Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sui conflitti ambientali. Come prevenirli, come gestirli


Francesco Karrer


 

L'insorgenza di conflitti ambientali può essere affrontata impiegando risorse aggiuntive in funzione compensativa, in un rapporto negoziale da instaurare fra le parti in gioco. Nelle decisioni localizzative permane una sostanziale impronta autoritativa, in controtendenza con gli orientamenti internazionali. Francesco Karrer, partendo dalle esperienze europee più avanzate, ipotizza un percorso metodologico basato su procedure partecipative da esplicitarsi in sedi istituzionali di accompagnamento e indirizzamento delle scelte di assetto territoriale

 

 

Considerazioni ulteriori sulle tesi discusse nella 2ª Conferenza nazionale del Territorio (Caserta, 12-13-14/6/2004)

 

È convincimento molto diffuso, tra gli studiosi di conflitti ambientali1, che sempre più spesso e con crescente intensità vengono suscitati da decisioni inerenti la localizzazione di attività e opere pubbliche e/o di pubblico interesse, che gli stessi conflitti possano essere ridotti significativamente e ben risolti quando insorgono, solo tramite la negoziazione delle politiche che generano quelle decisioni contestate e la possibilità di impiegare risorse aggiuntive in funzione compensativa di impatti (sociali, ambientali, economici e urbanistico-territoriali), comunque di esternalità negative, e come accompagnamento della realizzazione delle opere. Questa ultima strada è stata tentata con la legge 166/2002 che prevedeva un fondo ad hoc, ma le carenze di risorse hanno per ora reso ineffettuale tale previsione.

E ciò anche – per quanto possa apparire singolare – per quello che riguarda i conflitti interistituzionali. Quelli cioè che vedono coinvolti soggetti istituzionali: lo Stato, le regioni, le province quando competenti, le città metropolitane (previste, ma di fatto ancora non istituite) e i comuni.

La dimensione del conflitto può variare in ordine alle caratteristiche dell’ambiente interessato, in ordine cioè al rilievo della componente sociale, ai suoi valori di naturalità o economici e alla natura delle attività e opere da localizzare, spesso indipendentemente anche dalla entità degli impatti negativi (diretti o indiretti).

Il presupposto della negoziazione è ovviamente che le decisioni vengano prese per mezzo di politiche esplicite, come tali ben definite per quanto riguarda obiettivi, strumenti, risorse e responsabilità. E subito dopo che esistano istituti e sedi per poter operare la negoziazione2. Come noto in Italia il problema di tale conflittualità interistituzionale, che era latente da tempo, si è manifestato con evidenza con la nascita delle regioni a statuto ordinario e la attribuzione loro di poteri in materia urbanistica. Si deve risalire al 1971-1972.

Ma è solo nel 1977, con l’emanazione del Dpr 616/1977 artt. 81 e 82 soprattutto, che la materia ha avuto una più compiuta definizione, con la introduzione della procedura di conformazione delle opere ai piani urbanistici comunali, di concerto con le regioni interessate. Procedura successivamente integrata (Dpr 383/1994, Regolamento recante disciplina dei procedimenti di localizzazione delle opere statali), previa l’introduzione dell’intesa Stato-Regione da realizzarsi per mezzo della conferenza dei servizi, istituto anch’esso nel frattempo introdotto nell’ordinamento e più volte modificato.

Facevano eccezione solo le opere delle Ferrovie dello Stato: la legge istitutiva dell’ente Fs (legge 210/1985) aveva infatti invertito il rapporto proponente autorità territoriali, mettendo al primo posto i comuni e, in posizione secondaria, le regioni. L’intento del legislatore, certamente condivisibile in astratto, era quello di aumentare il potere contrattuale dei comuni, in specie dei piccoli, e così migliorare la loro partecipazione nei processi decisionali e quindi l’esercizio della democrazia.

Di fatto però diventava praticamente impossibile progettare un tracciato, operazione già di per sé complicata tenuto conto dei vincoli morfologici tipici del territorio nazionale e di quelli tecnici propri delle opere ferroviarie, molto rigidi come noto, dovendolo negoziare con ogni comune interessato da una linea ferroviaria.

Con una legge successiva – resasi necessaria dopo l’iniziale esperienza di negoziazione dei progetti di rete ad alta velocità/capacità che è risultata molto onerosa per l’ente Fs e quindi per la collettività nazionale – le opere ferroviarie sono rientrate nell’ambito della procedura generale.

Il bilancio dell’applicazione del Dpr 616/1977 e del successivo Dpr 383/1994 è stato, tutto sommato, abbastanza positivo. Pochi sono stati infatti i casi di ricorso ai poteri sostitutivi della Presidenza del Consiglio dei ministri, istituto previsto in caso di contrasto con le regioni.

Le criticità maggiori si sono riscontrate quando i conflitti o direttamente il contenuto delle decisioni riguardava la materia dell’ambiente. Le direttive comunitarie in genere e quelle inerenti le procedure di valutazione d’impatto ambientale in particolare, nel frattempo intervenute (Ce 85/337), avevano infatti introdotto, seppure in misura abbastanza debole, obblighi in materia di informazione e partecipazione del pubblico nei processi decisionali.

Ma i problemi di fondo della informazione, della comunicazione e della partecipazione del pubblico alla presa delle decisioni, rimanevano ancora abbastanza nell’ombra. E neanche la legge 241/1990 di riforma del procedimento amministrativo ha modificato significativamente la situazione. Si è di fatto continuato con il ritenere che non fosse necessario definire politiche e negoziare la loro costruzione con i vari soggetti coinvolti.

Di conseguenza neanche la predisposizione di adeguati istituti di negoziazione è stata ritenuta degna di attenzione: la possibilità del ricorso ai poteri sostitutivi della Presidenza del Consiglio dei ministri era considerata evidentemente sufficiente per dissuadere dal sollevare e, una volta esplosi, dirimere i contrasti.

In questo modo tutta la materia delle decisioni di localizzazione mantiene una sua impronta autoritativa e molto scarso è lo spazio della partecipazione del pubblico, sempre più in controtendenza rispetto alle esperienze internazionali e allo stesso diritto comunitario oltre che con il processo di decentramento dei poteri in corso anche in Italia.

È stata la configurazione d’un primo programma di opere (delibera Cipe del 21 dicembre 2001, n. 121, in applicazione della legge 443/2001, anche detta legge obiettivo), abbastanza definito, almeno rispetto alla vaghezza dei precedenti documenti analoghi (piani di settore, libri bianchi, intese Stato-regioni, ecc.), e la quasi contemporanea entrata in vigore della legge costituzionale 3/2001 a far emergere il problema, manifestatosi ad un tempo con i ricorsi alla Corte costituzionale da parte di alcune regioni contro la legge obiettivo e i decreti attuativi della stessa, ritenuta notevolmente imperativa, e con l’esplosione di forti conflitti in materia di decisioni di localizzazione delle opere previste. Il più noto dei quali è quello che riguarda il completamento dell’itinerario autostradale tirrenico.

Ma altri non meno significativi vedono contrapposti lo Stato con alcune regioni o queste ad alcuni comuni3. Oggetto di contenzioso sono infatti pressoché tutte le decisioni in materia di localizzazione di opere lineari, di centrali di produzione di energia elettrica – tanto che per queste si è dovuto predisporre un decreto ad hoc, il cosiddetto sblocca centrali – di smaltimento dei rifiuti, ecc.

Il legislatore italiano per risolvere il problema sembra confidare soprattutto nella definizione d’un assetto istituzionale chiaro ed efficace a livello generale, basato sulla attribuzione di funzioni. Dopo il tentativo fatto con la legge costituzionale 3/2001 che attribuiva le funzioni in forma esclusiva e insieme concorrente, sembra che oggi si vogliano ripartire più nettamente tali attribuzioni collocando le opere pubbliche statali nel dominio della legislazione esclusiva cioè nella competenza esclusiva dello Stato, mantenendo però anche il principio della legislazione concorrente.

Il problema non è di semplice soluzione. Neanche il concetto di preminente interesse nazionale sembra infatti poter giustificare una piuttosto forte attenuazione del potere regionale sul proprio territorio.

Tutto ciò porta a credere che neanche questa, da sola, potrà essere la strada che farà ridurre i conflitti in ordine alle decisioni di localizzazione e quindi aumentare la funzionalità delle stesse.

Il problema già di per sé complicato quando si tratta di un’opera pubblica che potremmo definire classica, lo diviene ancora di più quando l’opera viene realizzata in project financing nelle varie forme possibili.

 

È accettabile che chi decide della localizzazione di un’opera sia deresponsabilizzato nei confronti del problema del finanziamento della stessa? E viceversa chi finanzia può non occuparsi anche del territorio che genera la domanda che giustifica l’opera e, nel caso di separatezza tra domanda e opera, ne subisce gli effetti negativi senza i vantaggi?

E quando, appunto, un’opera ha bisogno del pedaggio come nel caso di strade, come si può svincolare decisione di localizzazione dell’opera e localizzazione della domanda, anche nella sua articolazione geografica (locale/globale) e non solo tipologica (traffico pesante/leggero)?

Le leve per risolvere il problema nel modo più efficace, come anticipato in premessa, sembrano essere due: senz’altro la negoziazione delle politiche e almeno, per alcuni aspetti, anche dei progetti delle opere – la sola concertazione di ordine generale non sembra sufficiente infatti – e la predisposizione di sedi istituzionali ove discutere, partecipare e dirimere i conflitti. Sia l’una che l’altra dovrebbero poter utilizzare strumenti compensativi e redistributivi, in accompagnamento delle politiche e soprattutto delle realizzazioni.

Un’ipotesi che viene ogni tanto riproposta per risolvere il problema della partecipazione, ma in fase finale del processo di presa della decisione, è quella di introdurre l’istituto della inchiesta pubblica, sulla scorta dell’esperienza della Gran Bretagna, della Francia e soprattutto del Canada.

Il modello di inchiesta pubblica in vigore in Canada, molto pesante sotto il profilo procedurale e organizzativo anche per quanto riguarda i costi di gestione, è guardato anche dalla Francia come modello4.

In questo modo si avrebbe, forse, un miglioramento a valle del processo decisionale, ma rimarrebbero da risolvere tutti i problemi di negoziazione della decisione all’inizio del processo. Non va sottovalutato il fatto poi che l’efficacia dell’inchiesta pubblica nei paesi francofoni soprattutto, oltre che all’efficacia dell’istituto in sé, dipende dal fatto che tale istituto incorpora anche la dichiarazione di pubblica utilità, quindi l’espropriazione per pubblica utilità. Nella forma più evoluta – quella attualmente in vigore in Francia – all’inchiesta pubblica è associata anche l’autorizzazione ambientale5. Ma le insoddisfazioni per tale istituto sono così tante che anche in questo paese è da tempo in corso un processo di riforma ancora non del tutto compiuto.

 

Proprio questa esperienza rafforza il dubbio di chi scrive che né sul piano delle attribuzioni di competenze né su quello degli strumenti quali, ad esempio la conferenza dei servizi o l’inchiesta pubblica, si potrà trovare una soluzione realmente efficace.

La soluzione dovrebbe essere trovata operando sia a livello della negoziazione delle politiche che degli strumenti di compensazione redistributiva e di partecipazione.

Relativamente a questi ultimi va segnalato un certo ritardo in Italia – cosa che conferma la tradizione italiana di scarsa sensibilità non solo in generale per il problema, ma anche per quanto riguarda le conseguenze della Convenzione di Aarhus del 1998 siglata anche dall’Italia, sulla partecipazione del pubblico nella presa delle decisioni e della prossima introduzione nel nostro diritto della direttiva Ce 2001/42 relativa alla valutazione ambientale strategica (Vas) di piani e programmi, della direttiva Ce 2003/35 del Parlamento europeo e quella del Consiglio europeo del 26 maggio 2003 prevedente la partecipazione del pubblico all’atto dell’elaborazione di piani e programmi relativi all’ambiente, modificanti, per quanto riguarda la partecipazione del pubblico e l’accesso alla giustizia, le direttive 85/337 Cee (VIA) e 96/61 Ce del Consiglio.

In questo modo dopo il principio di prevenzione che ispirava la procedura di valutazione di impatto ambientale (Via) fa ingresso nell’ordinamento anche quello di precauzione6.

Per quanto riguarda la progettazione degli strumenti relativi alla informazione e partecipazione un utile punto di riflessione è costituito dalla recente introduzione nell’ordinamento francese, della Commission national du débat public7, con la quale viene recepita anche la Convenzione di Aarhus del 1998, negoziata sotto gli auspici dell’Onu e siglata da 35 paesi tra i quali 15 dell’Ue (ovviamente prima dell’allargamento a 25) e dalla Ce stessa.

Si tratta d’un ulteriore tassello nel percorso che al riguardo la Francia ha intrapreso: a partire da testi informali (il protocollo Stato-Edf dell’agosto 1992 sull’inserimento nel territorio delle linee elettriche) e successivamente sempre più formalizzati (la circolare Bianco del 15 dicembre 1992 sulla conduzione dei grandi progetti nazionali di infrastrutture; la circolare del 14 gennaio 1993 sui progetti di opere elettriche, detta circolare Billardon; la legge del 2 febbraio 1995; la legge Barnier, relativa alle grandi opere pubbliche; la carta di concertazione proposta dal Ministero dell’ambiente del 10 luglio 1996, quindi la legge relativa al rafforzamento della protezione della natura di modifica della originaria legge del 1976, completata con la legge del 27 febbraio 2002 relativa alla democrazia di prossimità)8.

Malgrado questa ricca serie di atti generali e per specifiche tipologie di opere e in qualche caso anche di ambienti – il caso ad esempio della enquête Bocherau prevista dalla legge sul litorale – si è ritenuto di dover ulteriormente intervenire per rendere maggiormente più funzionale ed efficace il processo di informazione e di partecipazione del pubblico, quindi più certa la decisione.

La istituzione della Commission national du débat public è appunto la risposta all’esigenza9 di coinvolgere maggiormente il pubblico nelle decisioni, unilateralmente prese dall’autorità amministrativa, superando i limiti della stessa inchiesta pubblica la cui posizione è ritenuta troppo a valle del processo decisionale, anche se ad essa partecipa il pubblico.

Oltre la questione della posizione dell’inchiesta pubblica nel processo decisionale e dello stesso grado di definizione dei progetti assoggettati a tale procedura – di solito definitivi, quindi scarsamente negoziabili nei contenuti e nelle soluzioni tecniche adottate, l’introduzione di tale Commission mostra in realtà due problemi: il primo, quello di una progressiva sfiducia del pubblico nei confronti della qualità delle decisioni prese dalle autorità amministrative o se si vuole l’incapacità di queste a rassicurare il pubblico sul portato di tali decisioni; il secondo, il venir meno della intrinsecità della pubblica utilità. Questo appare davvero uno dei principali problemi della odierna presa delle decisioni pubbliche: la pubblica utilità non appare più fisiologicamente incorporata nelle opere pubbliche, bensì deve essere dimostrata, di volta in volta, in sostanza progettata. Questa nuova condizione è all’origine delle tendenze delle società mature a comportamenti di rifiuto per le trasformazioni dello status quo, che comunque comportano rischi che egoisticamente non si vogliono e/o si ha paura di correre. Da qui le difficoltà che si incontrano nel fare accettare le decisioni.

I motivi della introduzione della Commission sono molteplici e non tutti espliciti.

Alla rinfusa: aspirazione a dare risposta alle esigenze di partecipazione del pubblico; rafforzare la legittimità e la qualità delle decisioni, in ispecie quelle maggiormente contrastate; entrare in sintonia con la convenzione di Aarhus e le direttive europee in materia sempre di partecipazione; sensibilizzare il pubblico ai problemi dell’ambiente ottenendo, nello stesso tempo, il suo sostegno alle decisioni prese.

Naturalmente tra i motivi si devono annoverare anche quelli relativi alla evoluzione delle regole del diritto, e alla stessa percezione di tale evoluzione – il diritto appare sempre meno come un dogma e sempre più come prodotto di rete10 – e della valutazione che associa gli interessi quanto a monte che a valle della decisione.

La Commission, autorità amministrativa indipendente, decide quali progetti (tra quelli autostradali, stradali, ferroviari a grande velocità, aeroporti, linee elettriche, porti, gasdotti, oleodotti, installazioni nucleari di base, dighe, attrezzature culturali, sportive, scientifiche, turistiche o industriali), sottoporre a dibattito e quindi lo gestisce. Tale compito è esclusivo.

 

La Commission può essere adita da dieci parlamentari, da un consiglio regionale, da un consiglio generale, da un consiglio comunale o da un organismo pubblico di cooperazione intercomunale con competenza di pianificazione e gestione territoriale, da una associazione ambientalista accreditata operante su tutto il territorio nazionale, dal promotore dell’opera o dal responsabile del progetto.

L’ammissione d’un progetto al dibattito dipende dalla rilevanza dell’interesse nazionale, dall’incidenza territoriale, dalle poste sociali ed economiche attese, dall’impatto sull’ambiente o sul territorio. Può così risultare che anche progetti apparentemente minori e/o locali, rivestano una importanza strategica tale per cui la loro salienza è molto elevata. Tra i motivi di inammissibilità vi sono quelli formali: il caso di un progetto già sottoposto ad una analoga procedura.

Ammissione e rifiuto sono suscettibili di controllo giurisdizionale (previo ricorso al Consiglio di Stato per eccesso di potere).

Tra la decisione d’ammissione e lo svolgimento del dibattito, compito della Commission è anche quello di organizzare il dibattito stesso. Problema certamente centrale.

La Commission ha due possibilità:

a) organizzarlo in proprio, dando la responsabilità ad un commissario e indicando i partecipanti, di solito alti funzionari ministeriali di riconosciuta competenza sia nel campo delle realizzazioni che della comunicazione. A volte partecipano anche professionisti esperti (agricoltori) o responsabili di associazioni di categoria. Mai persone collegate con il promotore o il responsabile del progetto;

b) delegando il promotore o il responsabile del progetto. Anche in questo secondo caso, che ovviamente può creare qualche difficoltà – è il solito ben noto problema che si incontra tutte le volte che è il proponente a fornire informazioni, valutazioni, ecc. come nel caso degli studi di impatto ambientale – non viene meno la responsabilità della Commission circa la qualità del dossier sottoposto al dibattito, il suo svolgimento, ecc.

Le modalità di svolgimento del dibattito sono decise dalla Commission d’intesa con il proponente, tenuto conto che né la legge né il regolamento le hanno definite rigorosamente, ivi compresa la questione della durata,implicitamente fissata dalla Commission per mezzo della fissazione del calendario dei lavori, delle forme di pubblicità, dei luoghi ove si svolgeranno, delle modalità di consultazione dei documenti, di presentazione degli stessi, delle osservazioni, ecc.

Complessivamente il riferimento culturale e metodologico della Commission è rappresentato dalla Convenzione di Aarhus.

I critici osservano che in questo modo interagiscono norme internazionali, europee, nazionali e locali e si dà inevitabilmente luogo ad un sistema interattivo complesso e instabile.

Il dibattito si svolge in due fasi: la prima, dedicata all’informazione in modo che tutti dispongano delle stesse conoscenze. Vengono redatte sintesi (del tipo di quelle in uso nelle procedure di Via), nonché altri documenti quali la lettera del dibattito che illustra l’andamento dello stesso e la sua evoluzione, il quaderno degli attori nel quale sono riportate le opinioni degli organismi consultati o degli expertises richiesti.

Per la pubblicità si può fare ricorso ai sistemi di comunicazione informatici e ai media in generale.

Alla fine della prima fase possono essere presentate domande, opinioni, osservazioni.

La seconda fase è quella della dialettica, che si svolge tra il pubblico e il responsabile del progetto.

In realtà è sulla base delle questioni annotate alla fine della prima fase che la Commission individua i temi oggetto delle riunioni pubbliche, invita il proponente a rispondere e, se del caso, a chiedere il parere di esperti.

È evidente il superamento dei limiti dell’inchiesta pubblica. Il confronto è effettivo, l’ampiezza della partecipazione molto più ampia anche grazie all’uso dei sistemi di comunicazione informatici, dei media, ecc.

Lo stesso dossier alla base del confronto è più dinamico, aperto e flessibile, contrariamente a quello, molto rigido, dell’inchiesta pubblica. Ciò consente d’investigare anche su altri problemi non direttamente implicati dall’intervento, ma utili per il raggiungimento del consenso e per la migliore comprensione dei problemi sociali, ambientali e altro da parte di proponenti, promotori e progettisti.

Come vengono tenuti in conto i risultati del dibattito?

Si tratta di una semplice considerazione, più o meno attenta o si configura addirittura la condizione di co-decisione?

Né la convenzione di Aarhus né la direttiva Ce detta piani e programmi, aiutano a sciogliere il dilemma, tanto sono ambigue le formulazioni (e neanche stabili nel tempo: si riscontra infatti una forte disparità tra i testi di questi documenti nella loro evoluzione).

La Francia sembra aver risolto il problema ritenendo sufficiente, nel presunto rispetto del quadro internazionale sopra richiamato, la partecipazione al solo scopo di “organizzare le condizioni d’una capacità eventuale d’influenza”.

Lo scopo della partecipazione è pertanto soprattutto quello di far prendere una decisione avendo sottomesso il progetto alla prova della trasparenza, del contraddittorio e dello scambio pubblico. Di conseguenza ai partecipanti al dibattito non è conferito alcun potere decisionale.

Il bilanciamento dei poteri tra quelli del responsabile della decisione e quelli del pubblico, è giocato tutto nella procedura del dibattito, dalla sua preparazione alla conclusione sino al rendiconto – redatto dalla Commission entro due mesi dal termine del dibattito – pubblicato e trasmesso al responsabile del progetto. Il centro del resoconto riguarda la maniera nella quale è stata condotta la partecipazione, la sincerità del dibattito, la completezza delle informazioni.

In questo modo si vuole responsabilizzare soprattutto il proponente, il quale – entro tre mesi dalla conclusione del dibattito – deve decidere del principio e delle condizioni del proseguimento del progetto.

Il dibattito e quanto emerso nel suo svolgimento, confluiscono comunque nel processo decisionale a livello dell’inchiesta pubblica. Per di più il commissario inquirente o la commissione d’inchiesta dispongono così sia del rendiconto che del bilancio del dibattito per mezzo del promotore; il tutto integra il dossier dell’inchiesta pubblica.

Un caso tra i più recenti sottoposto alla Commissione del quale anche la grande stampa ha dato notizia è quello del progetto di ampliamento del porto di Marsiglia11.

Il progetto Fos-2XL prevede il raddoppio della quantità di contenitori movimentabili (da 700.000 a 1.500.000 per anno, unica chance perché il porto non venga marginalizzato nei confronti di Valencia e Genova che hanno notevolmente accresciuto la loro capacità). Ne consegue un aumento di banchine (90 ha), la realizzazione di nuove attrezzature di banchina, ecc.

Due sono i comuni coinvolti direttamente: Fos sur Mer e Port Saint Louis du Rhône a ovest di Marsiglia. L’ampliamento del porto comporterà un aumento dei traffici fluviali (lungo il Rodano), ferroviari e stradali.

La rete di tali infrastrutture è capace di sopportare tale aumento? Contemporaneamente è ipotizzabile uno split modale più favorevole al trasporto ferroviario e a quello fluviale, riducendo così quello stradale?

Queste le domande di fondo, alle quali dare risposta in una serie di 6-7 incontri pubblici, ai quali partecipano, oltre il proponente Porto autonomo di Marsiglia, rappresentanti delle istituzioni, operatori dei vari settori coinvolti e pubblico (per lo più costituito da associazioni e comitati).

Entro il 24 giugno 2004 (la prima assemblea si è tenuta il 1° giugno 2004), il presidente dell’assemblea, che è il vice presidente della Commissione nazionale di dibattito pubblico, dovrà rendere il suo rapporto.

È prevedibile che oltre alle risposte puntuali ai problemi sollevati – prevalentemente quelli sopra richiamati – il rapporto tratterà del tema delle questioni generali d’aménagement del territorio che vanno di gran lunga oltre il porto stesso.

Maggiori questioni sembrano essere quelle sollevate dal progetto di realizzazione d’un inceneritore di rifiuti urbani prodotti dalla comunità urbana di Marsiglia, sempre nell’area portuale, da parte della società Suez.

I rappresentanti delle amministrazioni dell’ovest della Provenza sospettano che la società abbia in programma la realizzazione d’un’altra installazione simile.

Compito della Commissione sarà quello di chiarire preliminarmente questo aspetto.

 

Può essere di qualche utilità per l’Italia l’introduzione d’una Commissione o qualche altro organismo simile?

Il problema italiano nella presa delle decisioni in materia di infrastrutture e di attrezzature sembra essere soprattutto quello che attiene il livello delle politiche. Solitamente poco esplicite, spesso ondivaghe. Da ciò deriva la debolezza strutturale dei progetti che ne discendono. Le politiche dovrebbero configurare progetti di sistema, ben definiti, articolati nel tempo secondo un preciso ordine di priorità, ecc.12

In tali progetti di sistema, via via meglio specificati allorché se ne definiscano gli aspetti tecnici, devono ovviamente entrare in forma esplicita e piena sia le questioni ambientali che quelle territoriali. Tali progetti dovrebbero contenere alla origine le previsioni relative alle misure di compensazione e di accompagnamento.

Qualche esperienza è stata fatta. In materia di energia ad esempio, con la riduzione del costo del kilowattore nei comuni sede di centrale di produzione: nelle negoziazioni questa misura veniva considerata – proprio perché prevista nella legge – non un obiettivo, bensì un punto di partenza. Di fatto è stata ben poco utile.

Un po’ meglio da questo punto di vista sembra che stia andando con i cosiddetti parchi eolici. Altre misure si sono tentate nel caso delle infrastrutture. In un primo momento queste misure eccedevano spesso la missione del proponente dell’opera.

Oggi si tende a farle rientrare in questo ambito. Ma la privatizzazione dei soggetti realizzatori e gestori di reti apre nuove problematiche (di disponibilità sia culturale che economica soprattutto): è forte infatti la tendenza di questi soggetti a rinviare al mittente – cioè il concedente, in definitiva di nuovo lo Stato – le richieste locali.

Spesso le misure riguardano la fase di gestione/esercizio dell’opera e prendono forma di osservatori ambientali e/o laboratori ecologici13.

Sta di fatto che, anche se con un percorso certo non lineare, queste politiche si possono ritenere, allo stato, almeno abbozzate. Mancano, è vero, ancora espliciti e completi progetti di sistema e per non pochi settori. Ma è pur sempre qualcosa. Modificare una tradizione inveterata non è facile.

Rimane comunque forte l’esigenza di accreditamento dei progetti che ne discendono. Le critiche e le perplessità non attengono infatti solo la questione basilare della domanda che motiva l’intervento: è necessario, è prioritario, è ben dimensionato?

La risposta a questo interrogativo dovrebbe essere data a livello delle politiche. È quella la sede migliore infatti per definire priorità tra i settori e nei settori, dimensionare le risposte, ecc.

Ma le altre perplessità: è coerente la scelta, è opportuna la localizzazione tipologico-funzionale, è buono il progetto, è attento l’inserimento nell’ambiente, sono ben considerati gli impatti, ecc.? La risposta a questi interrogativi non può essere data che in sede di progetto. Da qui la necessità già segnalata che anche il progetto, nel modo opportuno – tutto da costruire e di certo non secondo i canoni delle conferenze di servizio attuali – sia oggetto di concertazione.

In assenza, o perlomeno nella poca determinatezza della concertazione, la creazione di un luogo neutrale ove confrontare le posizioni delle istituzioni e dei promotori/proponenti/progettisti e del pubblico può essere utile.

La Commissione (o qualcosa di simile) può giocare il ruolo non solo di accreditamento dell’intervento, tramite le informazioni e la discussione sul progetto e quindi della domanda pubblica che ne è alla base, ma anche di dimensionare gli interessi in gioco, probabilmente conflittuali. Può aiutare a svelare i punti profondi di conflitto, eliminando quelli pretestuosi.

Può cioè svolgere quel ruolo fondamentale di portare alla luce chi è interessato alla soluzione del conflitto rispetto a chi è interessato al conflitto in quanto tale.

E non è poco. Oltre naturalmente al contrario, aumentare la trasparenza della presa delle decisioni, realizzare una più significativa partecipazione del pubblico (nell’ottica di migliorare la informazione e comunicazione nonché la consultazione) dando così avvio al recepimento di quanto impongono direttive comunitarie esplicitamente rivolte a questa problematica e quelle che la implicano (ambiente, rischi naturali e tecnologici, ecc.) e alla attuazione dei principi della stessa convenzione di Aarhus siglata anche dall’Italia. Ma si ha ragione di ritenere che ciò sarà condotto all’oscuro della grandissima parte degli italiani e degli stessi addetti ai lavori, come è dimostrato dalla pressoché totale assenza di un dibattito intorno al suo recepimento.

Nel progettare tale nuovo istituto non si dovrebbe certo trascurare l’esperienza – forse più di ombre che di luci – delle tante commissioni che sono state istituite su temi ambientali, a partire da quelle storiche volute dall’allora Presidente del Consiglio, on. Cossiga, tra gli anni ’70 e ’80, con le quali si gettarono le basi delle successive istituzioni in materia di ambiente.

Spesso si tratta di commissioni che svolgono ruoli istituzionali, ma da una posizione paraistituzionale. Incidono sulle decisioni, ma non ne sono pienamente responsabili. Oppure evitano di prendere la decisione in quanto, appunto, non pienamente legittimate a prenderla.

La definizione della loro missione non è facile. Non può infatti esaurirsi in quella di ascolto di lagnanze né proporsi come mediatore, non avendo magari né le capacità né gli strumenti (e non solo tecnici).

Ma il suo ruolo è importante e necessario. Ma debbono essere pienamente responsabilizzate delle conseguenze delle decisioni. O, al contrario, debbono essere esclusivamente consultive.

Oggi, purtroppo, non sono né l’una né l’altra fattispecie. Ma il loro potere è, di fatto, rilevante. Altre parti in gioco possono infatti utilizzare i loro pareri e/o determinazioni.

Né è pensabile che studi, ricerche ed expertise più che a rassicurare decisori e opinione pubblica servano a rassicurare soprattutto questi organismi.

La ricerca della soluzione è aperta. Il tempo è però scaduto.

 

 

Note

 

1 La letteratura italiana in proposito non è molto vasta, mentre lo è quella di altri paesi, specialmente quelli anglosassoni nei quali le pratiche di negoziazione come noto sono considerate ordinarie. Di conseguenza sono molto sviluppati gli studi e le ricerche, i corsi di formazione per chi opera nelle strutture ad hoc, compresi i professionisti della contrattazione (mediator). Qualche anno fa anche l’associazione Lega Ambiente, la Regione Emilia Romagna con l’Ervet, ad esempio, avevano iniziato a interessarsi a questo problema con convegni, ai quali parteciparono anche esperti stranieri (ricordo, per tutti, Susskind), e corsi di formazione. Tra i contributi italiani più significativi si possono citare, ad esempio: Nomisma, a cura di M. Spinedi, La gestione dei conflitti locali nelle opere infrastrutturali: il caso dei trasporti, Inchiostri Associati Editori, Bologna 1999; il contributo a cura di N. Delai, Infrastrutture e consenso, Sipi Srl, Roma 1977; S. Maffettone, Le ragioni degli altri, il Saggiatore, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992; L. Bobbio, A. Zeppettella, Perché proprio qui? Grandi opere e opposizioni locali, Angeli, Milano 1999; F. Karrer Le misure di compensazione nella negoziazione dei conflitti ambientali sui progetti di infrastrutture, “Via”, n. 19/1966; R. Lewanski, Governare l’ambiente. Attori e processi della politica ambientale, Il Mulino, Bologna 1997.

Di recente si è costituita la associazione Nimby Forum per lo studio dei contenziosi in materia ambientale di cui ha dato notizia IlSole24ore del 16 settembre 2004.

2 Nelle proposte di legge per il Governo del territorio attualmente in discussione al Parlamento fa capolino l’ipotesi di istituire “sedi stabili di concertazione” con il fine di perseguire il principio dell’unità della pianificazione. Non si pensa ancora però a sedi ove portare i conflitti una volta divenuti palesi.

3 La Corte, con sentenze n. 303 e 307/3 ha iniziato a esprimersi in una fase, come noto, molto delicata della riforma costituzionale. Il percorso di trasferimento di funzioni è infatti ancora incompiuto. Da ciò il rischio per la Corte di supplire a incertezze o addirittura all’assenza di una chiara legislazione. Da qui la prudenza che contraddistingue le due sentenze. Che peraltro non rinunciano a fare chiarezza. (Cfr. il commento su tali sentenze dell’Ufficio studi legislativi della Camera dei deputati).

4 Cfr., in particolare, V. Berdoulay, O. Soubeyran, Debat public et développement durable – Experiences nord-americaines, Editions Villes et Territoires, Parigi 1996. Un aspetto particolare dell’inchiesta pubblica, ma non secondario, quale quello del costo dell’indennizzo dei commissari inquirenti, è discusso da G. Hardy, L’indemnisation des commissaires enquêteurs, “Études foncières”, n. 109/2004.

5 Nell’ambito della progettazione legislativa che ha accompagnato il recepimento delle direttive comunitarie in materia di Via e di Vas, il Parlamento italiano ha guardato soprattutto all’esperienza della Gran Bretagna.

6 Rinvio al mio contributo al Convegno indetto dalla Provincia di Padova sulla Vas del 31 marzo 2004 consultabile sul sito della Provincia - Assessorato all’Urbanistica.

7 Dapprima come modifica al codice dell’ambiente, quindi con un decreto (2002-1275 del 22 ottobre 2002) relativo all’organizzazione del dibattito pubblico e alla Commissione nazionale del dibattito pubblico.

Una sistematica sugli istituti del dibattito pubblico in Francia è fornita dal recente Le débat public. Guide méthodologique, Service d’information du Gouvernement, La documentation française, Parigi 2004.

8 Un’utile ricostruzione, articolata per campi di applicazione di queste procedure, con alla base approfondite riflessioni intorno alla efficacia/effettività delle decisioni pubbliche è contenuta in Conseil d’Etat, L’utilité publique aujord’hui, La documentation française, Parigi 1999 e A. Réocreux et D. Dron, Débat public et infrastructures des transports, La documentation française, Parigi 1996.

9 Per una prima valutazione su motivazioni, attese e problematiche si rinvia Jean-Françoise Struillon, Le droit à la partecipation, “Études foncières”, n. 104/2003, dal quale abbiamo tratto molte delle informazioni utilizzate per questo articolo. Quella di Struillon è una sorta di risposta ai quesiti sollevati da E. Le Corner in un precedente articolo apparso sempre su “Études foncières”, n. 101/2003 (L’aménagement en attente d’une démocratie de partecipation), al quale pure si rinvia.

10 Cfr. F. Ost, M. Van de Kerchove, De la pyramide au résau? Pour une théorie dialectique du droit, Bruxelles, 2002.

11 Cfr., “Monde”, sabato 12 giugno 2004.

Un resoconto di alcune prime esperienze di dibattito pubblico, e implicitamente un bilancio delle stesse, è contenuto nel volume La partecipation des usagers/clients/citoyens au service public, Guide pratique, La documentation française, Parigi 2003 nel quale tra gli strumenti della partecipazione, individuati nel numero di dieci (reclamo, mediazione, riunione di utilizzatori, comitati consultivi, standard di qualità – sorta di carta dei servizi – referendum – voto, dibattito pubblico, ricorso alla giustizia, conferenza dei cittadini), viene annoverato proprio il dibattito pubblico che si svolge presso la Commissione nazionale ad hoc istituita (Cndp, www. debat public.fr). I casi commentati sono quello dell’estensione del porto di Nizza, d’una linea elettrica a 400.000 volts, dell’aeroporto di Nantes.

12 Mi permetto di rinviare a quanto da me sostenuto al riguardo in occasione della 2ª Conferenza Nazionale del Territorio, Caserta 12-13-14 giugno 2003 (Atti in corso di pubblicazione a cura dell’Istituto nazionale di urbanistica per conto della Dicoter del Mit).

13 Si veda, tra gli altri, J. Varet, L’observation de l’environnement, “Futuribles”, n. 297/2004.

 

 

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