Da una lezione tenuta nel 1989 da Paolo
Borsellino presso una scuola superiore di
Bassano del Grappa, si riscopre che le
origini della cosiddetta questione
meridionale assumono il carattere di
ribellione generalizzata del sud rispetto
alla serie di ingiustizie sociali indotte,
dopo l’unificazione nazionale, da leggi
imposte da un ente altro e lontano.
Leggi perciò non consentite,
promanate da uno Stato considerato
usurpatore delle principali fonti
economiche, e perciò rifiutato.
Origini dunque persino nobili, delle
proto-mafie, nate per azioni di
resistenza civile, viste e combattute da
carabinieri piemontesi come atti d’efferato
terrorismo (banditismo).
Non è certo altrettanto nobile il risvolto
odierno delle culture mafiose, considerati
gli sviluppi inevitabili di organizzazioni
clandestine armate, dalle cui violenze per
la conquista dei mercati deriverebbero, a
detta del procuratore Vigna, profitti per
100 miliardi di euro l’anno: le mafie
costituiscono cioè un vero e proprio Stato
concorrente che potrebbe assicurare un
reddito medio ad un esercito costituito da 7
milioni di propri impiegati.
Può leggersi in questa chiave di ribellione
anche la più recente (ma non insolita o
isolata) rivolta di popolazioni dei
quartieri a rischio del napoletano nei
confronti dei rappresentanti di un ente che,
sempre più altro e lontano, da tempo
rinunzia a regolare i fenomeni economici,
legittima anzi i falsi in bilancio,
delegittima il risparmio, e delega la
gestione di complesse questioni sociali alle
miracolose cure di mercato, alla base
delle quali sta un’economia drogata che gira
sui consumi di ciò che il paese non produce
più da tempo ... Si disvela così,
nell’Italia dei misteri, anche il fenomeno
dell’abusivismo edilizio, che esprime, in
una sorta di dichiarazione dei redditi a
cielo aperto, gli incredibili risparmi
di troppi cittadini del sud: se il paese non
produce da tempo, e il sud meno che meno, a
quali fonti attribuire il risparmio che qui
viene ostentato sui paesaggi di città
costiere e colline, più che nei conti
correnti bancari?1
Una mafia così ricca e infiltrata, spiegava
ancora Paolo Borsellino, non può certo
essere sconfitta se combattuta solo da
taluni rappresentati delle forze dell’ordine
e della magistratura. Tale condizione genera
anzi pericolosa sovraesposizione di chi è
impegnato a fornire improbabili soluzioni
giudiziarie e di polizia a questioni
prevalentemente socio-politiche, peraltro
con scarsi mezzi.
Basta scorrere la lista degli omicidi
eccellenti, sia pure ricca e articolata, per
cogliere la solitudine di quelli che hanno
cercato davvero di contrastare gli affari
illeciti di mafia. Tutto il paese (non il
solo meridione), ai funerali di Chinnici,
Cassarà, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e
don Puglisi, ha visto così lo Stato altro
e lontano dai bisogni di giustizia sociale e
sicurezza. Tutto il paese ne ha sospettato
anzi la contiguità con mercati ed economie
inconfessabili, traendone motivi di dissenso
e, almeno per qualche tempo, di ribellione e
rifiuto.
Si è appalesato a tutti anche quello che
avevano visto e denunciato gli urbanisti,
che i piani costituissero piuttosto puntuali
catastali rappresentativi degli interessi
fondiari dei poteri forti a tutti i livelli.
E che condoni e sanatorie, che estendono
apparentemente anche ai più deboli la
garanzia di vantaggi urbanistici, in realtà
servissero a escludere le complici
responsabilità amministrative e politiche di
chi avrebbe dovuto tutelare il paesaggio a
ogni livello: dal capo dello Stato
all’ultimo nato dei cittadini.
Così l’urbanizzazione diffusa, nuova pietosa
definizione anche di un risparmio di
provenienza non sempre fiscalmente
confessabile, continua a consumare il
paesaggio: suolo, aria, acqua, energia, ma
anche storia naturale e storie dell’uomo.
Del resto, da logiche di stato-mercato, da
competizioni al ribasso dei valori, e dai
consumi di cose prodotte altrove, come dai
consumi di storie e paesaggi nostri,
derivano sia i modelli aberranti di
comportamento visti a Scampìa, sia i bisogni
artificiali enfatizzati che accrescono
povertà, scorie e rifiuti ... Come ultimo
anello della catena, infatti, il consumo di
beni locali (suolo, aria, acqua) e servizi
(energia) rappresenta l’attività che
mantiene in loco solo gli scarti di
ciò che produzione, scambio e trasporto
hanno trasformato in tutto il mondo. E la
città è la sede privilegiata del consumo e
dello smaltimento dei rifiuti.
Ma la gestione di quest’ultimo aspetto non è
certo un settore economico confacente alle
prerogative imprenditoriali degli
appartenenti alle classi alte della società2,
alla stessa stregua di altri settori che,
comunque imprescindibili per la vitalità
urbana (macellazione delle carni,
tumulazione dei defunti, movimento terre,
betonaggio, pulizia e manutenzione stradale,
mercati generali, posteggi, ecc.),
prospettano fatiche in ogni caso poco
prestigiose.
Verrebbe da concludere che la città, oggetto
di cui da sempre ci occupiamo
disciplinarmente da punti di vista troppo
spesso settoriali, sia dunque il luogo
privilegiato del nascere e prosperare di
pratiche comunque mafiose, a prescindere dal
sito geografico (sud o nord) nella quale
essa si collochi. Peraltro, quando il potere
economico costruito su estorsioni e traffici
illeciti di armi e droga, ha bisogno di
riciclare le sue liquidità, ci aggiorna il
procuratore Vigna, scatta il meccanismo
mimetico della conquista del monopolio degli
appalti pubblici, delle catene di
supermercati e ipermercati, come delle
banche, dove il denaro non ha mai avuto
odore (a maggior ragione su transazioni
informatiche nazionali e internazionali).
Città e territori sono dunque generalmente
disegnati da mercati buoni e mercati cattivi
del tutto simili: entrambi posseggono
strumenti mediatici più o meno sbrigativi di
persuasione e nemmeno tanto occulta. A quali
di essi fa riferimento dunque l’azione
regolatrice della politica e dello Stato? A
quali di essi deve fare riferimento il
cittadino travolto dai rifiuti che producono
i super mercati e le imprese degli uni e
degli altri? Come distinguere il mercato
buono da quello mafioso, se la scena
distingue solo tra attori principali (tutti
buoni e belli) e attori secondari (tutti
cattivi e brutti), e se la città,
fisicamente fatta di ville per i buoni e di
quartieri popolari o bidon villes per
i cattivi (locali ed extracomunitari),
costituisce già metafora della nostra
civitas e della nostra democrazia?
Come capire dunque chi è amico o nemico, in
un paese la cui civitas e i cui
architetti hanno fatto per ogni dove gli
Scampìa, gli Zen e i Librino3?
Certo prevale una confusione culturale
generalizzata che, spiegabile nei quartieri
poveri, coinvolge tuttavia anche gli strati
della cosiddetta società civile, la
stessa che piange sulle piazze Chinnici,
Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e Don
Puglisi.
In simile contesto, quale consapevolezza
democratica può generare i civili conflitti
d’interesse diffuso alla tutela
costituzionale del paesaggio, della salute,
della sicurezza? Quale discriminante
consente di vagliare, fra le tante proposte,
le trasformazioni territoriali da accettare
per i vantaggi collettivi che ne derivano, o
da rifiutare per i costi sociali
insostenibili (ancorché filtrate a tavoli di
concertazione democratica)?
Il paesaggio proposto dalla cartolina col
ponte sullo Stretto di Messina, ad esempio,
è territorio da accettare o da rifiutare? Ci
rassicurano le promesse azioni di contrasto
preventivo all’infiltrazione mafiosa, se
all’inaugurazione degli anni giudiziari
ricorre la fatidica frase dei procuratori
della repubblica secondo cui non c’è opera
pubblica che sia mai stata preclusa alla
mafia? Ci rassicura la scoperta di interessi
mafiosi internazionali, o si tratta solo di
eliminazione di concorrenti indesiderati
alle aste? O ci rassicura il battage
mediatico sul ponte come sogno antico e
sviluppo futuro? Possiamo davvero credere
ancora che se Calabria e Sicilia non hanno
potuto godere dei privilegi di altre regioni
italiane ed europee, è stato solo perché
mancava il ponte?
Come la trasformazione proposta dal ponte,
di un paesaggio costituzionalmente tutelato,
tante altre costituiscono quotidiane
tentazioni propinate a cittadini raramente
in condizione di discernere fra i benefici e
i costi irreversibili ai danni di suoli,
aria e acque.
È immediata l’eventuale reazione a ipotesi
localizzative di impianti per lo smaltimento
dei rifiuti: nessuno vuole la spazzatura
davanti alla propria porta, salvo al fatto
che nessuno trovi comunque da obiettare
quanto alla città diffusa, e di
conseguenza ai suoi spazi progressivamente
preclusi a possibili installazioni di
impianti di qualunque genere. Salvo ancora
al fatto che nessuno trovi da obiettare
rispetto ai consumi che fanno girare
l’economia e al mantenimento di livelli del
prodotto interno lordo che presuppongono la
distruzione delle risorse, a partire da
quelle che assicurano il diritto alla
salute, alla sicurezza e alle identità
paesaggistiche. Del resto sono esaltate
sempre le promesse di sviluppo e di posti di
lavoro e tacciati di disfattismo contrario
al progresso (quindi all’occupazione) tutti
quelli che sottolineino le trascurate o
false valutazioni di inquinamenti,
distruzioni e danni sociali.
Ma ammesso che per ciascuna delle proposte
trasformazioni territoriali risultassero
chiari gli interessi dello Stato e quelli
delle mafie, in ogni caso non è dato capire
chi agisca in nome degli interessi diffusi
alla tutela dei cittadini.
Sono lo Stato o le regioni che s’intestano
molte trasformazioni territoriali, ne
finanziano i progetti e le realizzazioni, ne
esaltano i caratteri dello sviluppo, ma
troppo spesso ne hanno nascosto i risvolti
negativi in termini di costi sociali: così è
successo in Sicilia, sulle cui tre coste
sono sorti impianti di raffinazione
petrolchimica che avrebbero dovuto portare
sviluppo e occupazione, piuttosto che
malformazioni neonatali, rifiuti tossici
interrati, acquiferi e mari inquinati, aria
irrespirabile e percentuali di tumori e
leucemie fuori norma. Dunque se Stato e
regioni impongono un simile prezzo in cambio
di posti di lavoro; se istituzioni
sanitarie, sindacati ed enti locali sono
costretti da almeno trenta anni a nascondere
la verità sui danni ambientali per evitare
la chiusura degli impianti; a che è servito
che Giorgio Ruffolo, Valdo Spini ed Edo
Ronchi, ministri competenti dei governi che
si sono succeduti nel tempo, abbiano solo
dichiarato la prognosi (zone ad alto
rischio) senza tuttavia esprimere alcuna
terapia?
È solo di questi giorni l’esposto-denuncia
di un comitato dei cittadini dei comuni
dell’area Augusta-Priolo-Melilli alle
procure di Siracusa e Catania che rileva il
monitoraggio dell’Organizzazione mondiale
della sanità in ordine alla riconosciuta
crescita di malformazioni e tumori, per
chiedere provvedimenti consequenziali. Ma a
Gela, lo stesso ministro che si preoccupa
dei danni prodotti dal fumo di una sigaretta
(considerando forse che lo sterminio dei
pellerossa sia avvenuto per danni prodotti
dal desiderio di pace di quelle popolazioni,
espresso attraverso un calumet), ha
dichiarato per decreto la respirabilità
dell’aria, elevando la soglia accettabile
degli inquinanti. Analogamente, a Priolo,
dove l’acqua dei pozzi è piena di
idrocarburi, il governo ha
provvidenzialmente alzato la soglia
degli inquinanti potabili!
Ma, come detto, si tratta di cose ben note
da tempo a Usl, Asl, famiglie di vittime e
ambientalisti. Si tratta di cose denunciate
già da tanti anni e tuttavia soffocate dai
ricatti occupazionali a tutti i livelli. E
forse (a sospettare si fa peccato, ma
s’indovina sempre) vengono fuori solo ora
che l’Eni ha comunque deciso di dismettere
le sue attività: siamo pronti a scommettere
che già l’altro stato è pronto ad
avanzare le sue antiche competenze in fatto
di recupero di siti contaminati … che il
solito megafono mediatico esalterà
trionfalisticamente: “Sorgerà, al posto dei
velenosi impianti, il più grande iper
store dell’isola”, foriero di posti di
lavoro non inquinanti e di immancabile
sviluppo, dove trovare tutto quello che
serve e non serve, nona meraviglia del mondo
(dopo il ponte), destinato così non solo ai
consumatori siciliani, ma anche ai calabresi
… e persino a tutta l’area mediterranea …
nella prospettiva della zona franca4.
Come rifiutare l’ennesimo territorio di
sviluppo, a prescindere dalle referenze
che il procuratore Vigna fa dei proponenti,
e dai ragionamenti attorno al consumo
globale di risorse e agli scarti più o meno
degradabili gestiti da ecomafie in sede
locale?
Se simili considerazioni risultassero esatte
anche solo al 50%, se persino riguardassero
la sola parte del paese affezionata all’idea
di costituire ancora la questione
meridionale, già dovremmo chiederci, in
sede disciplinare, a quali coordinate
decidere di riferire sia l’aspetto
professionale che quello della trasmissione
del sapere.
Non sono molte infatti le alternative
concrete sotto la pressione esaltante della
competizione globale anche dei mercati
scientifici, né paiono conducenti i
risultati delle tradizionali vie di fuga
verso mai concluse analisi ex post di
stati di fatto; come di quelle drizzate
verso accademiche provocazioni di utopia
urba-tettonica da una parte, o verso i
caratteri filosofico-sociologici delle
storie di città e territori dall’altra. In
ogni caso, almeno per senso autocritico,
dovrebbero valere gli esiti negativi della
presunzione di incidere sulle strutture
sociali con strumenti disciplinari in ogni
caso inadeguati a distinguere le qualità
civili (o incivili) delle trasformazioni
proposte da Stato e mercato.
A occuparci di urbanistica siamo stati in
genere architetti e ingegneri, con metodi e
criteri propri comunque della progettazione
architettonica5 (e quindi con
riferimenti formali, modelli e
semplificazioni staticizzanti una realtà che
per sua natura è estremamente dinamica, come
il mercato che ne condiziona le
trasformazioni), fidando che specifiche
soluzioni di singoli problemi potessero
avere effetti risolutivi della complessità6.
È stata data per scontata l’idea di un
mercato regolatore assoluto (e presunto
puro) di equilibri tra una domanda
(effetto di bisogni) ed un’offerta (effetto
di ricchezza). Ma nel ricavo privato ci
sono, sempre e comunque, plusvalori
ascrivibili al ruolo esercitato dall’ente
pubblico mediante la fornitura di servizi e
infrastrutture7.
E proprio le tecniche disciplinari di civile
fornitura di servizi indispensabili alla
vitalità urbana (i famigerati standards
urbanistici) appalesano il sistema di
plusvalori esitati al mercato attraverso
piani per un verso edificatori e peraltro
inibitori dell’edificabilità, producendo
sperequazioni tra proprietari di aree che,
nella culla del diritto privato, sono
divenute le principali basi di affossamento
giuridico di ogni sistema regolatore di
vantaggi collettivi. Così l’attività
principale del piano, quella
dell’accostamento qualificato di parti
urbane nuove a parti antiche, è passata del
tutto in second’ordine8.
Si può dire anzi che l’urbanistica italiana,
figlia legittima d’uno Stato che fingeva
d’essere forte ancora alla fine del suo
ciclo (e promulgava la legge 1150/1942),
abbia poi operato fingendosi
emanazione d’uno Stato repubblicano persino
più forte, perché fondato su scelte
democratiche9.
Altra astrazione è stata quella che ha
favorito l’idea di uno sviluppo
interconnesso alla crescita urbana e di
un’edilizia volano dell’economia:
idea che ha trovato subito riscontri
interessati nelle prassi progettuali di
pubbliche 167 e private lottizzazioni,
estendendo tuttavia perniciosi gradi di
settorialità alla pianificazione urbanistica10.
Piani, progetti, competenze e finanziamenti
risultano oggi ancora più separati e
frammentari, persino nella probabilità
statistica di accesso a fondi nazionali ed
europei: i filtri erogativi continuano
infatti ad essere quelli politici, mentre la
legislazione rimane ancorata a piani
urbanistici sempre e comunque dispensatori
di edificabilità dove maggiori siano gli
interessi di mercato economico o elettorale:
su coste, templi, monumenti o centri
antichi.
L’insostenibilità dello sviluppo è
dunque già tutta in questi presupposti, e in
un mondo globale che considera
produttive solo le iniziative foriere di
ritorni economici immediati (ancorché
fondate su consumi di risorse
irriproducibili), risulta davvero
improponibile il già difficile teorema che
dimostra al contrario la maggiore
remuneratività di investimenti e
trasformazioni locali mirati a
perseguire risultati sostenibili nel medio e
lungo termine, senza consumare ulteriori
risorse.
Non avendo affrontato fino in fondo il
problema del rapporto strutturale tra centro
antico e parti nuove della città, però, non
solo l’urbanistica ha fallito nei progetti
di pezzi moderni di città (cui manca
l’afflato vitale di molti centri storici);
ma fallisce anche con il suo soffocare
moderno dei centri antichi, col suo riempire
qualunque vuoto urbano, col suo trasformare
infinito i territori agricoli di contesto,
facendo così proprio il gioco dequalificante11
di mercato.
Un primo aspetto di una civile
riqualificazione riguarda al contrario il
recupero dell’identità sociale dei luoghi,
compromessa dai connotati della città
diffusa sia sotto il profilo paesistico che
ambientale. Un secondo aspetto è certo
quello che, col recupero delle qualità
perdute nelle periferie, implica finalmente
la costruzione di un nuovo rapporto tra
parti antiche e parti nuove della città.
Il terzo aspetto, che esprime i principali
problemi d’intervento nel cosiddetto centro
storico, assume come invarianti le qualità
quivi presenti, e si connette dunque con le
proposte d’interventi riqualificativi già
ricordati: nelle periferie, e nel contesto
periurbano che fa l’immagine della città.
È dunque evidente il complesso percorso
contro corrente che il carattere sistemico
della strategia riqualificativa viene ad
assumere (rispetto alle settoriali prassi
finanziarie e legislative ispirate ai
desideri di mercati buoni e cattivi). Ma è
forse il solo percorso12 che
consenta il perseguimento non formale di una
civile linea di sviluppo sostenibile,
ancorché storicamente figlia di non
rimpianti Stati forti, affatto
liberali e democratici.
Può darsi però che quelli praticati non
siano i concetti più corretti di democrazia
e liberalità. Vale la pena di chiederselo,
prima di esportare modelli che, ovunque
arrivino (Giappone, Russia, Cina o Islam),
producono anzi tutto mafie e distruzioni.
Vale la pena di chiederselo anche in sede
disciplinare, prima di accettare (o
rifiutare) vantaggiosi progetti di pezzetti
di fatti urbani per consumatori idioti
(piuttosto che per i cittadini della
Costituzione repubblicana), noi che, dopo le
esperienze minimali delle 167 (oggi
rifiutate), in definitiva restiamo
contraddittori discendenti dei pianificatori
di Sabaudia o Littoria, ma incapaci a
riqualificare le parti urbane moderne, per
renderle degne di quelle antiche ...
Note
1
Una risposta certa al quesito l’ha data lo
Stato, i cui condoni riassegnano
benignamente valori economici altrimenti
persi (al contrario di quanto avvenuto per
tutelare i risparmi su parmalat,
cirio o argentina), sia pure
nell’illusione di ricavarne improbabili
gettiti da oblazioni: quando ci sono nuovi
balzelli, all’abusivo meridionale conviene
che lo Stato continui ad essere altro
e lontano … Del resto, dov’era lo Stato, cui
la Costituzione impone la tutela del
paesaggio, quando lievitava il cosiddetto
fenomeno dell’abusivismo edilizio? E con
quale diritto, chi non ha visto, sentito e
denunciato, pretende ora il risarcimento dei
delitti commessi ai danni del paesaggio, se
i delitti stessi hanno avuto complice uno
Stato inadempiente? E com’è possibile che i
contributi fiscali per pagare eserciti,
intelligence e guardie civili a tutti i
livelli, abbiano sortito gli effetti del non
vedere, sentire e punire gli attentati al
paesaggio, alla salute o alla sicurezza dei
cittadini?
2
È qui, nei territori economici
ordinariamente poco visitati anche dai
tutori istituzionali della salute e della
sicurezza dei cittadini, che è stata
esercitata una forte influenza mafiosa. Per
estensione del concetto che nei paesi
socialisti vedeva lo Stato occuparsi del
cittadino dalla culla fino alla sua tomba,
si può considerare che nelle economie di
mercato sia la mafia a controllare l’intera
filiera del soggetto urbano.
3
Suscita ipocritamente clamore la ribellione
dei quartieri a rischio contro i
rappresentanti dello Stato, ma i risultati
elettorali indicano poi un meridione da
sempre allineato su posizioni di
conservazione moderato-centrista (a partire
dalle nostalgie monarchico-fasciste),
esprimenti una maggioranza affezionata
all’idea di lasciare le cose come stanno.
Può anche darsi che alla base ci sia la
rassegnata considerazione del principe
Salinas, e che la paura del nuovo faccia
persino prediligere i difetti del vecchio.
Ma certo in questo la mafia ci guazza.
4
Così, in nome del solito sviluppo di morte,
la Sicilia solerte si è già candidata a
ospitare le centrali nucleari auspicate dal
premier, rinunziando al fotovoltaico
che in Germania (dove non c’è il nostro sole
africano) assicura già il 30% del fabbisogno
energetico.
5
Ogni ostacolo all’attuazione di modelli
urbani a valenza di prodotto formale
concluso, è stato di volta in volta
affrontato ponendo attenzione e forze su
specifiche contromisure: al mancato raccordo
tra programmazione economica e
pianificazione territoriale; alla mancata
attuazione degli strumenti urbanistici per
gli interessi della speculazione edilizia e
fondiaria e per la mancata disponibilità
economica dei comuni; all’impossibile costo
sociale di eventuali espropri generalizzati
delle aree per le urbanizzazioni primarie e
secondarie; alle conclusioni
giurisprudenziali dettate da linguaggi
incomprensibili per l’architetto o
l’ingegnere; fino a desumerne, gli stessi
urbanisti, l’assioma dell’impraticabilità
della disciplina e a trovarne rassegnate
compensazioni nella più controllabile
progettazione architettonica, ovvero in
pianificazioni di settore (di urbanistica
commerciale, dei parcheggi, del traffico,
della mobilità dei mezzi pubblici, del
verde, del colore, del recupero del degrado
edilizio, della lotta all’inquinamento
atmosferico e acustico, di protezione
civile, e chi più ne ha più ne metta!) ...
6
Le scienze territoriali e urbanistiche,
nonostante i progressi e i contributi della
tecnologia, generalmente, sembrano far
operare l’urbanista ancora nelle condizioni
dell’antico cerusico che giustificava
diagnosi e terapie sulle conoscenze del
corpo umano avute dall’esame dei cadaveri
esposti nelle aule d’anatomia. I modelli
statici, infatti, non eliminano del tutto le
difficoltà connesse alla comprensione del
funzionamento dinamico – e complesso – della
macchina urbana o territoriale. Ma come in
tutte le scienze sociali, il medico è
anch’esso malato del medesimo morbo sociale:
le sue ricette (se ne abbia) sono quanto
meno da assumere in modo problematico. E
dire che, per rimanere all’anatomia medica,
in analogia a ciascuna cellula del corpo
umano, città e territori si presentano come
cellule che, per vivere, abbisognano
costantemente di flussi di
approvvigionamento, scambio, elaborazione e
smaltimento di materia, energia e
informazioni. Flussi che, regolati da
meccanismi di naturale domanda per il
soddisfacimento di bisogni, possono tuttavia
trovare interruzioni nella erogazione dell’offerta
a opera di chi detenga risorse materiali,
energetiche e informative.
7
Se infatti si considerano città (e
territorio) come insiemi interrelati di
attrezzature (edificate e non,
residenziali e non) generalmente realizzate
da privati su suoli privati per lo
svolgimento di attività proprie o di
servizio, e di infrastrutture (viarie
e tecnologiche, lineari, areali o puntuali),
realizzati generalmente dalla collettività;
allora è possibile concludere che nessuna
attività privata sarebbe possibile, laddove
la collettività non fosse intervenuta e
intervenisse a mettere in relazione
le attività economiche di produzione,
scambio e consumo di elementi
materiali, energetici o informativi proposte
dai privati.
8
La riqualificazione urbana del periodo
fascista, dopo la pausa della prima guerra
mondiale, è fatta di opere ispirate alla
romanità, celebrative del regime a costo di
ricorrere al piccone demolitore, e ad un
tempo utili all’occupazione di quantità
ancora limitate di inurbati. Buona parte
della popolazione è comunque invitata a
restare nelle campagne, dove l’occupazione
agricola è incentivata da bonifiche di zone
paludose e da un particolare sistema
insediativo che vede insiemi di case
coloniche (raggruppati attorno a villaggi
rurali per i servizi primari: scolastici,
religiosi, di pubblica sicurezza) far capo,
per altri livelli di servizi, a piccole e
medie città di fondazione, e tutti assieme
convergere verso i capoluogo di provincia
per ulteriori scambi commerciali o
culturali. Non è dunque un caso che la legge
urbanistica, varata nel 1942 per
disciplinare “l’assetto e l’incremento
edilizio dei centri abitati e lo sviluppo
urbanistico in genere nel territorio”, miri
specificamente a “frenare la tendenza
all’urbanesimo” e anzi a “favorire il
disurbanamento”, assicurando “il rispetto
dei caratteri tradizionali”, nel
rinnovamento e ampliamento edilizio delle
città.
9
In realtà nessun prefetto o sindaco, dopo le
ricostruzioni del dopoguerra, è mai riuscito
a sciogliere il nodo tra potere di piano e
proprietà (tra forza di Stato e forza di
mercato, buono o cattivo che fosse), e a
imporre espropriazioni di legge nemmeno ai
suoli adibiti a usi non conformi ai piani.
Anche dopo l’autunno caldo del 1969, il
mondo del lavoro su cui fonda la Repubblica,
ha immaginato il suo Stato forte,
distributore equo della risorsa territorio,
sotto forma di standards urbanistici, case e
servizi sociali. Ma nemmeno il
compromesso storico tra i partiti
politici più rappresentativi produrrà la
forza di Stato necessaria ad applicare
compiutamente il nuovo regime dei suoli
introdotto nel 1977 dalla legge Bucalossi.
10
Si è persa così la traccia metodologica di
concertazione multidisciplinare sperimentata
a livello urbano nell’Ivrea di Adriano
Olivetti, e percorsa a livello territoriale
dalle analisi di Giovanni Astengo:
competenze e interessi attenti prima al
sistema di relazioni che presiede al
complessivo sviluppo socio-economico, e poi
all’effetto spaziale.
E si è persa anche l’occasione, sotto le
spinte di interessi fondiari (e della
macchina), per impostare il rinnovo
urbano su più calibrati rapporti qualitativi
delle parti nuove con quelle antiche, e
della città tutta col suo contesto agricolo:
in Sicilia l’obbligo di sostituire i
programmi di fabbricazione con piani
regolatori di tutto il territorio comunale (Lr
71/1978) avrebbe certo recuperato alla
pianificazione i caratteri complessivi dello
sviluppo economico, se al contrario non si
fossero estesi alle zone agricole
(ampiamente mortificate nel titolo di
produzione) solo effetti edificatori di zone
residenziali, turistiche, commerciali e
persino industriali … La diffusa
deregulation delle varianti più o meno
automatiche agli strumenti urbanistici,
introdotte da leggi e leggine, ha avuto poi
l’effetto di minare del tutto il campo,
aprendo spazi a piani settoriali (del
traffico, dei parcheggi, del verde, del
colore, ecc.) apparentemente più fattibili,
ma in realtà privi di logiche complessive e
sistemiche. Anche su queste basi la
giurisprudenza ha affinato il convincimento
della indifferenziata potenzialità
edificatoria dei suoli, dando così supporto
sostanziale ai garbugli formal-burocratici,
e fornendo alibi all’edificazione abusiva.
11
La città antica, infatti, non abbisognava di
un progetto complicato della sua struttura.
Per quanto grande essa si presentasse, per
millenni i rapporti quanti-qualitativi tra
attrezzature edificate (o aree
attrezzate) per la produzione, il consumo e
lo scambio di beni, e infrastrutture
per il collegamento e il trasporto di tali
beni da produrre, consumare o scambiare,
trovavano sempre proprie naturali dimensioni
(intanto nella necessità di riservare
quantità di aree agricole commisurate alla
domanda di consumo delle popolazioni
insediate in ciascun sito; e poi nelle
difficoltà di raggiungimento – in tempi
congruamente vantaggiosi – delle sedi di
produzione, consumo o scambio).
12
Al contrario, la riqualificazione rischia di
essere solo quella sin qui attuata, certo
più facile da realizzare, per nascondere
(dietro una assolata piazzetta per anziani,
o un muretto per i giovani, dove spesso si
coltivano complici utopie di solidarietà e
stato sociale ben lontane dalla competizione
attizzata a qualunque livello e costo dai
realismi di mercato), le ulteriori
insostenibili trasformazioni territoriali
care al mondo dell’effimero distruttivo,
pervasive di progetti di finto sviluppo
(alberghi, campi da golf, giochi acquatici,
autodromi, centri commerciali, ecc.),
legittimati all’interno di patti
territoriali, contratti d’area,
programmi di riqualificazione e di presunto
sviluppo, che in realtà annegano nel cemento
ricavi di dubbia provenienza, e consumano
risorse collettive (aria, acqua, suolo,
paesaggio, beni culturali) e con esse la
salute dei cittadini. |