Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Posizioni radicali avverso la localizzazione di impianti non desiderati


Daniela De Leo


 

Si è assistito, negli ultimi anni, ad una molteplicità di proteste e rivendicazioni di forte opposizione delle comunità locali alle scelte operate relativamente alla collocazione di impianti che potremmo definire non desiderati. Per Daniela De Leo la ricorsività di tali fenomeni sottolinea il vuoto di elaborazione e di posizionamento rispetto al rapporto tra scelte territoriali e traiettorie di sviluppo. L’autrice auspica un ripensamento, da parte della comunità scientifica dei pianificatori, delle scelte e delle procedure alla base delle politiche di sviluppo del territorio

 

 

Mai come negli ultimi anni è stato possibile assistere ad una molteplicità di lotte, proteste, rivendicazioni, su base locale, di forte opposizione delle comunità insediate alle scelte operate, in particolare, sul territorio del Mezzogiorno, relativamente alla collocazione di impianti che potremmo sinteticamente definire non desiderati. Tali scelte, avendo a che fare con territori e abitanti, rappresentano un campo proprio della riflessione disciplinare dagli esiti interessanti, soprattutto per quanto riguarda le possibili declinazioni del ruolo e delle responsabilità del pianificatore all’interno di processi dalla forte valenza politica, nei quali è più che mai inverosimile il sedicente ruolo neutro del tecnico esperto. Dopo una lunga fase, infatti, nella quale è prevalso un ruolo di sostanziale mediazione all’interno di processi partecipativi e concertativi, edulcorati e, assai spesso, eccessivamente equidistanti tra istituzioni e cittadini, sembra opportuno ripensare al ruolo del pianificatore proprio alla luce di fenomeni importanti come quelli legati, a vario titolo, alle scelte localizzative (soprattutto di impianti di trattamento di rifiuti, ma non solo) che innescano forti contestazioni e reazioni popolari.

L’idea è che fenomeni di questo tipo, proprio in relazione alle forme dirompenti che assumono, mettono fortemente a repentaglio una certa cultura disciplinare legittimatasi sia attraverso l’analisi e la definizione dei processi decisionali nelle arene pubbliche – che qui vengono sostanzialmente ignorate – sia con riferimento al ruolo del pianificatore come mediatore nei conflitti e facilitatore dei processi: elementi che, evidentemente, in questi casi, non sono né adeguati né fertili per fornire un qualsivoglia strumento di comprensione teorica o di intervento concreto. Sembra mancare, allo stato attuale, soprattutto l’esigenza di un’opportuna riflessione critica sulla direzione da intraprendere, all’interno della quale l’evidenza e la ricorsività di tali fenomeni sottolineano, quanto mai, il vuoto di elaborazione e di posizionamento rispetto al rapporto tra scelte territoriali e traiettorie di sviluppo, tra contraddizioni sociali aperte e soluzioni tecniche del male minore.

La principale ipotesi alla base di questo lavoro è che l’esplosione della molteplicità di questi conflitti debba costringere la comunità scientifica dei pianificatori, innanzitutto, ad un ripensamento più profondo delle scelte (oltre che delle procedure e dei meccanismi decisionali) alla base delle politiche territorializzate di sviluppo, in particolare per il Mezzogiorno1. Rispetto a queste scelte, che provocano forti reazioni popolari e non semplici (quanto discutibili) effetti sul territorio e l’ambiente nel suo complesso, non è ammissibile, infatti, il trinceramento all’interno di un sedicente ruolo di esperto che non voglia tener conto e mettere in discussione l’orizzonte economico neoliberista che le produce e le impone e che, soprattutto, in modo più o meno esplicito, chiede di veicolarle senza troppe complicazioni, intoppi e tanto meno questioni problematiche. L’idea è che questo può essere possibile solo se si rileggono tali avvenimenti tenendo conto anche delle posizioni più radicali espresse dalla popolazione, posizioni che, invece, vengono messe troppo sbrigativamente all’angolo come ideologiche e preconcette, anche perché difficilmente conciliabili in un orizzonte di mera mediazione, mentre esse hanno solo uno sguardo altro e, talvolta, persino più lungo. La trattazione, per tanto, nel proporre spunti di riflessione a partire da alcuni dei più recenti e (a mio avviso) significativi avvenimenti, prova a delineare le ragioni di un posizionamento esplicito, di parte, del pianificatore territoriale, che deve porsi, in maniera sistematica, l’obiettivo di contribuire all’elaborazione concreta di alternative territorializzate radicali rispetto al modello economico dominante e al connesso (ab)uso di territorio, fornendo elementi utili ad una discussione di merito sull’utilità collettiva e sulla condivisione dei fini oltre che (come invece è più spesso avvenuto) solo sulla sgradevolezza di questo o quel impianto2 o sulla democraticità del processo decisionale attivato.

 

 

Territori coinvolti

 

Se solo si considera l’arco di tempo compreso tra la decisione del Consiglio dei ministri, in merito alla localizzazione del sito unico di stoccaggio di Scansano Ionico (novembre 2003) e la data di inizio dei lavori nell’area del Pantano ad Acerra (agosto 2004) per la costruzione di uno dei più grandi inceneritori d’Europa, abbiamo dinnanzi a noi un quadro piuttosto variegato di territori, contesti, lotte e soggetti coinvolti in questi processi. La miccia esplosiva di queste contestazioni è, assai spesso, quella di decisioni univocamente prese dall’alto, senza alcuna forma di legittimazione pubblica che non sia quella, oramai piuttosto screditata o, per lo meno, in crisi, della rappresentanza e della delega politica. Anche le forme di lotta e di protesta sono di uno stesso tipo: i blocchi stradali e/o ferroviari, grandi manifestazioni di piazza, necessariamente (e, assai spesso, soffertamente) bipartisan, ma anche scontri con le forze dell’ordine e conseguenti denunce per resistenza, oltraggio, oltre che interruzione di pubblico servizio, che quasi sempre azzera e ridisegna il gioco delle parti tra chi aggredisce (i beni pubblici, le risorse collettive, l’ambiente, ecc.) e chi viene aggredito. I cosiddetti passaggi istituzionali, l’incontro/confronto con le istituzioni di ordine superiore (quasi sempre il passaggio dalla capitale), in negazione a qualsivoglia principio di sussidiarietà, viene quasi estorto all’interno della protesta stessa, tramite un braccio di ferro di richieste incrociate che ha davvero poco delle forme del dialogo istituzionale, anche perché, troppe volte, alla soggettività che esprime il proprio dissenso non viene data – da parte delle istituzioni – alcuna legittimazione di interlocutore, coerentemente con la preventiva esclusione dal processo decisionale a monte della stessa protesta.

In tale quadro si può osservare che, anche come riflesso del sistema di potere politico decisionale decentrato, è cambiata la scala di ciascun intervento: non si tratta di pochi casi isolati per quanto gravi e di grandi dimensioni – come, ad esempio, nel caso della decennale ipotesi di costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina – ma di una molteplice, diffusa e, talvolta, minuta aggressione ad un territorio sinora spartito, svenduto e consumato, senza troppi indugi, misteri o remore, sbandierando i classici temi delle necessità dello sviluppo e delle emergenze, via via occupazionali o energetiche. Se, infatti, l’esplosione di questa miriade di conflitti denota un’innegabile accresciuta consapevolezza nei confronti del valore dell’ambiente e della salute – percepito da parti sempre più ampie e consistenti della popolazione disposta a mobilitarsi – essa svela anche una sfiducia manifesta nei confronti dei sistemi di rappresentanza ma, soprattutto, delle scelte in merito alle politiche di sviluppo (in particolare per il Mezzogiorno), calate, oltretutto, dall’alto, che perseverano nella pervicace azione di erosione di territori per processi contorti e a sempre minore livello di compensazione e redistribuzione, nei singoli ambiti, di occupazione, reddito e, ancor più, servizi.

Eppure, tutta questa complessità, non solo non viene affrontata con gli strumenti di analisi e di elaborazione disciplinare adeguati, ma si finisce persino per negarla contribuendo all’abuso di denominazioni semplicistiche di tali processi, come ad esempio quello della sindrome Nimby (not in my backyard), “etichetta malevola, che riflette il punto di vista degli interessi pubblici (forti, nda), che lascia intendere che le opposizioni siano mosse dal cieco egoismo di chi non vuole un certo impianto in casa propria ma non muoverebbe un dito se esso fosse posto a casa d’altri”. E, infatti, mentre esplodeva la protesta di Montecorvino Rovella, che stava paralizzando il traffico ferroviario verso le vacanze estive – in opposizione, in questo caso, alla riapertura della discarica di Parapoti – il Presidente della Repubblica italiana proferiva una frase che si sarebbe potuta considerare cruciale dal punto di vista dell’analisi delle politiche pubbliche e che, invece, non ha suscitato nessuna riflessione. Egli ha sostenuto, infatti, che “non sono accettabili posizioni egoistiche di rigetto pregiudiziale da parte di singole comunità, di fronte a problemi come quello dello smaltimento dei rifiuti”, sottolineando come “estreme forme di protesta abbiano causato gravi disagi ai cittadini”3: questo discorso, di fatto, traccia una linea di demarcazione tra il diritto di viaggiare e il diritto degli abitanti di esprimere il proprio dissenso rispetto alle scelte politiche calate dall’alto. Inoltre, la vera questione, ossia l’opposizione al modello di produzione e consumo, causa prima del moltiplicarsi senza limiti della domanda di energia e dell’accumulo di rifiuti, non è tenuta in nessuna considerazione e non è posta neppure in discussione.

Al di là del fatto nominalistico, occorrerebbe iniziare a prendere atto che siamo di fronte a qualcosa di diverso dalla cosiddetta sindrome Nimby, dal momento che, per quanto si siano volute strumentalizzare, tali proteste hanno quasi sempre un orizzonte più ampio di quello del proprio cortile e, forse, proprio questo rappresenta il principale limite alla comprensione dei fenomeni ai quali ci si riferisce e alle loro possibili implicazioni pratiche e teoriche. Se è vero che si possono utilizzare molti altri acronimi (politicamente più corretti?) un po’ meno schiacciati sulle posizioni di chi vorrebbe far passare certe decisioni come necessarie o di pubblica utilità (quali, ad esempio, Lulu – locally unwanted land use o Nopenot on planet earth, cfr. Bobbio, Zeppetella, 1999), potrebbe essere, allo stesso modo, interessante iniziare con l’osservare che, proprio queste posizioni – se si vuole, più utopistiche e, dunque, quelle più difficilmente riducibili, all’interno sia della ritualità dei processi partecipativi sia delle logiche concertative, di cui contribuiscono a mettere a nudo i limiti – sono quelle in grado di aprire fertili quanto poco esplorate direzioni di riflessione su questioni più complesse ma inderogabili.

La lotta di Scansano, per esempio, ha ridato visibilità e parola ad una parte di quel movimento contro il nucleare che, a partire da singole battaglie, aveva poi condotto il paese al referendum abrogativo nel 1987 e che, oggi, invita a osservare con attenzione quanto si sta muovendo, da parte del governo e di certa informazione, nella direzione opposta all’esito di quella consultazione referendaria. Ai sostenitori del No al sito unico di stoccaggio di scorie nucleari, fissato per decreto dal governo, è apparso subito evidente che la questione rappresentava soprattutto “un banco di prova, un inizio per testare il livello di attenzione di una opinione pubblica creduta erroneamente impreparata a riguardo”4 alla quale far accettare le scorie (oggi) e la produzione (domani) come male necessario per la crisi energetica del paese, mediaticamente battezzata dal blackout lungo un giorno del settembre 2003. Allo stesso modo, gli abitanti di Acerra (ma anche quelli di tutte le realtà della Regione Campania cui sono state attribuite le diverse funzioni di trattamento, compostaggio, discarica o incenerimento), stanno portando avanti una difficile quanto radicale opposizione proprio contro la scelta dell’incenerimento come opzione politica complessiva – definita e sostenuta dal piano regionale dei rifiuti – in favore di una opzione di riciclaggio che miri a trasformare i comportamenti e i sistemi di produzione, aggredendo la logica dei profitti concentrati e della scissione dicotomica tra territori dell’eccellenza e territori discarica dove collocare, stipare, distruggere, gli inevitabili rifiuti. Eppure, dinnanzi al diniego e all’opposizione, anche violenta, degli abitanti di Acerra si contesta che essi non sappiano quello che dicono, che la loro ottusa scelleratezza sia alimentata dagli interessi speculativi della camorra, che il loro non voler entrare nella commissione per la realizzazione di una tardiva valutazione di impatto ambientale che non contempli l’opzione zero sia una presa di posizione estrema che non offre margini di dialogo (leggi di compromesso), nella direzione di una decisione già maturata come frutto dell’accordo tra poteri politici ed economici. Volendoli ascoltare, invece, essi sostengono che l’impianto di termovalorizzazione congelerà, per le sue caratteristiche di funzionamento, qualsiasi ipotesi di raccolta differenziata, negando, quindi, uno dei principi base dell’analisi di massa dei rifiuti solidi urbani “articolata sul recupero di materia ed energia”5, peggiorando le già non rosee condizioni ambientali e di vivibilità dell’area in questione proprio in quanto area debole.

 

 

Quale pianificazione?

 

Nessuno dice che le soluzioni, oggi, siano semplici ma neppure che esse possano essere differite ad un altro tempo o alle illusioni di una tecnologia sempre più avanzata e pulita (oltre che ad altri ruoli e responsabilità). Non si può non vedere, infatti, che le scelte territoriali, da comprendere e, possibilmente, da indirizzare, in quanto esperti di territorio, vanno ben al di là di un ragionamento sulla scarsa democraticità del processo attivato e hanno a che vedere, invece, con gli scenari di sviluppo futuri da delineare e prospettare proprio in quei territori ai margini (a sud) di assi e itinerari di eccellenza, indeboliti dalla sommatoria di fallimentari, quanto occasionali, opzioni di sviluppo esogeno. La vera posta in gioco, scientemente ignorata e sottaciuta, nonché luogo privilegiato, quanto disertato, della riflessione disciplinare, dovrebbe essere, infatti, la messa in discussione esplicita delle modalità di uso del territorio per la produzione di capitale – prima ancora che di diossina – rispetto alla riproduzione delle forme di vita e di abitare, entrando problematicamente nel merito del rapporto tra territorio e abitanti (di oggi e di domani).

Si tratta di sviluppare una proposta d’uso del territorio che passi dalla profonda quanto complessa critica agli attuali dispositivi di (ri)produzione, consumo e consunzione, prima che di gestione e smaltimento del ciclo dei rifiuti. Proposta, questa, che non può che essere inconciliabile con i processi attualmente in atto che tendono, invece, a confermare la validità, l’unicità e l’inesorabilità del sistema di produzione e consumo, non prevedendo altro che la distruzione e, dunque, l’accumulo dei rifiuti in alcune porzioni di territorio, scelte di volta in volta, dove collocare i residui della produzione fintanto che non siano più utilizzabili per generare profitti di forti, noti e ricorrenti gruppi imprenditoriali.

Lo scenario territoriale che si viene a delineare (rispetto al quale i pianificatori non possono non avere nulla da dire o da proporre) è quello in cui la distanza e le disuguaglianze tra le condizioni ambientali e di sviluppo sono sempre più grandi e incolmabili, in cui vi sono territori dell’eccellenza da proteggere sino alla museificazione o, peggio, alla disneyzzazione (perché neppure per questi abbiamo sempre elaborazioni brillanti) e territori rifiutati, avvelenati o sfruttati, dove raccogliere tutto quello che resta (la metafora letteraria di Garbageland6, la visionaria terra dei rifiuti del ventunesimo secolo, è, in questo senso, illuminante). Allora delle due l’una: o non abbiamo davvero nessun potere, nessuno strumento pratico o teorico, nessuna competenza o capacità per indirizzare le scelte e le modalità d’uso del territorio, nessuna capacità di contrastare i meccanismi economici dominanti, potendoci solo attenere alle direzioni tracciate dal grande capitale, oppure occorre partire da un altro punto.

L’esplosione di questi conflitti sancisce in modo definitivo l’impossibilità di portare avanti impostazioni che si sarebbero dette di tipo razional-comprensivo, soprattutto nella costruzione delle scelte pubbliche che riguardano i progetti di futuro delle popolazioni, ma le declinazioni più recenti dei paradigmi comunicativo-partecipativi (spesso di opportunistico coinvolgimento degli abitanti) non sono destinati a futuri più rosei se non si vorranno affrontare alla radice i rapporti tra territori e razionalità economica e neoliberista che li guida e orchestra, proprio a partire dalla comprensione delle istanze più estreme. Nei casi considerati, ad esempio, non è vero che “i comitati spontanei sono promossi da attivisti che vanno alla ricerca delle occasioni di conflitto in cui inserirsi”7: assai più spesso i conflitti sono talmente evidenti che si muovono con forza da soli, in maniera autonoma, ma non sono altro che un piccolo disturbo nel silenzio accondiscendente dei più. Possono, così, essere tacciati di egoismo perché non vi sono elaborazioni teoriche avanzate che portino avanti alternative sostenibili (e concrete) di uso del territorio e delle sue risorse, in modo consapevole, informato e condiviso. Le questioni ambientali sollevate costituiscono, allora, lo stretto passaggio/opportunità che abbiamo, come planner, per riprendere in mano responsabilità e percorsi di ricerca e operatività in cui sia rovesciata la regola per cui “l’economia soggioga la vita umana alle sue proprie autonome leggi, spesso con conseguenze disumane, (…) per guidare, invece, come pianificatori, l’economia secondo scopi umani”8. Ancora, John Friedmann, in un recente accorato articolo, ci ricorda che “al contrario di quanto comunemente si pensi i planners non sono privi di potere. Al di là dell’arsenale legale della legislazione urbanistica essi hanno il potere di dire si o no. Hanno il potere di dare o nascondere l’informazione. Hanno il potere di iniziare un discorso pubblico a proposito della città. Hanno il potere di coinvolgere il pubblico e in questo modo instaurare con loro un processo di mutuo apprendimento. Hanno il potere di stabilire l’agenda. Hanno il potere di difendere quelle posizioni che sono state attentamente vagliate sia in termini etici sia in termini pratici”9.

Si tratta allora di comprendere e collocare, nella loro esatta dimensione, processi che certa letteratura nordamericana non esita a definire (senza troppi orpelli) vere e proprie forme di razzismo ambientale10, cui assai spesso si oppone un corrispondente enfatico movimento detto della giustizia ambientale. In questo quadro esistono interessanti formulazioni – specie per quanto riguarda il senso e il ruolo dei pianificatori – in cui la pianificazione torna ad essere, con chiarezza, un processo di responsabilità e percorso per la creazione di alternative. In particolare una direzione fertile sembra essere quella suggerita dalla Harwood nel recupero di un’evanescente tradizione disciplinare – più spesso evocata che approfondita o sperimentata (soprattutto in Italia) – come quella dell’advocacy planning, ritenuta “come la creazione di un processo nel quale l’allocazione delle risorse dovrebbe essere parte di una vivace disputa politica, cosicché i valori politici e sociali possano essere esaminati e dibattuti invece di essere oscurati dai discorsi tecnici e razionalisti sugli standard urbani e i processi”11. Pur nella problematica consapevolezza che i risultati dell’Advocacy siano stati, in realtà, molto più riformisti, realizzando cambiamenti incrementali (sebbene importanti), l’autrice inizia con il porre una prima ipotesi alternativa, a partire dal proprio stesso operare come pianificatori, deontologicamente, inevitabilmente responsabili e coinvolti in processi di abuso del territorio per fini di lucro.

 

 

Note

 

1 Pur condividendo l’auspicio di Viesti verso l’abolizione del Mezzogiorno come categoria problematica in sé e, dunque, come presupposto per politiche assistenzialiste e di corto respiro, è anche vero che una mappa degli ultimi avvenimenti evidenzia il forte nesso di relazione esistente tra collocazione di impianti non desiderati e territori ricattabili dal punto di vista dei livelli di sviluppo, che vanno a costituire l’alibi per l’accettazione di questa o quella scelta, confermando una copiosa presenza di questi impianti proprio nelle realtà meridionali.

2 Questa è una delle principali critiche che si intendono muovere al ragionamento complessivo di questi fenomeni per come è stato affrontato in ambito disciplinare, laddove la riflessione teorica sull’argomento analizza questi fenomeni esclusivamente dalla prospettiva secondo cui le opposizioni locali mettono in scacco gli insediamenti utili ma sgradevoli senza contestare l’eventuale mancanza di utilità collettiva o, peggio, la connessione tra scelte politiche di sottrazione di beni pubblici a favore di privati che inevitabilmente generano la riproduzione di iniquità sociali. Si veda a questo proposito, in particolare Bobbio, Zeppetella (1999).

3 Il monito di Ciampi fu ripreso, nei giorni della protesta da tutta la stampa nazionale. In particolare è possibile rintracciare il passaggio cui si fa riferimento all’indirizzo http://www.corriere.it/Primo_Piano/Politica/2004/06_Giugno/28/ciampi.shtm.

4 Queste espressioni sono state catturate dal sito di RadioAttiva, una delle esperienze di comunicazione indipendente nate, qui come altrove, durante la protesta, allo scopo di veicolare in modo autonomo la posizione e la voce degli oppositori alle scelte governative, come sempre tutelate dalla stampa embedded.

5 Cfr. a questo proposito l’illuminante articolo di Virginio Bettini a proposito delle coalizioni del Nimby Forum e del più interessante Nimby Trentino.

6 Garbageland è il titolo di un romanzo visionario e apocalittico di un autore cubano e anticastrista che ci parla di un globo terraqueo suddiviso dal Disordine Mondiale in zone classificate secondo la capacità di consumo dei loro abitanti.

7 Crf. Bobbio, Zeppetella, cit., p. 205.

8 Goonewardena K. (2000), Planning and Neoliberalism: The Challenge for Radical Planners, Planners Network, Summer 2000.

9 Friedmann J., City of fear or Open City?, in APA Journal, Summer 2002, Vol. 68, n. 3, pp. 237-243.

10 Interessanti a questo proposito le parole di Mike Davis, nel suo ultimo libro tradotto in Italia, dal titolo Città morte, in cui a proposito dei depositi di scorie nucleari presenti negli States ci racconta che “la maggior parte dei nativi americani del West ha definito i depositi nucleari la massima forma di razzismo ambientale”.

11 S. A. (2003), Environmental Justice on the Streets. Advocacy Planning as a Tool to Contest Environmental Racism, in Journal of Planning Education and Research 2003 23: pp. 24-38.

 

 

Bibliografia

 

Abreu J.(2004), Garbageland, Mondadori, Milano.

Bettini V.(2004), Un concilio contro l’ambiente, da “il manifesto” del 21 ottobre.

Bobbio L., Zeppetella A. (1999), Perché proprio qui?, FrancoAngeli, Milano.

Davis M.(2004), Città morte, Feltrinelli, Milano.

Friedmann J. (2002), City of fear or Open City?, in “Apa Journal”, Vol. 68, n. 3, pp. 237-243.

Goonewardena K. (2000), Planning and Neoliberalism: The Challenge for Radical Planners, Planners Network.

Harwood S. A. (2003), Environmental Justice on the Streets. Advocacy Planning as a Tool to Contest Environmental Racism, in “Journal of Planning Education and Research” n. 23, pp. 24-38.

Sandercoock L. (1998), The death of modernist planning: radical praxis for a postmodern age, in Douglass M., Friedmann J. (ed.), “Cities for citizens”, Wiley & Sons, pp.163-184.

Viesti G. (2003), Abolire il mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari.

 

 

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