Prima di affrontare il problema specifico
dell’ipotesi di termovalorizzatore presso il
sito di Ischia Podetti, in territorio di
Trento, crediamo sia utile mettere a fuoco
come il problema della termovalorizzazione
dei rifiuti, nel nostro paese, sia posto
dalla classe politica, in particolare dal
ministro dell’ambiente, Altero Matteoli.
Matteoli ha impostato la politica dello
smaltimento dei rifiuti sui
termovalorizzatori, avendo ovviamente
presente che, a monte dell’impianto di
termovalorizzazione, debba esservi la
raccolta differenziata, il recupero e il
riciclo.
Con la termovalorizzazione Matteoli vorrebbe
mandare definitivamente in pensione la
discarica e fino a qui si potrebbe anche
concordare ma, nelle sue contraddizioni,
questa presa di posizione del Ministro, se
sondata nello specifico, come cercheremo di
fare, può essere una buona premessa alla
problematica specifica che affronteremo in
questo articolo (Senato della Repubblica,
2004).
Nel 2003 l’Italia presentava una produzione
di 28,5 milioni di t/anno di rifiuti solidi
urbani, pari a 500 kg/anno/pro capite, di
cui il 74,4% finiva in discarica, l’8,1% al
compostaggio, il 7,2% all’incenerimento, il
10,3 aveva altre, non ben precisate
destinazioni.
Per affrontare il problema, considerato che
l’incenerimento/termovalorizzazione è al 75%
in Giappone, al 65% in Danimarca, al 55% in
Svezia, al 40% in Francia e Germania, è
stato promosso, nell’ambito del Ministero
dell’ambiente, uno studio su “La
sostenibilità ambientale della
termovalorizzazione dei rifiuti solidi
urbani”, in due fasi, ottobre 2001-ottobre
2002 e aprile 2003-aprile 2005, in
collaborazione con il Dipartimento di fisica
tecnica dell’Università di Roma “La
Sapienza”, il Dipartimento di ingegneria
industriale dell’Università di Perugia e
l’Istituto nazionale dei tumori di Aviano.
Emerge subito come la sinergia ricercata dal
ministero avvenga a livello di
ingegneria/tecnologia e rischio sanitario,
mentre completamente tralasciati sono i
parametri del rischio ambientale, della
pianificazione territoriale che interessa
l’area vasta e della valutazione degli
impatti cumulativi, che si impone in maniera
decisa, considerati i livelli di
urbanizzazione (Bettini V., Canter L.,
Ortolano L., 2000; Bettini V., 2002; Bettini
V., 2004).
Nella prima fase dello studio è stato
definito lo stato dell’arte della tecnologia
di termovalorizzazione dal punto di vista
energetico, la compatibilità ambientale e il
rischio sanitario.
Quali siano i parametri, gli indici, gli
indicatori della compatibilità ambientale
non è assolutamente chiaro, mentre i
parametri vincenti sono stati quelli
ingegneristici: le principali tecnologie di
combustione, il processo tecnologico, i
rendimenti, gli impatti sull’ambiente con
specifico riferimento alle emissioni e al
loro controllo.
Silenzio su quali dovrebbero essere le
caratteristiche del sito e dell’area vasta
nella quale è inserito il progetto.
La seconda fase della ricerca
proponeva/predisponeva linee guida per la
realizzazione di impianti di
termovalorizzazione di rifiuti solidi urbani
ecologicamente compatibili. Naturalmente i
parametri di questa
compatibilità/sostenibilità sono ben lontani
dall’essere definiti sulla base di precise
specifiche ambientali in un contesto di
ecologia applicata al territorio, perché
questo è il vero problema.
Se dal punto di vista energetico molto si
insiste sui criteri di miglioramento dei
rendimenti, completamente a latere viene
lasciato il solo strumento in grado di
fornirci indicazioni in merito, ovvero lo
strumento del bilancio di massa.
Dal punto di vista ambientale, puntando
unicamente sui sistemi di abbattimento, sui
modelli di diffusione e sul monitoraggio si
trascura la definizione di indici e
indicatori, unici veri strumenti attendibili
di controllo e comunicazione.
Il ministro e il ministero molto insistono
sui tre punti a favore del processo di
termovalorizzazione: recupero energetico,
emissione di anidride carbonica equivalente
a quella di una discarica, gestione
integrata che tenga conto anche della
convenienza economica.
Il bilancio energetico non viene impostato
sulla base della valutazione di quanta
energia sia stata spesa per ottenere i
prodotti che vanno alla combustione, in una
precisa dimensione di verifica dei livelli
di entropia, come pure la valutazione delle
emissioni di CO2 resta limitata ad un ambito
effettivamente ristretto a due modelli la
cui comparabilità non è data, mentre la
dimensione degli impatti cumulativi, che è
uno dei problemi chiave, non viene
affrontata.
Sembra che le indicazioni delle scuole più
significative su procedura e metodologia
nella valutazione degli impatti ambientali,
per quanto proveniente dall’Università della
California, da Stanford e dalla Oklahoma
University-Norman, siano cadute nel nulla (Westman
W. E., 1985; Canter L. W., 1996; Ortolano L.,
1997).
Nella seconda fase della ricerca, tra il
2003 e il 2004, sono stati approfonditi gli
aspetti tecnici ed energetici delle
tecnologie più recenti e innovative,
analizzando le procedure di valutazione
di impatto ambientale (Via) su casi
significativi di analisi critica di
risultati attendibili mediante diverse
metodologie (quali e con quale metodo scelti
non è dato sapere).
L’aspetto sanitario viene sempre relegato
alla ricaduta degli inquinanti prodotti.
Viene costituito un comitato scientifico
come osservatorio nazionale della
termovalorizzazione e lo studio conclude, in
data 17.4.2004, in questi termini: “Si
dimostra un rischio pressoché nullo o
trascurabile se riferito rispettivamente a
emissioni non cancerogene o cancerogene
attribuite a impianti di termovalorizzazione”.
Qualche ammissione di pericolo in verità
c’è, ma mancano completamente gli
approfondimenti: gli studi hanno interessato
quasi esclusivamente inquinanti classici
dell’aria e le diossine, mentre specifiche
associazioni tra metalli pesanti e
inquinanti in genere emessi dagli impianti
di incenerimento, non essendo supportate da
solide evidenze epidemiologiche,
meriterebbero ulteriori approfondimenti.
Solo gli impianti di vecchia generazione
rappresenterebbero un pericolo. Dai nuovi
impianti il ministero e i suoi
tecnici/scienziati embedded si
attendono una concentrazione di diossine non
superiori al 50% del valore limite (Decreto
ministeriale 503 del 19.11.1997) ed una
concentrazione di Pb, Cd, Hg inferiore di
almeno 5 volte.
Il rischio sarebbe azzerato per le emissioni
non cancerogene, quelle cancerogene
comparabili al rischio della quotidianità.
Il ministro e il ministero pensano anche ai
comitati, come potrebbe essere quello del
Nimby trentino di Trento, cui faremo
riferimento, classificandoli in comitati in
buona fede, nei confronti dei quali la
politica deve fare opera di convinzione,
ponendo a disposizione monitoraggi e
verifiche tecnico-scientifiche e comitati
strumentalizzati, dati per persi, nei
confronti dei quali la politica non deve
perdere un solo minuto in opera di
convinzione. Il Nimby trentino sarebbe un
comitato perso.
I parametri dimenticati
Fra i parametri dimenticati dai ricercatori
che hanno lavorato per il Ministro Matteoli
vi è quello di una reale sostenibilità
urbana e territoriale degli insediamenti
umani con riduzione dell’uso, da parte delle
città, di risorse naturali e il contenimento
della produzione di rifiuti in modo che
l’oggetto città, in un contesto di area
vasta, possa meglio inserirsi nella capacità
di carico locale, regionale e globale degli
ecosistemi.
Il valore di tale obiettivo non è stato
percepito, essendo stato emarginato il
concetto di metabolismo urbano e il suo
conseguente schema di input/output:
- input: materia, energia, capitale e
informazione;
- output: informazione-conoscenza,
merci-prodotti, calore, rifiuti.
Solo sulla base dell’approfondimento di
questi parametri in specifici contesti
territoriali potremmo raggiungere alcuni
obbiettivi di sostenibilità globale,
attraverso limiti imposti dalla capacità di
carico regionale e di area vasta, come
indicato da alcuni ottimi allievi della
scuola Iuav, ora professori all’Università
di Seattle o funzionari del Parlamento
europeo (Alberti M., Tsetsi V., Solera G.,
1994). Marina Alberti, professore di
urbanistica all’Università di Seattle, ha
ulteriormente contribuito allo sviluppo di
questi concetti (Bettini V., 1996).
La mancata definizione dell’analogia tra
rete trofica e sequenza produttiva antropica
è un’altra delle carenze di questo approccio
(Bettini V., 2004; Bettini V., Costa A.,
Marotta L., 2005).
In un ecosistema il ciclo biologico dei
materiali è garantito dai tre gruppi
funzionale di forme viventi che
costituiscono la biocenosi: i produttori
primari, i consumatori e i degradatori.
Possiamo, per analogia, applicare questa
suddivisione ai sistemi produttivi
antropici, con la seguente ripartizione di
ruoli:
- l’attività di produzione, intesa come beni
e servizi, è svolta dalle aziende che si
occupano di produzione e distribuzione
dell’energia, dal comparto manifatturiero e
dal comparto alimentare;
- l’attività di consumo è svolta dalla
popolazione umana e, in misura più
trascurabile, da altri organismi che con
essa instaurano relazioni mutualistiche,
basti pensare alla simbiosi della flora
batterica o al commensalismo di alcuni dei
nostri animali domestici;
- l’attività di degradazione è esplicata dal
complesso di processi di smaltimento e
degradazione dei rifiuti, liquidi, solidi,
gassosi.
Due considerazioni di rilievo in questa
comparazione tra reti trofiche e
produttività antropica.
La prima riguarda la localizzazione spaziale
dei gruppi funzionali e delle risorse:
mentre in un sistema naturale vige una certa
contiguità fisica tra produttori,
consumatori e degradatori, il che assicura
che solo una piccola frazione di energia sia
impiegata nel trasporto fisico dei nutrienti
tra i diversi gruppi funzionali, favorendo
il riciclo dei materiali degradati, nei
sistemi antropizzati esiste una maggiore
separazione fisica tra gruppi funzionali e
le rilocalizzazioni si basano su fattori di
opportunità economica, non di convenienza
ecologica, con esigenza di risorse e costi
energetici elevati.
La seconda è relativa al fatto che i sistemi
antropici, rispetto ai sistemi naturali,
dimostrano un’efficienza bassissima nel
tasso di riciclo dei materiali. La rimozione
fisica, tipica del sistema dei rifiuti
prodotti da attività umane, non è
riscontrabile nei sistemi governati da
dinamiche naturali. In natura, il detrito
organico di un ecosistema che non sia
interamente ciclizzato in situ, viene
trasportato da flussi vettori orizzontali,
dall’acqua, dall’aria, da vettori animali,
in direzione di altri ecosistemi, che
vengono così alimentati, con il rimando
della chiusura dei cicli ad una più grande
scala spaziale.
L’inefficienza che rileviamo nei sistemi
antropizzati è dovuta al fatto che i
meccanismi retroattivi, i quali controllano
la chiusura dei cicli materiali, non sono
efficaci nel contesto economico attuale,
dove la disponibilità di energia da
combustibili fossili rende, nel tempo
medio-breve, più vantaggioso il ricorso a
nuova materia prima che non il completo
riutilizzo dei materiali al termine del loro
ciclo di vita.
Un parallelismo che comunque si presenta
distorto (Husar R. B., 1994). Evidenti le
distonie nell’analisi del funzionamento del
meccanismo naturale comparato con quello
artificiale, in grado di spiegare parte
dell’inefficienza nel ciclo dei materiali
che si riscontra nei sistemi antropizzati.
In un ecosistema una grande porzione del
materiale organico prodotto viene
direttamente trasferito dai produttori
primari (piante) agli organismi degradatori
(funghi e batteri). II principio della
termodinamica impone che solo una piccola
frazione della produzione primaria venga
assimilata dai consumatori e trasferita
lungo la struttura trofica. Gli organismi
degradatori, in ogni caso, restituiscono di
nuovo la materia minerale ai produttori
primari, che la riutilizzano.
Nei sistemi antropizzati non esiste il
flusso di materia che vada dai produttori
direttamente ai degradatori, cioè una
produzione materiale direttamente riciclata,
senza che almeno un consumatore si inserisca
nella sequenza. Quindi, gran parte del
materiale mobilizzato viene trasferito al di
fuori del sistema sia da parte dei
produttori, come scarti e inquinamento, che
dei consumatori, quale rifiuto.
Questo il nodo da sciogliere non affrontato
dai ricercatori embedded.
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Il caso studio: il termovalorizzatore di
Trento a Ischia Podetti
Sulla base di queste premesse e nella
convinzione che la ricerca per la soluzione
del problema rifiuti non vada indirizzata
solo verso la tecnologia di smaltimento o
verso la definizione di un sito accettabile
da tutti, nasce, il 21 marzo 2004,
l’associazione Nimby trentino, perché la
sostenibilità non sia un vuoto slogan, sulla
base di una piattaforma per una reale ed
efficace gestione del rifiuto, che esclude
la presenza di inceneritori nell’area vasta
in cui si colloca la Provincia di Trento,
sulla base della strategia rifiuti zero, in
accordo con alcune università.
Obiettivo di Nimby trentino è quello
dell’informazione della popolazione
attraverso Convegni e il pubblico confronto,
ma anche notevolmente distanziata dall’opera
di convinzione strategica dei promotori
della termovalorizzazione.
Peraltro, la forma non ha mai mascherato a
lungo la sostanza, anche quando si fa
ricorso a stereotipi del genere “un grande
piano industriale e ambientale basato
sull’attenzione al territorio e la cura dei
particolari, che ben esprimono la cura
aziendale della preservazione dei luoghi,
del rispetto delle comunità,
dell’affidabilità tecnologica”. Una buona
architettura non maschera mai una pessima
tecnologia, che non tiene conto di molti
parametri negativi, che dovrebbero essere
valutati.
Vediamo quelli che dovrebbero essere
considerati per il sito di Ischia Podetti:
1. l’incompatibilità tra agricoltura di
qualità e impianti di incenerimento rifiuti,
un problema fondamentale per l’area vasta
del Trentino che comprende aree a vigneto e
frutteti (Tamino G., 2004);
2. la valutazione dei residui dopo
l’incenerimento, mai effettuata per quanto
riguarda il risvolto tossico-nocivo dei
residui dopo il trattamento termico.
L’inceneritore di Ischia Podetti lascerebbe
sul terreno, ogni anno, se stiamo ai dati
della Provincia autonoma di Trento, 37.000
t/anno di scorie che vanno a discarica,
10.472 t di polveri vetrificate e 1428 t di
polveri vetrificate, per un totale di 46.600
t di rifiuto tossico nocivo da smaltire non
si sa bene dove.
Considerati questi dati, perché non puntare
allo raccolta differenziata e al riciclo
oltre il 70%, come alcuni comuni in
Provincia di Trento (S. Michele e Aldeno) e
di Treviso (Montebelluna) hanno dimostrato
possibile fare? Perché il termovalirizzatore/inceneritore,
in questo quadro, non avrebbe più senso;
3. il sito di Ischia Podetti, individuato
per la costruzione del termovalorizzatore,
ora discarica desolata di ecoballe, è
inserito tra due siti di importanza
comunitaria (Sic), le foci del fiume
Avisio e gli stagni della Vela e Soprassasso
(Sic n. IT3120053 - Foci dell’Avisio -
Comprensorio C5 - Valle dell’Adige Lavis,
Terlano, Trento; Sic n. 3120051 - “Stagni
della Vela-Soprassasso” - Trento). Qualsiasi
progetto che interessi aree Sic dovrebbe
essere sottoposto a valutazione di
incidenza, in base alla Direttiva
dell’Unione europea (Ue) sull’Habitat del
2000, il che non è stato fatto e ora pende,
presso l’Ue, un esposto-denuncia dei
cittadini di Trento. La Ue dovrebbe avviare
una procedura ad hoc nei confronti
della Provincia di Trento. Se la provincia
si negasse verrebbe immediatamente aperta
una procedura di infrazione davanti al
Tribunale di Strasburgo. La procedura non si
dovrebbe concludere prima della fine del
2006. A Trento si ha ancora tempo per
riflettere e cambiare rotta, considerando
anche gli specifici aspetti geologici e
idrogeologici dell’area, del tutto
sottovalutati;
4 il progetto manca di un piano di gestione,
il che evidenza i livelli di superficialità
e la scarsa attenzione riservata ai temi
ambientali dell’area vasta interessata
dall’inceneritore/termovalorizzatore;
5. il progetto è parte di uno sviluppo
infrastrutturale insostenibile per la valle
dell’Agige: il prolungamento in Trentino
dell’autostrada Valdastico, con l’ipotesi di
tracciato verso il Garda, il potenziamento
della statale del Brennero, compresa la
circonvallazione di Rovereto, il
completamento a 4 corsie della strada della
Val Sugana, compresa la galleria tra i laghi
di Cadonazzo e Levico, il potenziamento
dell’interporto, il raddoppio della ferrovia
del Brennero, il potenziamento della
ferrovia della Valsugana. Tutte queste
opere, inserite nel contesto dell’area
vasta, inceneritore compreso, dovrebbero
essere oggetto di una valutazione degli
impatti cumulativi, che sfocia nella
valutazione ambientale strategica.
6. gli estensori della Via, Marco Tubino e
Marco Ragazzi, del Dipartimento di
Ingegneria civile e ambientale
dell’Università di Trento, si sono impegnati
sul problema degli inquinanti atmosferici,
come testimonia anche la bibliografia del
loro lavoro. Si sono però fermati ai modelli
sulle emissioni e non hanno affrontato gli
impatti cumulativi, considerando anche altre
fonti che interessano l’area. Un lavoro che
resta ancora tutto da fare, sulla base di
scenari attendibili. Lo testimonia anche il
prof. Valerio Gennaro, epidemiologo presso
l’Istituto dei tumori di Genova (Clementi F.,
2005).
Si tratta di sei punti fondamentali, che
rimettono in discussione i legami tra
valutazione ambientale, rischio e
pianificazione, che, se sviluppati,
porterebbe ad un livello di conoscenza meno
retorico l’insieme della problematica.
“Il diavolo brucia, Dio ricicla”. Così ha
sintetizzato, in maniera ironica e
irriverente, la propria posizione il prof.
Paul Connett, professore di chimica presso
l’Università Saint Lawrence, nello Stato di
New York. Amico e collaboratore di Barry
Commoner, sostenitore della visione zero
waste, nel corso di un incontro svoltosi
a Trento nel gennaio di quest’anno. E ha
detto, a chiare lettere: “Quella
dell’inceneritore è una soluzione pigra e
preistorica: noi invece vogliamo politici
che abbiano una visione”. Esistono soluzioni
alternative, per nulla affatto utopiche,
come quelle adottate dalla città di San
Francisco, con i suoi 850.000 abitanti,
soluzioni che non debbono essere
necessariamente la copia dell’impianto di
Issy (Parigi), che presenta la soluzione del
trattamento orizzontale dei fumi e basta.
Anche qui domina il segno architettonico: i
progettisti Debosc e Landowski hanno
immaginato una foresta verticale grazie al
gioco del ritmo strutturale dei pilastri,
delle travi in legno lamellare, delle travi
d’acciaio, dei rivestimenti lignei, del
verde pensile e rampicante. Una sorta di
astronave verde. Il disegno non risolve
comunque gli impatti ambientali, anche se
l’impianto, che serve 22 comuni dell’alta
Senna e 3 arrondissements dell’ovest
di Parigi, ha notevolmente ridotto l’impatto
sonoro, riceve rifiuti per via ferroviaria e
fluviale, recupera energia.
Issy presenta problemi che abbiamo
direttamente verificato sul campo, nel marzo
2005.
Il Presidente della Provincia di Trento,
Dellai, si dice sempre disposto a discutere
del termovalorizzatore, a patto che
l’impianto non venga messo in discussione e
vara un gruppo di lavoro istituzionale
paritetico per la ricalibratura del progetto
di termoutilizzazione sulla base di suoi
specifici indirizzi. Si veda l’intervista
“Tutto quello che avreste voluto sapere e
non avete osato chiedere”, naturalmente in
tema di termovalorizzatore, dello stesso
Presidente della Provincia su “Il Trentino”,
Rivista della Provincia Autonoma di Trento,
n. 276, febbraio 2005, pag. 26-29.
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