Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Conflitti ambientali e processi decisionali. Proponenti, amministratori e oppositori


Piero Giugni


 

In Italia le situazioni di conflittualità ambientale sono non solo all’ordine del giorno, ma investono ambiti talmente disparati che qualsiasi nuova opera, anche se di pubblica utilità, provoca la reazione delle popolazioni locali. Queste, organizzandosi e facendo sentire sempre di più la loro voce, creano situazioni di impasse nei processi decisionali. Secondo Piero Giugni, la soluzione al problema potrebbe derivare da un approccio decisionale alternativo basato su coinvolgimento, dialogo e confronto tra proponenti, amministratori e oppositori

 

 

Situazioni di conflittualità ambientale sono ormai all’ordine del giorno nel nostro paese. Si tratti di localizzazione di impianti per lo smaltimento dei rifiuti o di produzione di energia, di costruzione di infrastrutture di trasporto e viabilità, di elaborazione di piani e programmi di riqualificazione e sviluppo urbano o ancora di tutela del paesaggio, le opposizioni locali fanno sentire sempre di più la loro voce organizzandosi in maniera strutturata e creando situazioni di impasse nei processi decisionali con elevati riflessi in termini di efficacia ed efficienza delle politiche pubbliche.

In assenza di un’indagine strutturata e approfondita, ma in base all’esperienza di ricerca, osservazione e intervento dell’Osservatorio gestione conflitti ambientali e territoriali, è possibile affermare che i conflitti ambientali tendono a svilupparsi in diversi ambiti e ad avere differenti cause.

Gli ambiti in cui sorgono in maniera più ricorrente sono la gestione dei rifiuti, la produzione di energia, la realizzazione di infrastrutture per la viabilità e il trasporto. Ma ormai anche altri ambiti sono investiti sempre di più da queste situazioni come ad esempio le aree protette, le telecomunicazioni, la sicurezza alimentare e così via, tanto da poter sostenere che ogni qualvolta ci si trovi davanti alla realizzazione di una qualsiasi opera, anche se di pubblica utilità, scatta sempre la cosiddetta sindrome nimby (not in backyard) secondo cui la comunità residente vicino al luogo dove l’opera deve essere realizzata si oppone in maniera radicale chiedendo il cambio o addirittura il ritiro del progetto.

Tanto per citare alcuni esempi eclatanti e che ben testimoniano quanto appena affermato basti ricordare il caso del deposito nazionale per i rifiuti nucleari a Scanzano Jonico, il termoutilizzatore di Acerra, l’aeroporto di Malpensa 2000, il ponte sullo Stretto di Messina. Ma esistono anche tanti casi di conflitto che riguardano la riqualificazione di spazi urbani, la localizzazione di centrali elettriche o di parchi eolici, gli interventi sulle aree costiere.

La casistica dei conflitti ambientali in Italia è ormai molto ampia e permette di fare alcune considerazioni circa le cause e i fattori scatenanti in base ai differenti attori che entrano in gioco. In particolare, dalle analisi di caso svolte dall’Osservatorio emergono alcune considerazioni riconducibili alle tre tipologie di attori che abitualmente entrano in gioco (proponenti, pubblica amministrazione e oppositori) e che sono:

- le strategie dei proponenti i progetti contro i quali spesso le popolazioni locali si oppongono;

- la scarsa capacità della pubblica amministrazione di gestire situazioni di dialogo e confronto;

- le accresciute capacità da parte degli oppositori di mobilitarsi e intervenire nel processo decisionale e attuativo.

Quindi spesso uno dei fattori scatenanti risiede proprio nella strategia (o la non strategia) adottata dai proponenti. L’approccio classico che guida costoro verso la realizzazione dei loro progetti è quello noto con l’acronimo decide-announce-defend (Dad) in base al quale una volta progettato l’intervento e avuto tutte le necessarie autorizzazioni amministrative lo si presenta al pubblico e lo si difende davanti agli eventuali (ma ormai immancabili) oppositori adducendo giustificazioni sostanzialmente di natura tecnico-scientifica.

Spesso questa strategia può avere un buon esito per i proponenti, ma i costi e i tempi di realizzazione dei progetti tendono inevitabilmente a elevarsi tanto da far pensare che forse altri approcci possano essere più vantaggiosi anche per gli stessi proponenti. Si tratta quindi di considerare percorsi alternativi che mirino a prevenire le possibili opposizioni locali individuandole e includendole fin dalle fasi iniziali nel processo decisionale. Stiamo parlando di un approccio decisionale alternativo ancora troppo poco utilizzato dai decisori privati e pubblici e che si basa sostanzialmente sul coinvolgimento preventivo di tutti gli attori interessati ad un determinato progetto o politica.

Tale approccio alternativo, noto con l’acronimo alternative dispute resolution (Adr), ha un carattere preventivo, informale, volontario, ma allo stesso tempo implica una formalizzazione della decisione presa al termine del processo. Rispetto al Dad, l’Adr presenta anche molti vantaggi in termini di efficacia, efficienza, stabilità ed equità del processo decisionale. Tali vantaggi sono riconducibili al fatto che il coinvolgimento preventivo degli attori fin dalle prime fasi del processo decisionale tende a favorire una loro maggiore responsabilizzazione e quindi un loro maggiore impegno nei confronti di una decisione che anche loro hanno contribuito a costruire.

Ciò detto, c’è da chiedersi perché i proponenti non utilizzino tale approccio come prima alternativa, ma vi fanno ricorso solo quando il conflitto è esploso e, una volta diventato ingestibile, devono aprire una negoziazione. Alcune risposte possono essere che in passato l’approccio Dad ha funzionato abbastanza bene grazie anche ad una scarsa sensibilizzazione e informazione ambientale del cittadino, oppure che i proponenti hanno tradizionalmente una bassa cultura della negoziazione e tendono ad affidarsi più a criteri tecnico-giuridici, o ancora che i proponenti hanno un’imperfetta conoscenza del contesto in cui intendono agire e degli attori che vi sono presenti. Tali risposte mostrano che spesso il proponente non ha una strategia di comunicazione ben definita e che spesso tende ad affidarsi a strategie improvvisate (o a non strategie).

Il discorso circa l’approccio alternativo Adr e il coinvolgimento attivo di attori altri, oltre quelli classici, nei processi decisionali ci porta ad affrontare il secondo argomento individuato e cioè le competenze e le capacità della pubblica amministrazione a gestire il dialogo e il confronto con i vari portatori di interesse e quindi a perseguire politiche di tipo inclusivo.

Ormai questo tipo di politiche è favorito ampiamente dalla legge. Dai programmi comunitari fino ai piani sociali di zona, passando per la programmazione negoziata, il coinvolgimento, seppur a diversi livelli, degli attori locali è sempre presente. Ma per stessa ammissione di molti pubblici amministratori, gli enti locali tendono a trovarsi in seria difficoltà davanti alla necessità o alla volontà di organizzare in maniera strutturata percorsi di coinvolgimento del pubblico. Mancano risorse, competenze, strumenti e luoghi.

La gestione di processi inclusivi richiede competenze di natura comunicativa, relazionale, organizzativa, gestionale, strategica, di costruzione delle reti, di gestione dei gruppi di lavoro e conduzione di tavoli di negoziazione che spesso sono assenti nella struttura burocratico-amministrativa degli enti pubblici. Inoltre, questioni importanti devono essere affrontate come a che punto del processo bisogna coinvolgere gli attori, quali attori, in che modo bisogna coinvolgerli, come e quanto bisogna prendere in considerazione le loro istanze, come ratificare gli accordi e così via.

Nonostante tali approcci tendano ad affermarsi sempre di più nel contesto italiano, sembra ancora mancare una conoscenza approfondita ed un utilizzo appropriato degli strumenti che la pubblica amministrazione deve mettere in campo. D’altra parte, il volere perseguire tali approcci inclusivi non mette assolutamente al riparo la pubblica amministrazione dal verificarsi di casi di conflitto ambientale. Le incognite non sono comunque ineliminabili e i rischi potrebbero anche essere maggiori data la superiore complessità dei processi decisionali allargati e inclusivi.

Inoltre, si può notare una certa ambiguità circa il ruolo della pubblica amministrazione nell’ambito di casi conflitto ambientale. Osserviamo casi, infatti, in cui la pubblica amministrazione è il proponente, in altri l’oppositore e in altri ancora è chiamata a svolgere un ruolo di mediatore di fatto in mancanza di mediatori ambientali di professione. Ancora, all’interno di una stessa struttura amministrativa pubblica si possono identificare posizioni e interessi differenti da parte di organi e settori diversi.

Il ruolo, quindi, della pubblica amministrazione non sempre appare chiaro e ciò inevitabilmente influisce sulla strategia e i comportamenti da adottare, sul corso degli eventi che caratterizzano lo svilupparsi di situazioni di conflittualità e sulla capacità del sistema politico amministrativo di creare consenso intorno ad un progetto considerato di pubblica utilità.

Paradossalmente, e venendo quindi al terzo e ultimo punto, gli oppositori hanno più volte dimostrato di sapere affrontare queste situazioni di conflittualità in maniera più efficace e incisiva. Hanno imparato come mobilitare risorse locali, mettersi in rete, apparire sui media, provocare situazioni di impasse anche gravi e a volte eccessive, utilizzare strumenti giuridici a loro disposizione (ad esempio, i ricorsi alla magistratura), procurarsi informazioni scientifiche autorevoli, ma in contrasto con quelle dei proponenti, ecc.

Il moltiplicarsi di comitati locali contro la realizzazione di opere pubbliche e private è un fenomeno abbastanza recente e se in un primo momento le loro posizioni erano basate su un approccio spontaneistico e su un netto rifiuto al dialogo con i proponenti successivamente hanno dimostrato di sapersi ben organizzare e sedersi a un tavolo negoziale con un approccio propositivo. Ciò è sicuramente indice di una crescita culturale e relazionale sviluppatasi dal basso.

La loro azione in alcuni casi ha avuto successo in altri no. Le risorse messe in campo risultano ancora abbastanza squilibrate a loro sfavore e d’altro canto non sempre le loro motivazioni sono difendibili e in alcuni casi possono rappresentare strumentalizzazioni di parte a fini politici. Sta il fatto che si ha la percezione che tali soggetti riescano ad affrontare meglio la situazione e a costruire intorno a loro un maggiore consenso anche con la complicità dei mass media che spesso si rendono colpevoli di una cattiva informazione o addirittura di una non informazione che può avere ripercussioni negative non solo sugli interessi di una parte, ma sull’interesse generale di tutte le parti in causa.

Le mobilitazioni popolari che sono alla base dei conflitti ambientali presentano sia dei pregi che dei difetti. Secondo alcuni rappresentano un indice di vivacità, libertà di pensiero, senso civico, educazione ambientale, favoriscono il confronto, mettono a disposizione competenze e soluzioni alternative e creative. In sintesi, costituiscono un indicatore di democrazia di una società complessa. Ma d’altro canto possono rappresentare anche delle forti criticità come creare delle impasse decisionali con costi sociali elevati oppure ridurre la disponibilità di investitori pubblici e privati a effettuare investimenti i cui costi economici potrebbero diventare sconvenienti. In sintesi, potrebbero pregiudicare lo sviluppo di un territorio.

In conclusione, proponenti, amministratori e oppositori rappresentano gli attori principali che mandano in scena i conflitti ambientali e che perseguono obiettivi e interessi diversi, ma che oggi più del passato sono costretti a parlarsi tra di loro e trovare soluzioni condivise e vantaggiose per tutti. I processi decisionali inclusivi di concertazione, partecipazione e dialogo, spesso indicati come da perseguire ormai anche in numerosi testi normativi, rappresentano una delle innovazioni istituzionali e amministrative più significative degli ultimi anni. La pubblica amministrazione è quindi chiamata a svolgere un nuovo ruolo non più di ente sopra le parti, che per definizione segue l’interesse collettivo e decide cos’è meglio per tutti, ma come un attore tra altri attori con un compito di promozione, stimolo, facilitazione, coordinamento e mediazione nell’ambito di un processo decisionale pubblico in cui tutte le parti si confrontano.

Per svolgere meglio questo nuovo ruolo, la pubblica amministrazione ha la necessità di mettere in campo strumenti e strutture nuove. Le iniziative in questo senso tendono oggi a moltiplicarsi. Indagini, linee guida, manuali, forum, concorsi sono solo alcuni degli esempi che vanno nella direzione di valorizzare le competenze, conoscenze ed esperienze nel campo delle politiche inclusive e di prevenzione dei conflitti ambientali. A questi si devono aggiungere numerose sperimentazioni, progetti pilota e casi concreti di buone pratiche a diversi livelli e che sempre più si prevede si affermeranno nel contesto italiano.

 

 

Bibliografia

 

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