Situazioni di conflittualità ambientale sono
ormai all’ordine del giorno nel nostro
paese. Si tratti di localizzazione di
impianti per lo smaltimento dei rifiuti o di
produzione di energia, di costruzione di
infrastrutture di trasporto e viabilità, di
elaborazione di piani e programmi di
riqualificazione e sviluppo urbano o ancora
di tutela del paesaggio, le opposizioni
locali fanno sentire sempre di più la loro
voce organizzandosi in maniera strutturata e
creando situazioni di impasse nei processi
decisionali con elevati riflessi in termini
di efficacia ed efficienza delle politiche
pubbliche.
In assenza di un’indagine strutturata e
approfondita, ma in base all’esperienza di
ricerca, osservazione e intervento
dell’Osservatorio gestione conflitti
ambientali e territoriali, è possibile
affermare che i conflitti ambientali tendono
a svilupparsi in diversi ambiti e ad avere
differenti cause.
Gli ambiti in cui sorgono in maniera più
ricorrente sono la gestione dei rifiuti, la
produzione di energia, la realizzazione di
infrastrutture per la viabilità e il
trasporto. Ma ormai anche altri ambiti sono
investiti sempre di più da queste situazioni
come ad esempio le aree protette, le
telecomunicazioni, la sicurezza alimentare e
così via, tanto da poter sostenere che ogni
qualvolta ci si trovi davanti alla
realizzazione di una qualsiasi opera, anche
se di pubblica utilità, scatta sempre la
cosiddetta sindrome nimby (not in
backyard) secondo cui la comunità
residente vicino al luogo dove l’opera deve
essere realizzata si oppone in maniera
radicale chiedendo il cambio o addirittura
il ritiro del progetto.
Tanto per citare alcuni esempi eclatanti e
che ben testimoniano quanto appena affermato
basti ricordare il caso del deposito
nazionale per i rifiuti nucleari a Scanzano
Jonico, il termoutilizzatore di Acerra,
l’aeroporto di Malpensa 2000, il ponte sullo
Stretto di Messina. Ma esistono anche tanti
casi di conflitto che riguardano la
riqualificazione di spazi urbani, la
localizzazione di centrali elettriche o di
parchi eolici, gli interventi sulle aree
costiere.
La casistica dei conflitti ambientali in
Italia è ormai molto ampia e permette di
fare alcune considerazioni circa le cause e
i fattori scatenanti in base ai differenti
attori che entrano in gioco. In particolare,
dalle analisi di caso svolte
dall’Osservatorio emergono alcune
considerazioni riconducibili alle tre
tipologie di attori che abitualmente entrano
in gioco (proponenti, pubblica
amministrazione e oppositori) e che sono:
- le strategie dei proponenti i progetti
contro i quali spesso le popolazioni locali
si oppongono;
- la scarsa capacità della pubblica
amministrazione di gestire situazioni di
dialogo e confronto;
- le accresciute capacità da parte degli
oppositori di mobilitarsi e intervenire nel
processo decisionale e attuativo.
Quindi spesso uno dei fattori scatenanti
risiede proprio nella strategia (o la non
strategia) adottata dai proponenti.
L’approccio classico che guida costoro verso
la realizzazione dei loro progetti è quello
noto con l’acronimo decide-announce-defend
(Dad) in base al quale una volta progettato
l’intervento e avuto tutte le necessarie
autorizzazioni amministrative lo si presenta
al pubblico e lo si difende davanti agli
eventuali (ma ormai immancabili) oppositori
adducendo giustificazioni sostanzialmente di
natura tecnico-scientifica.
Spesso questa strategia può avere un buon
esito per i proponenti, ma i costi e i tempi
di realizzazione dei progetti tendono
inevitabilmente a elevarsi tanto da far
pensare che forse altri approcci possano
essere più vantaggiosi anche per gli stessi
proponenti. Si tratta quindi di considerare
percorsi alternativi che mirino a prevenire
le possibili opposizioni locali
individuandole e includendole fin dalle fasi
iniziali nel processo decisionale. Stiamo
parlando di un approccio decisionale
alternativo ancora troppo poco utilizzato
dai decisori privati e pubblici e che si
basa sostanzialmente sul coinvolgimento
preventivo di tutti gli attori interessati
ad un determinato progetto o politica.
Tale approccio alternativo, noto con
l’acronimo alternative dispute resolution
(Adr), ha un carattere preventivo,
informale, volontario, ma allo stesso tempo
implica una formalizzazione della decisione
presa al termine del processo. Rispetto al
Dad, l’Adr presenta anche molti vantaggi in
termini di efficacia, efficienza, stabilità
ed equità del processo decisionale. Tali
vantaggi sono riconducibili al fatto che il
coinvolgimento preventivo degli attori fin
dalle prime fasi del processo decisionale
tende a favorire una loro maggiore
responsabilizzazione e quindi un loro
maggiore impegno nei confronti di una
decisione che anche loro hanno contribuito a
costruire.
Ciò detto, c’è da chiedersi perché i
proponenti non utilizzino tale approccio
come prima alternativa, ma vi fanno ricorso
solo quando il conflitto è esploso e, una
volta diventato ingestibile, devono aprire
una negoziazione. Alcune risposte possono
essere che in passato l’approccio Dad ha
funzionato abbastanza bene grazie anche ad
una scarsa sensibilizzazione e informazione
ambientale del cittadino, oppure che i
proponenti hanno tradizionalmente una bassa
cultura della negoziazione e tendono ad
affidarsi più a criteri tecnico-giuridici, o
ancora che i proponenti hanno un’imperfetta
conoscenza del contesto in cui intendono
agire e degli attori che vi sono presenti.
Tali risposte mostrano che spesso il
proponente non ha una strategia di
comunicazione ben definita e che spesso
tende ad affidarsi a strategie improvvisate
(o a non strategie).
Il discorso circa l’approccio alternativo
Adr e il coinvolgimento attivo di attori
altri, oltre quelli classici, nei processi
decisionali ci porta ad affrontare il
secondo argomento individuato e cioè le
competenze e le capacità della pubblica
amministrazione a gestire il dialogo e il
confronto con i vari portatori di interesse
e quindi a perseguire politiche di tipo
inclusivo.
Ormai questo tipo di politiche è favorito
ampiamente dalla legge. Dai programmi
comunitari fino ai piani sociali di zona,
passando per la programmazione negoziata, il
coinvolgimento, seppur a diversi livelli,
degli attori locali è sempre presente. Ma
per stessa ammissione di molti pubblici
amministratori, gli enti locali tendono a
trovarsi in seria difficoltà davanti alla
necessità o alla volontà di organizzare in
maniera strutturata percorsi di
coinvolgimento del pubblico. Mancano
risorse, competenze, strumenti e luoghi.
La gestione di processi inclusivi richiede
competenze di natura comunicativa,
relazionale, organizzativa, gestionale,
strategica, di costruzione delle reti, di
gestione dei gruppi di lavoro e conduzione
di tavoli di negoziazione che spesso sono
assenti nella struttura
burocratico-amministrativa degli enti
pubblici. Inoltre, questioni importanti
devono essere affrontate come a che punto
del processo bisogna coinvolgere gli attori,
quali attori, in che modo bisogna
coinvolgerli, come e quanto bisogna prendere
in considerazione le loro istanze, come
ratificare gli accordi e così via.
Nonostante tali approcci tendano ad
affermarsi sempre di più nel contesto
italiano, sembra ancora mancare una
conoscenza approfondita ed un utilizzo
appropriato degli strumenti che la pubblica
amministrazione deve mettere in campo.
D’altra parte, il volere perseguire tali
approcci inclusivi non mette assolutamente
al riparo la pubblica amministrazione dal
verificarsi di casi di conflitto ambientale.
Le incognite non sono comunque ineliminabili
e i rischi potrebbero anche essere maggiori
data la superiore complessità dei processi
decisionali allargati e inclusivi.
Inoltre, si può notare una certa ambiguità
circa il ruolo della pubblica
amministrazione nell’ambito di casi
conflitto ambientale. Osserviamo casi,
infatti, in cui la pubblica amministrazione
è il proponente, in altri l’oppositore e in
altri ancora è chiamata a svolgere un ruolo
di mediatore di fatto in mancanza di
mediatori ambientali di professione. Ancora,
all’interno di una stessa struttura
amministrativa pubblica si possono
identificare posizioni e interessi
differenti da parte di organi e settori
diversi.
Il ruolo, quindi, della pubblica
amministrazione non sempre appare chiaro e
ciò inevitabilmente influisce sulla
strategia e i comportamenti da adottare, sul
corso degli eventi che caratterizzano lo
svilupparsi di situazioni di conflittualità
e sulla capacità del sistema politico
amministrativo di creare consenso intorno ad
un progetto considerato di pubblica utilità.
Paradossalmente, e venendo quindi al terzo e
ultimo punto, gli oppositori hanno più volte
dimostrato di sapere affrontare queste
situazioni di conflittualità in maniera più
efficace e incisiva. Hanno imparato come
mobilitare risorse locali, mettersi in rete,
apparire sui media, provocare situazioni di
impasse anche gravi e a volte eccessive,
utilizzare strumenti giuridici a loro
disposizione (ad esempio, i ricorsi alla
magistratura), procurarsi informazioni
scientifiche autorevoli, ma in contrasto con
quelle dei proponenti, ecc.
Il moltiplicarsi di comitati locali contro
la realizzazione di opere pubbliche e
private è un fenomeno abbastanza recente e
se in un primo momento le loro posizioni
erano basate su un approccio spontaneistico
e su un netto rifiuto al dialogo con i
proponenti successivamente hanno dimostrato
di sapersi ben organizzare e sedersi a un
tavolo negoziale con un approccio
propositivo. Ciò è sicuramente indice di una
crescita culturale e relazionale
sviluppatasi dal basso.
La loro azione in alcuni casi ha avuto
successo in altri no. Le risorse messe in
campo risultano ancora abbastanza
squilibrate a loro sfavore e d’altro canto
non sempre le loro motivazioni sono
difendibili e in alcuni casi possono
rappresentare strumentalizzazioni di parte a
fini politici. Sta il fatto che si ha la
percezione che tali soggetti riescano ad
affrontare meglio la situazione e a
costruire intorno a loro un maggiore
consenso anche con la complicità dei mass
media che spesso si rendono colpevoli di una
cattiva informazione o addirittura di una
non informazione che può avere ripercussioni
negative non solo sugli interessi di una
parte, ma sull’interesse generale di tutte
le parti in causa.
Le mobilitazioni popolari che sono alla base
dei conflitti ambientali presentano sia dei
pregi che dei difetti. Secondo alcuni
rappresentano un indice di vivacità, libertà
di pensiero, senso civico, educazione
ambientale, favoriscono il confronto,
mettono a disposizione competenze e
soluzioni alternative e creative. In
sintesi, costituiscono un indicatore di
democrazia di una società complessa. Ma
d’altro canto possono rappresentare anche
delle forti criticità come creare delle
impasse decisionali con costi sociali
elevati oppure ridurre la disponibilità di
investitori pubblici e privati a effettuare
investimenti i cui costi economici
potrebbero diventare sconvenienti. In
sintesi, potrebbero pregiudicare lo sviluppo
di un territorio.
In conclusione, proponenti, amministratori e
oppositori rappresentano gli attori
principali che mandano in scena i conflitti
ambientali e che perseguono obiettivi e
interessi diversi, ma che oggi più del
passato sono costretti a parlarsi tra di
loro e trovare soluzioni condivise e
vantaggiose per tutti. I processi
decisionali inclusivi di concertazione,
partecipazione e dialogo, spesso indicati
come da perseguire ormai anche in numerosi
testi normativi, rappresentano una delle
innovazioni istituzionali e amministrative
più significative degli ultimi anni. La
pubblica amministrazione è quindi chiamata a
svolgere un nuovo ruolo non più di ente
sopra le parti, che per definizione segue
l’interesse collettivo e decide cos’è meglio
per tutti, ma come un attore tra altri
attori con un compito di promozione,
stimolo, facilitazione, coordinamento e
mediazione nell’ambito di un processo
decisionale pubblico in cui tutte le parti
si confrontano.
Per svolgere meglio questo nuovo ruolo, la
pubblica amministrazione ha la necessità di
mettere in campo strumenti e strutture
nuove. Le iniziative in questo senso tendono
oggi a moltiplicarsi. Indagini, linee guida,
manuali, forum, concorsi sono solo alcuni
degli esempi che vanno nella direzione di
valorizzare le competenze, conoscenze ed
esperienze nel campo delle politiche
inclusive e di prevenzione dei conflitti
ambientali. A questi si devono aggiungere
numerose sperimentazioni, progetti pilota e
casi concreti di buone pratiche a diversi
livelli e che sempre più si prevede si
affermeranno nel contesto italiano.
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