Un inventario di minacce ambientali
“Un buon insediamento”, scriveva Kevin Lynch,
“è quello dove non compaiono rischi, veleni,
malattie o, se esistono, sono sotto
controllo e dove è molto esiguo il pericolo
di poterli incontrare: un insediamento in
cui è garantita la sicurezza fisica” (Lynch,
1990). Il caso della periferia della Spezia1
pone alcune questioni emblematiche
dell’abitare nei territori di margine, la
cui quotidianità è definita da una
coesistenza di lunga durata con minacce
ambientali. Uscendo dalla città lungo l’Aurelia,
superata la soglia simbolica del cimitero,
cui si affiancano il vecchio mattatoio e il
depuratore fognario – “le cose scartate
vengono spostate ai margini della società”,
scriveva, altrove, Lynch (1992) – ecco il
riferimento territoriale della periferia: la
ciminiera della centrale termoelettrica,
parzialmente alimentata a carbone. Il
raccordo autostradale, la strada del porto,
il traffico, i piazzali e i containers del
porto, la zona industriale, il nastro della
ferrovia. Laggiù le discariche sfasciano i
fianchi della collina, intossicandone la
terra. Poco lontano, il carbodotto, i
carbonili, i bacini di lagunaggio per le
ceneri della centrale. Un insieme di
elementi che, posti in contiguità ambientale
con lo spazio abitativo, produce le
condizioni di un’identità costantemente
minacciata. Territori lontani, non solo in
termini di distanza geografica, dal
“periferico mondanizzato” (Mello,
2002), dall’euforia seminomade delle
megalopoli, dall’atmosfera rassicurante di
deresponsabilizzazione in cui si è avvolti
nel consumo degli shopping centers.
Un inventario di minacce che premono ai
margini dello spazio abitativo della
periferia urbana, si insinuano
pervasivamente nei luoghi della vita
quotidiana, ne contaminano i caratteri
ambientali, ne sovrastano la percezione, ne
intridono la corporeità e i valori
simbolici. Al margine della città i
caratteri dell’urbano ridefiniscono una
dimensione loro propria, una diversità,
prima ancora che una possibile forma di
città. Qui ha ancora senso parlare di
periferia: nonostante la dissoluzione dello
spazio euclideo nella metropoli
contemporanea abbia deprivato di senso le
più elementari contrapposizioni deittiche
alla base della percezione e
dell’appropriazione dello spazio, unificando
il vicino e il lontano in “un’equivalenza
indefinitamente moltiplicata delle direzioni
e delle circolazioni, di cui l’abitazione è
solo un corollario” (Nancy, 2002),
nonostante marginalità e periferia non siano
concetti sempre deterministicamente
associabili, in questi luoghi la distanza
dal centro è un carattere su cui si misurano
fisicamente differenze strutturali. Il
contatto con gli elementi rifiutati, con le
polveri, i fumi, i rumori, i sussulti, le
agonie, i detriti della metropoli
industriale, la cui incombenza impone una
costante convivenza e ibridazione del
quotidiano tra creazione e scarto, tra
vitalità e morte, determina una condizione
di grado zero, una tabula rasa
dell’urbano. Una condizione in cui l’assenza
o la debolezza dell’idea di città invita a
sperimentare una sua nuova codificazione
induttiva, a partire dai frammenti, dai
deboli, balbettanti indizi di vita che
l’ambiente abitativo continua a opporre alle
immagini delle occupazioni produttive,
pervasive e soverchianti.
|
Figura 1 - Ipotesi progettuale per
l’unità abitativa “Termo/Pianazze”,
La Spezia* |
Minacce ambientali e identità abitativa
Entrando nella realtà abitativa di questi
luoghi – abbandonate, per un momento le
ansie progettuali, le riduzioni descrittive
fatte di immagini unificanti, le figure
retoriche disciplinari – è possibile
disvelare, con i modi di una “fenomenologia
timida e stupita nei confronti del mondo”
(La Cecla, 2000), realtà inattese, dipanando
pazientemente la trama minimale dei segni e
dei significati che gli abitanti imprimono
ai loro spazi – anche a quelli più derelitti
– attribuendo loro un senso, e cominciare a
interrogarsi sul significato di città, a
partire dai margini più deboli e lontani.
L’identità è, più che mai in periferia, un
valore che trema, un’entità labile e
sfumata, perennemente instabile, ma che
ritrova spesso le ragioni della propria
definizione nella contrapposizione – più o
meno autocosciente – ad un’alterità ostile2
(Bachelard in Paba, 1998; Remotti, 1996). Il
ruolo delle minacce sembra infatti
determinante nel suscitare il riemergere del
senso di autoidentificazione delle comunità
insediate, nel ricomporre una possibile
continuità tra uomini e luoghi, nel
riconoscere e nel rendere più evidenti
attraverso sporadiche forme di
autoespressione conflittuale le trame
latenti di un’appartenenza lacerata.
Nell’identificare – paradossalmente – la
persona olistica di una parte di città
che vive ed ha vissuto la propria vicenda
storica in funzione della propria alterità
sia nei confronti dello scarto da cui è
assediata, sia nei confronti della città
lontana. La cifra di un’appartenenza la
ritrovi a volte nel nome del luogo, (“Pianazze”,
“Melara”, “Termo”, “Valdellora”) ridisegnato
con la vernice su un muro o su un lenzuolo
attaccato ad una rete per maledire
l’ennesima aggressione al proprio campo di
esistenza, oppure in un’epigrafe che ricorda
un frammento di “Fossamastra quando era
bella”, prima della catastrofe portuale
e della successiva, non meno cruenta,
coabitazione di porto e abitazioni. La
storia di questi luoghi sembra inscritta
nell’autodifesa dalla pervasività delle
occupazioni produttive, una lotta contro
l’entropia in cui ogni margine di
radicamento diventa lo spazio per
l’affermazione di una dolente presenza di
vita. Dal punto di vista di chi tenti di
analizzarla, l’identità, parafrasando La
Cecla, se osservata con gli strumenti della
conoscenza tradizionali, si comporta come
“un’anguilla che sfugge a facili trappole”
(La Cecla, 2000), labile come acqua alle
reti delle tassonomie e delle misurazioni: è
avvicinabile solo grazie all’ascolto
paziente e compassionevole delle pratiche
della quotidianità e dei loro spazi
piuttosto che rappresentabile come costrutto
di un’individualità di lunga durata,
prodotto di un vincolo ereditario (Decandia,
2000) a supporto di un’idea latente di
comunità. Se cerchiamo un’identità nella
periferia, non possiamo trovarla utilizzando
le metafore comprensive con cui sono state
descritte le forme dei margini e della
dispersione urbana parlando di frange,
pulviscolo, filamenti, bande, nebulose,
polveri, galassie. È necessario “il
disprezzo della propria presbiopia” (La
Cecla, 2000), apprendere dall’interno del
mondo, abbracciando la visione dell’abitare,
della “serie innumerabile di singolarità”
(De Certeau, 2001) che imprime indizi e
segni nella piccola, a volte piccolissima
dimensione dei propri spazi, senza
rinunciare per questo a riconoscerne
un’organizzazione e a cercarne una sintesi
rappresentabile, anche dove la città sembra
un informe materiale di risulta. La vita in
periferia è ridotta alle sue funzioni
basiche, è un “luogo brutto, inquinato e
tuttavia tollerante” (Lynch, 1992) in cui
più nuda – forse anche più decivilizzata
(Consonni in Leotta, 2000) – è la prassi di
una sopravvivenza più o meno condivisa, in
cui lo spazio abitativo continua
un’opposizione talvolta rassegnata,
infiltrandosi e resistendo inesorabilmente
alla occupazione dissipativa dello spazio,
tenendo in vita le sue strutture di urbanità
minimale e i suoi riferimenti simbolici.
|
1 |
Questa condizione sembra appartenere
intrinsecamente alla stessa definizione di
periferia come “area di vera e propria
subordinazione funzionale, nella quale la
vita urbana è limitata alle attività
elementari” (Piroddi, 2000). In questo
essere limitata alle attività elementari
la vita urbana (i suoi spazi, le sue forme,
i suoi labili indizi), se osservata da
vicino, sembra meglio rivelare alcune delle
sue ragioni essenziali, e consente di
interrogarsi in modo più radicale sul senso
della città. Sullo sfondo di questa
condizione di caotica eterogeneità, di
violento conflitto in cui convivono
giustapposte diverse scalarità e diversi
significati (l’autostrada e la piccola
chiesa di quartiere, l’orto e la ciminiera),
un unico flusso sembra avvolgere differenze
temporali, culturali e ambientali ancora
discernibili, è possibile, dunque, tentare
una ricostruzione di senso, esplorare una
decifrabilità degli elementi in cui non è
apparentemente riconoscibile una struttura
di significato: dall’edificio storico alla
palazzina contemporanea, dal paesaggio
rurale alla discarica, dal piccolo monumento
domestico al writing, dal circolo
ricreativo al capannone industriale, dalla
fila di sedie nel cortile alla scuola che fa
anche da centro sociale, dall’auto
abbandonata alla villetta con giardino. Nel
rumore che emerge dallo spazio abitativo
come risultante di questo brusìo fatto di
corpuscolari differenze – invisibili allo
sguardo nomadico del city user o di
una interpretazione cartografica – è
possibile ricostruire, guardando
internamente la sfera dell’abitare, un
inventario degli elementi che costituiscono
un’ipotesi di ecosistema abitativo e fare
emergere le discontinuità e le differenze
che sono intrinseche alle loro
organizzazioni spaziali.
Struttura della città di margine: un
inventario di elementi dell’abitare
Raccogliendo i frammenti a partire dallo
sguardo quotidiano, si scopre un senso
minimale, la presenza – anche in una
condizione di assoluta debolezza, di
mancanza dell’urbano – di una forma di
organizzazione elementare (Viganò, 1999). Ci
sono fenomeni, nei margini della città, che
ricorrono a distanza insieme con i loro
legami di prossimità e di reciprocità dati
dall’uso abitativo, che sono tenuti insieme
da una relazione centro-confine, ragione
costitutiva dell’abitare (La Cecla, 2000).
Questi elementi e la loro interazione debole
rendono possibile riconoscere la trama
sottile del luogo, le sue regole
organizzative interne, ed è possibile
rappresentarne la struttura complessa. Si
distinguono gli spazi racchiusi, cortine
edilizie continue o a elementi ravvicinati
prospicienti un percorso pubblico principale
in cui più densa è la presenza di edifici
storici, ai cui piani terra si collocano le
attività commerciali essenziali. Sono
piccoli noccioli di urbanità (Choay in
Piroddi, 2000) che costituiscono minuscole
centralità locali, immerse nel
pavillonsystem residenziale e
produttivo. Le strade che attraversano
questi spazi ne costituiscono l’asse
morfologico, orientandoli nel territorio.
Vicino questi piccoli centri si dispongono i
quartieri pianificati del dopoguerra, ben
riconoscibili per la particolarità del
rapporto tra spazio costruito e spazio
aperto, e per il loro paesaggio interno,
universo di codici domestici. C’è sempre una
chiesetta, una scuola, un circolo, edifici
che rappresentano, anche a livello
simbolico, la dimensione collettiva
dell’abitare. Si percepiscono soglie e
confini. Alcuni sono confini fisici (un
rilevato, un ponte …), altri sono confini
più “soffici” (Lynch, 1964) e ambigui,
transizioni quasi impercettibili fatte di
mutamenti di giaciture, attenuazioni di
gradienti di centralità … Compaiono le
tracce materiali della socializzazione: un
campo di calcio, una bocciofila, ma anche
soltanto due panchine divelte e ricollocate
a formare un angolo di conversazione. C’è
sempre un piccolo monumento: un’epigrafe,
un’effigie sacra … segni minimi di una
“sfida all’entropia” (Choay in Decandia,
2000). Compaiono, nelle indicazioni
toponomastiche, i nomi dei luoghi, “i solchi
di un’appartenenza reciproca” tra gli uomini
e i loro spazi di esistenza (La Cecla,
2000). Gli stessi nomi compaiono nelle
pratiche del writing per segnare la
contrapposizione alle minacce ambientali:
stendardi illegali di un’identità che
risignifica la propria denominazione per
esprimere conflittualità verso
l’omologazione e verso l’alterità
delle minacce, opposizione di un simulacro
di comunità all’occupazione distruttiva del
territorio. Si incontra sempre un corso
d’acqua, talvolta sotto forma di torrente,
di fogna a cielo aperto, di rigagnolo
sfuggito ai tombinamenti, residuato di una
modernizzazione incompleta (Macchi,
2001).
|
2 |
Sono sempre presenti i residui della
ruralità, schegge di paesaggio culturale
immerse nei terraines vagues. Sono
resistenze di diverse temporalità che
convivono nello spazio abitativo della
contemporaneità, testimonianza di una
progettualità domestica, del persistere
della necessità di una differenziazione
interna allo spazio abitativo, espressione
di un non finito permanente,
essenziale alla vitalità dell’abitare.
|
3 |
Sono sempre visibili piccole aree verdi,
giardini, parchi di quartiere. È sempre
presente qualche elemento esterno alla
dimensione abitativa (ad esempio la
ciminiera stessa dell’Enel), che costituisce
il riferimento percettivo della dimensione
territoriale, la referenziazione in un
dove della dimensione abitativa locale.
Tutti questi elementi, combinati in diverse
forme, compaiono ripetutamente insieme nelle
varie parti della periferia. La loro
ricorrenza, cadenzata dalla relazione
centro-confine, permette di
rappresentarli come regole costitutive,
comun denominatore di piccole organizzazioni
alla scala del piccolo quartiere, facendo
affiorare, nell’indistinto della
conurbazione periferica, un sistema di
possibili piccole città, entità molteplici
che scompongono in identità multiple e
complesse la periferia (Colarossi, 2000 e
2002; Fratini, 2000; Piroddi, 2000; Paba,
1998; Magnaghi, 2000). Da questa lettura ad
altezza d’uomo, che include fenomeni non
sempre cartografabili, è possibile
rintracciare nei comportamenti di
autorganizzazione e di rappresentazione
quotidiana dello spazio le tracce di una
presenza umana che, anche quando la
conflittualità è sopita in una sorta di
ammutolita condivisione del deperimento con
i territori rifiutati, non arretra di un
metro nei confronti dell’invasione
produttiva dei territori.
Il ruolo della pianificazione istituzionale
e dei grandi progetti
Come si misurano piani e progetti
urbanistici con le minacce? Prevedendo
conversioni e rigenerazioni di aree,
interventi di bonifica, recupero ambientale,
mitigazione e compensazione, individuando
strategie che assecondano l’ottica
comprensiva, le ragioni di uno sguardo
unitario e gerarchico della grande città e
del territorio, non ponendo in discussione
le istanze dello sviluppo produttivo;
prefigurando, di fatto, il disegno di grandi
trasformazioni che ricompongano,
compatibilizzando gli scenari di espansione,
le conflittualità tra produzione e sistema
abitativo e ambientale, potenziando – in
particolare per la ridefinizione del
rapporto città/mare – il settore turistico/diportistico.
Lasciando sullo sfondo le forme dell’abitare
locale, il cui disegno e la cui complessità
semantica non sempre compaiono – sono troppo
piccoli e deboli – nelle visioni dei grandi
progetti3. La dimensione
abitativa locale – pur presente e coinvolta
nei processi decisionali grazie
all’attivazione del piano strategico4
– resta nelle visioni urbanistiche dei
progetti di trasformazione una condizione di
sfondo, da tutelare, ma di cui non sembrano
trovare sufficiente spazio di espressione le
ragioni di una autonomia creatrice, le
potenzialità evolutive di autoorganizzazione,
misurabili e interpretabili solo attraverso
uno sguardo ad altezza umana, capace di
integrarsi con la piccola dimensione. Il
piano provinciale5 affronta il
tema della compatibilizzazione dello
sviluppo industriale, portuale e non,
attraverso indirizzi di riqualificazione
delle aree produttive tramite attrezzatura
ecologica, di riconversione di aree
produttive dismesse verso usi urbani e
riqualificazione dei quartieri urbani, di
recupero di siti degradati. Indicando, in un
caso, la rilocalizzazione in periferia di
impianti particolarmente impattanti
attualmente collocati in aree ambientalmente
sensibili, e suscitando, con ciò, la
reazione degli abitanti. La liberazione di
un bacino portuale in fase di dismissione e
l’espansione del porto verso il levante
urbano – secondo un deterministico
principio di reciprocità compensativa,
per il quale tutte le superfici sottratte
all’impiego del porto commerciale per
sviluppare funzioni urbane devono
essere riconferite nella medesima misura al
porto – permetterà la ridefinizione del
nuovo waterfront della città,
polarizzandone la parte centrale su funzioni
turistiche e diportistiche, ridimensionando,
asportando e rilocalizzando l’affaccio a
mare e i piccoli approdi (le marine)
dei quartieri periferici. Le ragioni della
trasformazione partono dal centro, e il
destino storico – per quanto condiviso
e compatibilizzato – della periferia
come oggetto subordinato delle esternalità
della rigenerazione delle aree centrali,
sembra permanere. Gli elementi di
sostenibilità per le aree periferiche del
levante vengono codificati dalla
pianificazione nel trasferimento degli spazi
di movimentazione del retroporto verso aree
esterne al comune e la loro trasformazione
in un distretto produttivo legato alla
cantieristica per il diporto, con
l’individuazione di interventi di
mitigazione (come la fascia di rispetto)
e la previsione di una nuova centralità
urbana, la riambientalizzazione di aree con
verde e piste ciclabili.
|
4 |
La trasformazione del retroporto, in
particolare, prevede la realizzazione di una
darsena interna6 nelle vicinanze
del quartiere di Fossamastra, quello che,
storicamente, più ha subito la pressione
ambientale delle aree portuali. La darsena,
insieme con la delocalizzazione degli
approdi, si pone come elemento cruciale per
permettere l’espansione del porto verso
levante perseguendo un’ipotesi di affaccio a
mare del quartiere e un’opportunità
produttiva: una protesi di mare introiettata
nel corpo del territorio urbanizzato, oltre
ad un approdo decentrato rispetto ai
quartieri, per lo sviluppo di attività di
minore impatto e di intensa occupazione.
Complessivamente, il rapporto con le minacce
ambientali sembra tradursi, a fronte di una
irreversibilità delle scelte di espansione
produttiva assunta come premessa, in un
disegno di trasformazione coerente con la
grande dimensione della città. Restano come
sottointese, silenziose, le più fragili,
molecolari trame dello spazio dell’abitare.
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5 |
Scenari possibili
“Non ci sono terre pure e terre impure di
per sé: la differenza sta unicamente nella
bontà o malvagità della nostra mente” (Nichiren
Daishonin, Gli scritti, IV,
1255).
L’ipotesi ambiziosa che vorremmo
sperimentalmente prendere in considerazione
nel difficile tentativo di costruire una
proposta percorribile, è quella di spostare
l’attenzione dalle opportunità offerte dai
grandi progetti al più difficile
perseguimento di un rafforzamento endogeno
dei caratteri identitari del territorio
abitativo per trovarne le ragioni di una
possibile autorigenerazione. Uno scenario da
costruire integrando la grande con la
piccola dimensione (Colarossi, 2002),
lavorando soprattutto dall’interno per
riscattare le sofferenze del territorio
abitato della periferia, avendone appreso
ragioni e razionalità. Risvegliare le
risorse, materiali e morali, dello spazio
abitativo, senza prescindere dagli aspetti
controllabili attraverso i dispositivi
tradizionali del planning, ma
integrandoli con quegli elementi che non
possono che restare indeterminati, non
rappresentabili né prefigurabili attraverso
lo strumentario convenzionale, e che solo
l’abitare come pratica progettuale (La Cecla,
2000) può concorrere a costruire.
Riutilizzando le parole di Giovanni Ferraro,
“la parola con cui Geddes dice tutto questo
è Karma, parola che misura la distanza che
ormai lo separa dal progetto scientifico
positivista e dal suo linguaggio. Karma è
l’intrico labirintico, spesso inestricabile,
di cause ed effetti, il coagulo mobile
manifesto in ogni isolato che la
pazienza della survey si sforza di
sciogliere nell’interpretazione. (…) è il
cattivo Karma della città, più spesso
il miscuglio di bene e di male che
richiede di essere valutato nel suo
dettaglio vivente. E soprattutto sul Karma
si può agire. Risvegliandosi dalla sua
ferrea necessità, i cittadini possono
riacquistare coscienza di sé e delle proprie
possibilità di plasmare il Karma della
loro città e quindi di loro stessi”. (Geddes
in Ferraro, 1998) Il cuore di questa ipotesi
cerca di spostare l’attenzione dai singoli
progetti emergenti, dalle singole azioni di
mitigazione e di compatibilizzazione
(assunte, talvolta, come auspicate e
necessarie), verso il sistema di relazioni
che tiene in vita la dimensione locale
dell’abitare in periferia, rappresentata
dalle molteplici unità locali, dalle
“piccole città” (Colarossi, 2000 e 2002).
|
6 |
Ciò che rende vivente tale modello è la
relazione di reciprocità, sostenuta
dall’azione quotidiana degli abitanti, che
ciascun elemento semplice di ogni
microsistema locale intrattiene nella sua
vicinanza e coesistenza con le altre parti.
La struttura di questi piccoli sistemi di
città può diventare simulacro di
orientamento per un sistema complesso di
interventi di piccola dimensione da affidare
ad una pluralità di soggetti. Lo scenario
che ne può scaturire nasce
dall’articolazione, in chiave progettuale,
di ciascuna delle componenti elementari di
ogni piccola unità: consolidare le piccole
centralità locali, iniettandovi
insediamenti, spazi e funzioni aggreganti;
recuperare le connessioni fruitive interne
tra gli elementi, rafforzandone la coesione
reticolare; potenziare gli spazi pubblici
che possono favorire socializzazione e
identificazione collettiva, anche
riutilizzando edifici dismessi; rafforzare e
ricucire la trama fine delle reti ambientali
di piccola scala; sostenere e incentivare la
cura dei frammenti di ruralità; lasciare
pagine bianche (Zevi, 1992) di
indeterminazione nelle aree della naturalità
residuale; orientare il recupero
dell’edilizia pubblica e degli spazi aperti
di vicinato al principio della manutenzione
urbana piuttosto che a sostituzioni
pianificate (Piroddi, 2003; Virgilio,
2004a). L’enfasi non è da porre sulle
singole prefigurazioni, né sul programma che
dalla loro sommatoria può essere generato,
quanto piuttosto sul processo complessivo –
che potrà avere localmente diverse
connotazioni procedurali, potrà confrontarsi
con soggetti e livelli istituzionali diversi
e potrà sortire assetti spaziali mutevoli –
nella consapevolezza che una molteplicità
distribuita di interventi di
riqualificazione possa superare in
importanza e in efficacia una sola grande
trasformazione (Geddes, 1904). Una strategia
della debolezza e del minimo progetto, che
richiede tempi lunghi e uno sguardo utopico
e rovesciato rispetto a quello delle grandi
trasformazioni, pur condividendone
l’obiettivo di rigenerazione e
riconoscendone, in alcuni casi, l’imprescindibilità.
Deve accompagnare questo processo una
visione empirica, orientata all’efficacia
“immediata e graduale”, che cerca di
stabilire “soluzioni locali immediate, anche
minime, senza rinviare ogni volta alle
soluzioni globali”, assecondando una
traiettoria che si sviluppa “da inizi
modesti a migliorie più ampie, rese in
questo modo più semplici e meno costose” (Geddes
in Ferraro, 1998). L’ipotesi assunta sotto
il profilo teleonomico è che solo operando a
partire dalla continuità e dalla
progressione unitaria delle azioni si potrà
conseguire un rafforzamento endogeno
dell’identità di questi territori, per
rendere più intensi gli effetti degli
interventi pianificati di rigenerazione. Il
valore della continuità si esprime in una
qualità diffusa “quella che gli abitanti (i
cittadini) stabiliscono nei ritmi del vivere
quotidiano all’interno di spazi della città,
che si misura nella ricchezza dei rapporti
che legano i molteplici aspetti
dell’ambiente urbano, che si determina con
le pratiche dell’abitare. (…) Essa non è
legata a progetti di grande dimensione o a
eventi urbani eccezionali, ma si ispira ai
principi dell’ordinaria manutenzione
urbana (e territoriale)” (Besio, 1999).
Tutto ciò implica la necessità di mettere in
atto una strategia non deterministica, in
grado di accogliere al proprio interno anche
margini di incertezza, e – allo stesso tempo
– la capacità di operare contemporaneamente
all’interno e all’esterno delle situazioni,
per non perdere di vista, in ogni caso, la
coerenza della piccola con la grande
dimensione, mettendo a sistema la pluralità
di comportamenti – in atto e potenziali –
inscritti negli spazi dell’abitare che
trovano forza non solo in una
riqualificazione proposta dall’alto, ma
nella capacità di costruire un legame di
cura tra uomini e luoghi.
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7 |
Note
1
Il presente contributo si sviluppa a partire
dall’esperienza di collaborazione al piano
urbanistico comunale della Spezia (adottato
nel luglio 2000 ed entrato in vigore nel
giugno 2003) i cui consulenti generali sono
Luciano Pontuale e Federico Oliva, e da una
tesi di dottorato in Tecnica urbanistica
presso l’Università di Roma “La Sapienza”,
dal titolo “Unità locali nella periferia
urbana come organizzazioni viventi:
il caso della Spezia”.
2
Giancarlo Paba ci ricorda – citando le
esperienze di Sacks – che l’identità è
perennemente una condizione da
riconquistare, non uno stato permanente (Paba,
1998). L’identità non è reificabile, non è
univocamente definibile e rappresentabile,
è, piuttosto, “un’area di condivisione
sempre parziale e mai definitiva, con vuoti,
crepe e discrepanze interne, con confini
labili e sfumati”. Identità e
alterità sono valori perennemente in
bilico, carichi di ambivalenze e
ambiguità (Remotti, 1996).
3
Il piano urbanistico comunale – grazie
soprattutto alla consulenza di Luciano
Pontuale – sembra in questo compensare
l’attenzione verso le forme dello spazio
della piccola dimensione, riconoscendo nel
sistema delle preesistenze storiche (la
città fino all’immediato dopoguerra) gli
oggetti e i valori di una puntuale tutela.
4
Il piano strategico della Spezia (prima
fase: 1999-2001; seconda fase: 2003-2004),
coordinato da Roberto Camagni, ha attivato
un processo di partecipazione della società
locale e di coinvolgimento diretto dei
cittadini nelle scelte pubbliche, giungendo,
in qualche caso, anche all’apertura di
laboratori di quartiere. Un ulteriore
fattore di coinvolgimento della comunità
locale sulla questione ambientale è
rappresentato dall’attivazione del processo
di Agenda 21 locale, su cui sono imperniati
i lavori della commissione ambiente del
piano strategico.
5
Il piano territoriale di coordinamento della
Provincia della Spezia è stato adottato con
delibera del Consiglio provinciale n. 32 del
22.3.2002; Consulenti: Caire scrl – Ugo
Baldini, coordinatore: Arch. Claudio Luigi
Bertolini.
6
La trasformazione dell’area retroportuale
del Levante spezzino con l’individuazione di
un nuovo distretto nautico e della relativa
darsena è stata prefigurata nel Piano d’area
degli ambiti territoriali del Levante
redatto dallo studio Federico Oliva
Associati nel 1999 e recepito dal piano
urbanistico comunale.
* La Figura 1 si riferisce ad una
ipotesi progettuale per l'unità abitativa "Termo/Pianazze"
nell'estrema periferia spezzina. Consolidare
la piccola centralità, iniettandovi funzioni
aggreganti; recuperare le connessioni
fruitive interne tra gli elementi,
rafforzandone la coesione reticolare;
potenziare gli spazi che possono favorire
socializzazione e identificazione
collettiva; rafforzare e ricucire la trama
fine delle reti ambientali di piccola scala;
sostenere la cura della ruralità; lasciare
pagine bianche di indeterminazione
nelle aree della naturalità residuale;
orientare il recupero dell'edilizia pubblica
e degli spazi aperti di vicinato al
principio della manutenzione urbana.
Le immagini da 1 a 8, scattate negli anni
tra il 2000 e il 2004 nella periferia di La
Spezia, e l'elaborazione scenariale sono di
Daniele Virgilio.
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8 |
Bibliografia
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Besio M. (a cura) (1999), Il libro delle
vigne – un progetto di riqualificazione
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mare – il piano del paesaggio tra i tempi
della tradizione e i tempi della conoscenza,
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contemporanea, Skira, Ginevra/Milano.
Boeri S., Basilico G. (1997), Sezioni del
paesaggio italiano, Arti Grafiche
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