
Prova d’Autore, Catania.
Cinà G. (1995), La pianificazione
paesistica: aspetti operativi, concertativi,
gestionali, in “Urbanistica”, n. 104,
Inu, Roma.
De Marchi B. (2001), Il rischio
Ambientale, Il Mulino, Bologna.
Di Luzio G. (2003), I fantasmi dell’Enichem,
Baldini Castoldi Dalai Editore, Milano.
Franco G., Centineo G. (1989), Relazione
di perizia tecnica riguardante il
procedimento penale n. 2368/86 RG a carico
di Balestrieri Giuseppe e Altri, Atto
giudiziario della procura della Repubblica
di Siracusa.
Galimberti U. (1999), Psiche e teche.
L’uomo nell’età della tecnica,
Feltrinelli, Milano.
Inca, Cgil (2000), Schede delle malattie
professionali, Cgil Siracusa.
Legambiente (2002), Dalla chimica dei
veleni al risanamento ambientale,
Siracusa.
Lombardi M. (1997), Rischio industriale e
comunicazione, FrancoAngeli, Milano.
Magnaghi A. (1995), Progettare e
pianificare il territorio: un contributo
alla questione ambientale, in
“Urbanistica”, n. 104, Inu, Roma.
Mededdu A., Contrino L., Tisano F., Sciacca
S. (2001), Atlante della mortalità per
tumori e per le patologie cronico
degenerative in provincia di Siracusa dal
1995 al 1999, Provincia Regionale di
Siracusa, Pachino.
Menoni S. (1999), Pianificazione e
incertezza, FrancoAngeli, Milano.
Micarelli R., Pizziolo G. (2003), L’arte
delle relazioni, Alinea Editrice,
Firenze.
Micarelli R., Pizziolo G. (2003), Dal
Caos al Cosmos. L’ecologia del progettare,
Alinea Editrice, Firenze.
Palazzo A. L. (2003), Paesaggi e
modificazione. Riflessioni sulla fertile
ambiguità della storia, in
“Urbanistica”, n. 120, Inu, Roma.
Regione Veneto (1998), Piano per
l’informazione della popolazione sul rischio
industriale, Arpav, Venezia.
Schwartz H., Jacobs J. (1979),
Qualitative Sociology. A Method to the
Madness, The Free Press, New York.
Solarino L. (2003), L’Uomo negli Iblei:
lo Sviluppo Industriale, Documento del
convegno “L’Uomo negli Iblei”, Siracusa,
10-11 ottobre.
Venturi Ferriolo M. (2002), Etiche del
Paesaggio, Editori Riuniti, Roma.
Vismara R. (1988), Ecologia applicata,
Hoepli, Milano.
Zavaratti A. (1984), Tecniche di
protezione ambientale, Pitagora
Editrice, Bologna. |