Mai come negli ultimi anni è stato possibile
assistere ad una molteplicità di lotte,
proteste, rivendicazioni, su base locale, di
forte opposizione delle comunità insediate
alle scelte operate, in particolare, sul
territorio del Mezzogiorno, relativamente
alla collocazione di impianti che potremmo
sinteticamente definire non desiderati.
Tali scelte, avendo a che fare con territori
e abitanti, rappresentano un campo proprio
della riflessione disciplinare dagli esiti
interessanti, soprattutto per quanto
riguarda le possibili declinazioni del ruolo
e delle responsabilità del pianificatore
all’interno di processi dalla forte valenza
politica, nei quali è più che mai
inverosimile il sedicente ruolo neutro
del tecnico esperto. Dopo una lunga fase,
infatti, nella quale è prevalso un ruolo di
sostanziale mediazione all’interno di
processi partecipativi e concertativi,
edulcorati e, assai spesso, eccessivamente
equidistanti tra istituzioni e cittadini,
sembra opportuno ripensare al ruolo del
pianificatore proprio alla luce di fenomeni
importanti come quelli legati, a vario
titolo, alle scelte localizzative
(soprattutto di impianti di trattamento di
rifiuti, ma non solo) che innescano forti
contestazioni e reazioni popolari.
L’idea è che fenomeni di questo tipo,
proprio in relazione alle forme dirompenti
che assumono, mettono fortemente a
repentaglio una certa cultura disciplinare
legittimatasi sia attraverso l’analisi e la
definizione dei processi decisionali nelle
arene pubbliche – che qui vengono
sostanzialmente ignorate – sia con
riferimento al ruolo del pianificatore come
mediatore nei conflitti e facilitatore dei
processi: elementi che, evidentemente, in
questi casi, non sono né adeguati né fertili
per fornire un qualsivoglia strumento di
comprensione teorica o di intervento
concreto. Sembra mancare, allo stato
attuale, soprattutto l’esigenza di
un’opportuna riflessione critica sulla
direzione da intraprendere, all’interno
della quale l’evidenza e la ricorsività di
tali fenomeni sottolineano, quanto mai, il
vuoto di elaborazione e di posizionamento
rispetto al rapporto tra scelte territoriali
e traiettorie di sviluppo, tra
contraddizioni sociali aperte e soluzioni
tecniche del male minore.
La principale ipotesi alla base di questo
lavoro è che l’esplosione della molteplicità
di questi conflitti debba costringere la
comunità scientifica dei pianificatori,
innanzitutto, ad un ripensamento più
profondo delle scelte (oltre che delle
procedure e dei meccanismi decisionali) alla
base delle politiche territorializzate di
sviluppo, in particolare per il Mezzogiorno1.
Rispetto a queste scelte, che provocano
forti reazioni popolari e non semplici
(quanto discutibili) effetti sul territorio
e l’ambiente nel suo complesso, non è
ammissibile, infatti, il trinceramento
all’interno di un sedicente ruolo di
esperto che non voglia tener conto e
mettere in discussione l’orizzonte economico
neoliberista che le produce e le impone e
che, soprattutto, in modo più o meno
esplicito, chiede di veicolarle senza troppe
complicazioni, intoppi e tanto meno
questioni problematiche. L’idea è che questo
può essere possibile solo se si rileggono
tali avvenimenti tenendo conto anche delle
posizioni più radicali espresse dalla
popolazione, posizioni che, invece, vengono
messe troppo sbrigativamente all’angolo come
ideologiche e preconcette, anche
perché difficilmente conciliabili in un
orizzonte di mera mediazione, mentre esse
hanno solo uno sguardo altro e, talvolta,
persino più lungo. La trattazione,
per tanto, nel proporre spunti di
riflessione a partire da alcuni dei più
recenti e (a mio avviso) significativi
avvenimenti, prova a delineare le ragioni di
un posizionamento esplicito, di parte,
del pianificatore territoriale, che deve
porsi, in maniera sistematica, l’obiettivo
di contribuire all’elaborazione concreta di
alternative territorializzate radicali
rispetto al modello economico dominante e al
connesso (ab)uso di territorio, fornendo
elementi utili ad una discussione di merito
sull’utilità collettiva e sulla condivisione
dei fini oltre che (come invece è più spesso
avvenuto) solo sulla sgradevolezza di questo
o quel impianto2 o sulla
democraticità del processo decisionale
attivato.
Territori coinvolti
Se solo si considera l’arco di tempo
compreso tra la decisione del Consiglio dei
ministri, in merito alla localizzazione del
sito unico di stoccaggio di Scansano Ionico
(novembre 2003) e la data di inizio dei
lavori nell’area del Pantano ad Acerra
(agosto 2004) per la costruzione di uno dei
più grandi inceneritori d’Europa, abbiamo
dinnanzi a noi un quadro piuttosto variegato
di territori, contesti, lotte e soggetti
coinvolti in questi processi. La miccia
esplosiva di queste contestazioni è, assai
spesso, quella di decisioni univocamente
prese dall’alto, senza alcuna forma di
legittimazione pubblica che non sia quella,
oramai piuttosto screditata o, per lo meno,
in crisi, della rappresentanza e della
delega politica. Anche le forme di lotta e
di protesta sono di uno stesso tipo: i
blocchi stradali e/o ferroviari, grandi
manifestazioni di piazza, necessariamente
(e, assai spesso, soffertamente)
bipartisan, ma anche scontri con le
forze dell’ordine e conseguenti denunce per
resistenza, oltraggio, oltre che
interruzione di pubblico servizio, che quasi
sempre azzera e ridisegna il gioco delle
parti tra chi aggredisce (i beni pubblici,
le risorse collettive, l’ambiente, ecc.) e
chi viene aggredito. I cosiddetti
passaggi istituzionali,
l’incontro/confronto con le istituzioni di
ordine superiore (quasi sempre il passaggio
dalla capitale), in negazione a qualsivoglia
principio di sussidiarietà, viene quasi
estorto all’interno della protesta stessa,
tramite un braccio di ferro di richieste
incrociate che ha davvero poco delle forme
del dialogo istituzionale, anche perché,
troppe volte, alla soggettività che esprime
il proprio dissenso non viene data – da
parte delle istituzioni – alcuna
legittimazione di interlocutore,
coerentemente con la preventiva esclusione
dal processo decisionale a monte della
stessa protesta.
In tale quadro si può osservare che, anche
come riflesso del sistema di potere politico
decisionale decentrato, è cambiata la scala
di ciascun intervento: non si tratta di
pochi casi isolati per quanto gravi e di
grandi dimensioni – come, ad esempio, nel
caso della decennale ipotesi di costruzione
del Ponte sullo Stretto di Messina – ma di
una molteplice, diffusa e, talvolta, minuta
aggressione ad un territorio sinora
spartito, svenduto e consumato, senza troppi
indugi, misteri o remore, sbandierando i
classici temi delle necessità dello
sviluppo e delle emergenze, via
via occupazionali o energetiche. Se,
infatti, l’esplosione di questa miriade di
conflitti denota un’innegabile accresciuta
consapevolezza nei confronti del valore
dell’ambiente e della salute – percepito da
parti sempre più ampie e consistenti della
popolazione disposta a mobilitarsi – essa
svela anche una sfiducia manifesta nei
confronti dei sistemi di rappresentanza ma,
soprattutto, delle scelte in merito alle
politiche di sviluppo (in particolare per il
Mezzogiorno), calate, oltretutto, dall’alto,
che perseverano nella pervicace azione di
erosione di territori per processi contorti
e a sempre minore livello di compensazione e
redistribuzione, nei singoli ambiti, di
occupazione, reddito e, ancor più, servizi.
Eppure, tutta questa complessità, non solo
non viene affrontata con gli strumenti di
analisi e di elaborazione disciplinare
adeguati, ma si finisce persino per negarla
contribuendo all’abuso di denominazioni
semplicistiche di tali processi, come ad
esempio quello della sindrome Nimby (not
in my backyard), “etichetta malevola,
che riflette il punto di vista degli
interessi pubblici (forti, nda), che
lascia intendere che le opposizioni siano
mosse dal cieco egoismo di chi non vuole un
certo impianto in casa propria ma non
muoverebbe un dito se esso fosse posto a
casa d’altri”. E, infatti, mentre esplodeva
la protesta di Montecorvino Rovella, che
stava paralizzando il traffico ferroviario
verso le vacanze estive – in opposizione, in
questo caso, alla riapertura della discarica
di Parapoti – il Presidente della Repubblica
italiana proferiva una frase che si sarebbe
potuta considerare cruciale dal punto di
vista dell’analisi delle politiche pubbliche
e che, invece, non ha suscitato nessuna
riflessione. Egli ha sostenuto, infatti, che
“non sono accettabili posizioni egoistiche
di rigetto pregiudiziale da parte di singole
comunità, di fronte a problemi come quello
dello smaltimento dei rifiuti”,
sottolineando come “estreme forme di
protesta abbiano causato gravi disagi ai
cittadini”3: questo discorso, di
fatto, traccia una linea di demarcazione tra
il diritto di viaggiare e il diritto degli
abitanti di esprimere il proprio dissenso
rispetto alle scelte politiche calate
dall’alto. Inoltre, la vera questione, ossia
l’opposizione al modello di produzione e
consumo, causa prima del moltiplicarsi senza
limiti della domanda di energia e
dell’accumulo di rifiuti, non è tenuta in
nessuna considerazione e non è posta neppure
in discussione.
Al di là del fatto nominalistico,
occorrerebbe iniziare a prendere atto che
siamo di fronte a qualcosa di diverso dalla
cosiddetta sindrome Nimby, dal
momento che, per quanto si siano volute
strumentalizzare, tali proteste hanno quasi
sempre un orizzonte più ampio di quello del
proprio cortile e, forse, proprio
questo rappresenta il principale limite alla
comprensione dei fenomeni ai quali ci si
riferisce e alle loro possibili implicazioni
pratiche e teoriche. Se è vero che si
possono utilizzare molti altri acronimi
(politicamente più corretti?) un po’ meno
schiacciati sulle posizioni di chi vorrebbe
far passare certe decisioni come necessarie
o di pubblica utilità (quali, ad esempio,
Lulu – locally unwanted land use o Nope
– not on planet earth, cfr. Bobbio,
Zeppetella, 1999), potrebbe essere, allo
stesso modo, interessante iniziare con
l’osservare che, proprio queste posizioni –
se si vuole, più utopistiche e, dunque,
quelle più difficilmente riducibili,
all’interno sia della ritualità dei processi
partecipativi sia delle logiche concertative,
di cui contribuiscono a mettere a nudo i
limiti – sono quelle in grado di aprire
fertili quanto poco esplorate direzioni di
riflessione su questioni più complesse ma
inderogabili.
La lotta di Scansano, per esempio, ha ridato
visibilità e parola ad una parte di quel
movimento contro il nucleare che, a partire
da singole battaglie, aveva poi condotto il
paese al referendum abrogativo nel 1987 e
che, oggi, invita a osservare con attenzione
quanto si sta muovendo, da parte del governo
e di certa informazione, nella direzione
opposta all’esito di quella consultazione
referendaria. Ai sostenitori del No
al sito unico di stoccaggio di scorie
nucleari, fissato per decreto dal governo, è
apparso subito evidente che la questione
rappresentava soprattutto “un banco di
prova, un inizio per testare il livello di
attenzione di una opinione pubblica creduta
erroneamente impreparata a riguardo”4
alla quale far accettare le scorie (oggi) e
la produzione (domani) come male
necessario per la crisi energetica del
paese, mediaticamente battezzata dal
blackout lungo un giorno del settembre
2003. Allo stesso modo, gli abitanti di
Acerra (ma anche quelli di tutte le realtà
della Regione Campania cui sono state
attribuite le diverse funzioni di
trattamento, compostaggio, discarica o
incenerimento), stanno portando avanti una
difficile quanto radicale opposizione
proprio contro la scelta dell’incenerimento
come opzione politica complessiva – definita
e sostenuta dal piano regionale dei rifiuti
– in favore di una opzione di riciclaggio
che miri a trasformare i comportamenti e i
sistemi di produzione, aggredendo la logica
dei profitti concentrati e della scissione
dicotomica tra territori dell’eccellenza e
territori discarica dove collocare, stipare,
distruggere, gli inevitabili rifiuti.
Eppure, dinnanzi al diniego e
all’opposizione, anche violenta, degli
abitanti di Acerra si contesta che essi non
sappiano quello che dicono, che la loro
ottusa scelleratezza sia alimentata dagli
interessi speculativi della camorra, che il
loro non voler entrare nella commissione per
la realizzazione di una tardiva valutazione
di impatto ambientale che non contempli l’opzione
zero sia una presa di posizione estrema
che non offre margini di dialogo (leggi di
compromesso), nella direzione di una
decisione già maturata come frutto
dell’accordo tra poteri politici ed
economici. Volendoli ascoltare, invece, essi
sostengono che l’impianto di
termovalorizzazione congelerà, per le sue
caratteristiche di funzionamento, qualsiasi
ipotesi di raccolta differenziata, negando,
quindi, uno dei principi base dell’analisi
di massa dei rifiuti solidi urbani
“articolata sul recupero di materia ed
energia”5, peggiorando le già non
rosee condizioni ambientali e di vivibilità
dell’area in questione proprio in quanto
area debole.
Quale pianificazione?
Nessuno dice che le soluzioni, oggi, siano
semplici ma neppure che esse possano essere
differite ad un altro tempo o alle illusioni
di una tecnologia sempre più avanzata e
pulita (oltre che ad altri ruoli e
responsabilità). Non si può non vedere,
infatti, che le scelte territoriali, da
comprendere e, possibilmente, da
indirizzare, in quanto esperti di
territorio, vanno ben al di là di un
ragionamento sulla scarsa democraticità del
processo attivato e hanno a che vedere,
invece, con gli scenari di sviluppo futuri
da delineare e prospettare proprio in quei
territori ai margini (a sud) di assi e
itinerari di eccellenza, indeboliti
dalla sommatoria di fallimentari, quanto
occasionali, opzioni di sviluppo esogeno. La
vera posta in gioco, scientemente ignorata e
sottaciuta, nonché luogo privilegiato,
quanto disertato, della riflessione
disciplinare, dovrebbe essere, infatti, la
messa in discussione esplicita delle
modalità di uso del territorio per la
produzione di capitale – prima ancora che di
diossina – rispetto alla riproduzione delle
forme di vita e di abitare, entrando
problematicamente nel merito del rapporto
tra territorio e abitanti (di oggi e di
domani).
Si tratta di sviluppare una proposta d’uso
del territorio che passi dalla profonda
quanto complessa critica agli attuali
dispositivi di (ri)produzione, consumo e
consunzione, prima che di gestione e
smaltimento del ciclo dei rifiuti.
Proposta, questa, che non può che essere
inconciliabile con i processi attualmente in
atto che tendono, invece, a confermare la
validità, l’unicità e l’inesorabilità del
sistema di produzione e consumo, non
prevedendo altro che la distruzione e,
dunque, l’accumulo dei rifiuti in alcune
porzioni di territorio, scelte di
volta in volta, dove collocare i residui
della produzione fintanto che non siano più
utilizzabili per generare profitti di forti,
noti e ricorrenti gruppi imprenditoriali.
Lo scenario territoriale che si viene a
delineare (rispetto al quale i pianificatori
non possono non avere nulla da dire o da
proporre) è quello in cui la distanza e le
disuguaglianze tra le condizioni ambientali
e di sviluppo sono sempre più grandi e
incolmabili, in cui vi sono territori
dell’eccellenza da proteggere sino alla
museificazione o, peggio, alla
disneyzzazione (perché neppure per questi
abbiamo sempre elaborazioni brillanti) e
territori rifiutati, avvelenati o sfruttati,
dove raccogliere tutto quello che resta (la
metafora letteraria di Garbageland6,
la visionaria terra dei rifiuti del
ventunesimo secolo, è, in questo senso,
illuminante). Allora delle due l’una: o non
abbiamo davvero nessun potere, nessuno
strumento pratico o teorico, nessuna
competenza o capacità per indirizzare le
scelte e le modalità d’uso del territorio,
nessuna capacità di contrastare i meccanismi
economici dominanti, potendoci solo attenere
alle direzioni tracciate dal grande
capitale, oppure occorre partire da un altro
punto.
L’esplosione di questi conflitti sancisce in
modo definitivo l’impossibilità di portare
avanti impostazioni che si sarebbero dette
di tipo razional-comprensivo, soprattutto
nella costruzione delle scelte pubbliche che
riguardano i progetti di futuro delle
popolazioni, ma le declinazioni più recenti
dei paradigmi comunicativo-partecipativi
(spesso di opportunistico coinvolgimento
degli abitanti) non sono destinati a futuri
più rosei se non si vorranno affrontare
alla radice i rapporti tra territori e
razionalità economica e neoliberista che li
guida e orchestra, proprio a partire dalla
comprensione delle istanze più estreme.
Nei casi considerati, ad esempio, non è vero
che “i comitati spontanei sono promossi da
attivisti che vanno alla ricerca delle
occasioni di conflitto in cui inserirsi”7:
assai più spesso i conflitti sono talmente
evidenti che si muovono con forza da soli,
in maniera autonoma, ma non sono altro che
un piccolo disturbo nel silenzio
accondiscendente dei più. Possono, così,
essere tacciati di egoismo perché non vi
sono elaborazioni teoriche avanzate che
portino avanti alternative sostenibili (e
concrete) di uso del territorio e delle sue
risorse, in modo consapevole, informato e
condiviso. Le questioni ambientali sollevate
costituiscono, allora, lo stretto
passaggio/opportunità che abbiamo, come
planner, per riprendere in mano
responsabilità e percorsi di ricerca e
operatività in cui sia rovesciata la regola
per cui “l’economia soggioga la vita umana
alle sue proprie autonome leggi, spesso con
conseguenze disumane, (…) per guidare,
invece, come pianificatori, l’economia
secondo scopi umani”8. Ancora,
John Friedmann, in un recente accorato
articolo, ci ricorda che “al contrario di
quanto comunemente si pensi i planners non
sono privi di potere. Al di là dell’arsenale
legale della legislazione urbanistica essi
hanno il potere di dire si o no. Hanno il
potere di dare o nascondere l’informazione.
Hanno il potere di iniziare un discorso
pubblico a proposito della città. Hanno il
potere di coinvolgere il pubblico e in
questo modo instaurare con loro un processo
di mutuo apprendimento. Hanno il potere di
stabilire l’agenda. Hanno il potere di
difendere quelle posizioni che sono state
attentamente vagliate sia in termini etici
sia in termini pratici”9.
Si tratta allora di comprendere e collocare,
nella loro esatta dimensione, processi che
certa letteratura nordamericana non esita a
definire (senza troppi orpelli) vere e
proprie forme di razzismo ambientale10,
cui assai spesso si oppone un corrispondente
enfatico movimento detto della giustizia
ambientale. In questo quadro esistono
interessanti formulazioni – specie per
quanto riguarda il senso e il ruolo dei
pianificatori – in cui la pianificazione
torna ad essere, con chiarezza, un processo
di responsabilità e percorso per la
creazione di alternative. In particolare una
direzione fertile sembra essere quella
suggerita dalla Harwood nel recupero di
un’evanescente tradizione disciplinare – più
spesso evocata che approfondita o
sperimentata (soprattutto in Italia) – come
quella dell’advocacy planning,
ritenuta “come la creazione di un processo
nel quale l’allocazione delle risorse
dovrebbe essere parte di una vivace
disputa politica, cosicché i valori
politici e sociali possano essere esaminati
e dibattuti invece di essere oscurati dai
discorsi tecnici e razionalisti sugli
standard urbani e i processi”11.
Pur nella problematica consapevolezza che i
risultati dell’Advocacy siano stati, in
realtà, molto più riformisti, realizzando
cambiamenti incrementali (sebbene
importanti), l’autrice inizia con il porre
una prima ipotesi alternativa, a
partire dal proprio stesso operare come
pianificatori, deontologicamente,
inevitabilmente responsabili e coinvolti in
processi di abuso del territorio per fini di
lucro.
Note
1
Pur condividendo l’auspicio di Viesti verso
l’abolizione del Mezzogiorno come categoria
problematica in sé e, dunque, come
presupposto per politiche assistenzialiste e
di corto respiro, è anche vero che una mappa
degli ultimi avvenimenti evidenzia il forte
nesso di relazione esistente tra
collocazione di impianti non desiderati e
territori ricattabili dal punto di
vista dei livelli di sviluppo, che vanno a
costituire l’alibi per l’accettazione di
questa o quella scelta, confermando una
copiosa presenza di questi impianti proprio
nelle realtà meridionali.
2
Questa è una delle principali critiche che
si intendono muovere al ragionamento
complessivo di questi fenomeni per come è
stato affrontato in ambito disciplinare,
laddove la riflessione teorica
sull’argomento analizza questi fenomeni
esclusivamente dalla prospettiva secondo cui
le opposizioni locali mettono in scacco gli
insediamenti utili ma sgradevoli
senza contestare l’eventuale mancanza di
utilità collettiva o, peggio, la connessione
tra scelte politiche di sottrazione di beni
pubblici a favore di privati che
inevitabilmente generano la riproduzione di
iniquità sociali. Si veda a questo
proposito, in particolare Bobbio, Zeppetella
(1999).
3
Il monito di Ciampi fu ripreso, nei giorni
della protesta da tutta la stampa nazionale.
In particolare è possibile rintracciare il
passaggio cui si fa riferimento
all’indirizzo http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2004/06_Giugno/28/ciampi.shtm.
4
Queste espressioni sono state catturate dal
sito di RadioAttiva, una delle esperienze di
comunicazione indipendente nate, qui come
altrove, durante la protesta, allo scopo di
veicolare in modo autonomo la posizione e la
voce degli oppositori alle scelte
governative, come sempre tutelate dalla
stampa embedded.
5
Cfr. a questo proposito l’illuminante
articolo di Virginio Bettini a proposito
delle coalizioni del Nimby Forum e del più
interessante Nimby Trentino.
6
Garbageland è il titolo di un romanzo
visionario e apocalittico di un autore
cubano e anticastrista che ci parla di un
globo terraqueo suddiviso dal Disordine
Mondiale in zone classificate secondo la
capacità di consumo dei loro abitanti.
7
Crf. Bobbio, Zeppetella, cit., p. 205.
8
Goonewardena K. (2000), Planning and
Neoliberalism: The Challenge for Radical
Planners, Planners Network, Summer 2000.
9
Friedmann J., City of fear or Open City?,
in APA Journal, Summer 2002, Vol. 68, n. 3,
pp. 237-243.
10
Interessanti a questo proposito le parole di
Mike Davis, nel suo ultimo libro tradotto in
Italia, dal titolo Città morte, in
cui a proposito dei depositi di scorie
nucleari presenti negli States ci racconta
che “la maggior parte dei nativi americani
del West ha definito i depositi nucleari la
massima forma di razzismo ambientale”.
11
S. A. (2003), Environmental Justice on
the Streets. Advocacy Planning as a Tool to
Contest Environmental Racism, in Journal
of Planning Education and Research 2003 23:
pp. 24-38.
Bibliografia
Abreu J.(2004), Garbageland,
Mondadori, Milano.
Bettini V.(2004), Un concilio contro
l’ambiente, da “il manifesto” del 21
ottobre.
Bobbio L., Zeppetella A. (1999), Perché
proprio qui?, FrancoAngeli, Milano.
Davis M.(2004), Città morte,
Feltrinelli, Milano.
Friedmann J. (2002), City of fear or Open
City?, in “Apa Journal”, Vol. 68, n. 3,
pp. 237-243.
Goonewardena K. (2000), Planning and
Neoliberalism: The Challenge for Radical
Planners, Planners Network.
Harwood S. A. (2003), Environmental
Justice on the Streets. Advocacy Planning as
a Tool to Contest Environmental Racism,
in “Journal of Planning Education and
Research” n. 23, pp. 24-38.
Sandercoock L. (1998), The death of
modernist planning: radical praxis for a
postmodern age, in Douglass M.,
Friedmann J. (ed.), “Cities for citizens”,
Wiley & Sons, pp.163-184.
Viesti G. (2003), Abolire il mezzogiorno,
Laterza, Roma-Bari. |