In questo periodo, si sono imposte
all’attenzione una serie di vicende sociali
che possono essere ricondotte all’amore o al
rifiuto del proprio territorio.
Certo questo non è l’unico criterio, forse
nemmeno il principale, per analizzare
situazioni che sono determinate da spinte
culturali, economiche e politiche di ben
altra complessità.
Tuttavia, il legame con i propri luoghi
viene invocato spesso come sentimento alla
base di quegli avvenimenti e da ciò, forse,
deriva l’opportunità di indagare quel
particolare tipo d’affetto, di verificarne
la portata e gli esiti.
Emblematiche, a questo proposito e in questi
ultimi mesi, sono le lotte delle
cittadinanze contro la collocazione, in
qualsiasi sito, di rifiuti solidi urbani
(Rsu) che colà debbano avere un qualche
trattamento, dal semplice stazionamento
momentaneo alla combustione in impianti
appositi.
Sono episodi di mobilitazione che si
registrano in quasi tutti i posti coinvolti
anche se i livelli di partecipazione e di
durezza delle manifestazioni sono molto
diversi tra di loro. Comunque tutti gli
episodi hanno in comune cause ed effetti che
sono, per certi versi, condivisibili e, per
altri, meno comprensibili.
È intuitivo che l’immondizia dalle parti di
casa non piaccia a nessuno. Ma è altrettanto
intuitivo che se non si decide cosa farne e
dove metterla, finisce che i famigerati
sacchetti grigio topo rimangono ad
accumularsi proprio all’angolo del palazzo
in cui si abita.
Ormai tutti sanno che i rifiuti si possono
smaltire in diverse maniere e si capisce che
ognuno preferisca quella che inquina di meno
e si situa il più lontano possibile dal
proprio paese. Ma, e anche questo è
intuitivo, più ci si allontana da un comune
più ci si avvicina ad un altro non
esistendo, nella nostra regione, plaghe
desertiche, disabitate o inutilizzate. Se,
poi, si vogliono scansare tutti i paesi e
tutte le città campane, bisogna mandare
l’immondizia fuori regione, il che ha dei
costi notevoli.
Anche questo è risaputo, per cui si deve
decidere se si preferisce spendere denaro
pubblico per allontanare i Rsu o per
finanziare, ad esempio, il miglioramento
dell’assistenza agli anziani. Sapendo, come
si sa, che più si spostano e si trattano i
rifiuti più i relativi costi finiscono, in
un modo o nell’altro, nel giro d’affari
della criminalità organizzata.
Le lotte per difendere il proprio territorio
dal paventato inquinamento da immondizia si
muovono fra queste ambiguità per cui, alla
resa dei conti, è difficile dire se la
mobilitazione, mossa in prima istanza
dall’amore per la propria terra, le abbia
poi giovato davvero e sostanzialmente.
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Figura 1 - Bradisismo del 1970,
sfratto |
Questo tipo di lotte, infatti, è spesso
aperto a esiti oggettivamente opposti forse
perché l’amore portato ai propri luoghi non
basta da solo a indicare con lucidità quale
sia il bene dei posti ai quali si è
affezionati.
A Pozzuoli, nel corso delle crisi
bradisismiche del 1970 e del 1982-1984, si è
fatta esperienza di un sentimento del genere
che, pur essendosi dispiegato con forza, non
è servito a proteggere la città.
La crisi del 1982-1984 è dura e spaventosa
nonostante il fatto che la città avrebbe
dovuto essere, in qualche modo, preparata
all’evento.
Il lento sollevarsi e abbassarsi del suolo,
il bradisisma, è un fenomeno che, con le sue
impennate, ha caratterizzato, e ancora
caratterizza, il territorio flegreo. Una
crisi di notevole entità si era avuta nel
1970, in anni ancora vicini a quelli in cui
si verifica il secondo e più intenso
episodio. Gli effetti sociali dei
microterremoti registrati nel 1970 si
proiettano ben oltre questa data e, per
certi aspetti, sono ancora in corso quando
la terra riprende a tremare. Ma nonostante
questa esperienza, ancora viva e molto
intensa, la città si trova del tutto
impreparata a fronteggiare la nuova crisi.
Mancano sia un adeguato abito mentale che un
adattamento organizzato e dotato di
idonei strumenti di vigilanza e di
protezione civile.
Si può dire che si fosse a questo punto per
mancanza d’amore; per la mancanza,
cioè, d’una attenzione vera verso il
territorio e i suoi abitanti che non vengono
preparati in alcun modo a coesistere con la
natura sismica della zona.
A questo proposito vanno fatte due
considerazioni:
1. una sul se sia l’amore per la propria
terra una categoria utile a valutare un
complesso fenomeno di storia civile,
sociale, politica e urbanistica;
2. una seconda sul se ricorressero le
condizioni, già prima del 1970 ma
sicuramente dopo, per realizzare gli
interventi necessari ad assicurare la
convivenza fra la città e la costante
possibilità di eventi sismici.
Quanto alla prima considerazione, va detto
che il tipo di legame che intercorre fra chi
risiede in un luogo e il luogo medesimo è un
elemento costitutivo delle dinamiche
culturali e sociali che si dispiegano in
quel territorio.
Questo è un elemento che chiede di essere
valutato da non molto tempo; da quando cioè
con interventi urbanistici, più o meno
subitanei e determinati da fattori diversi,
si è proceduto al reinsediamento d’intere
collettività in luoghi diversi da quelli in
cui si erano storicamente strutturate.
È la storia delle sconfinate periferie
metropolitane sorte assai rapidamente o
quella puteolana di quartieri inventati per
ricollocarvi popolazioni sfrattate da zone
della città ritenute, in alcuni momenti, ad
alto rischio.
L’abbandono e il degrado in cui versano
queste zone d’improvvisa urbanizzazione
dicono, fra l’altro, che nemmeno gli
abitanti fanno nulla per impossessarsi
del posto in cui vivono, quasi che lo
sentano estraneo e provvisorio, mentre,
generalmente, non è così nei luoghi in cui
si vive da generazioni e si ha la
prospettiva economica e sociale di poter
continuare a farlo.
Dunque il legame con i propri luoghi è un
elemento oggettivamente significativo ed è
anche soggettivamente rilevante se viene
invocato come motore primo di quelle
tensioni sociali di cui si diceva
all’inizio.
Quanto alla seconda considerazione, va detto
che era nota da tempo la natura del
sottosuolo e la sua attività che ne ha
caratterizzato in modo notevole anche la
storia geologica più recente. Difatti nasce,
nel 1538, il Monte Nuovo che è
l’esito di maggior rilievo di una serie
secolare di terremoti e di moti del suolo in
senso ascendente o discendente le cui tracce
sono restate sulle colonne del Serapeo che,
seguendo quel movimento, si sono inabissate
per poi riemergere conservando i segni
lasciati dai frutti di mare (litofagi) i
quali, in quelle stesse colonne scese
sott’acqua, avevano scavato le proprie tane.
D’altro canto proprio dall’osservazione
della Solfatara, un cratere ancora attivo
nella zona, e delle colonne del tempio di
Serapide hanno preso le mosse le moderne
scienze della terra al cui sviluppo, Napoli,
ha partecipato con la creazione
dell’Osservatorio vesuviano che ha studiato
e studia, insieme alle facoltà
universitarie, le evoluzioni del vulcano
partenopeo e quelle del territorio flegreo.
Dunque, già prima del 1970 ma sicuramente
dopo, vi erano i dati dell’esperienza e le
risorse scientifiche necessarie a capire la
necessità e le modalità per adeguare la
città alla natura dei luoghi. Viceversa
nulla viene fatto e questo indica, fra
l’altro, anche una trascuratezza nei
confronti dei propri posti, quella mancanza
d’amore per la propria terra di cui
si diceva cominciando il paragrafo.
Eppure i fatti successivi sembrano smentire
una simile valutazione.
Ma procediamo con ordine.
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Figura 2 - Rione Terra vista
dall’alto |
C’era stata, nel 1970, un’impennata del
bradisisma che aveva avuto esiti drammatici.
Evacuato e abbandonato il Rione Terra, cuore
storico della città. Spostati i residenti
dal borgo sul mare in una piana
dell’entroterra edificata con moduli
abitativi tutti uguali e assolutamente
contrastanti con le case, fortemente
individue, di cui è fatta la città ed era
fatto il Rione. Lasciate al saccheggio le
abitazioni abbandonate e i beni artistici e
culturali che abbondavano sulla Terra,
luogo d’insediamento prima greco, poi romano
e unico nucleo abitativo rimasto durante il
medio-evo. Condannato all’emarginazione
delle periferie inventate il Toiano,
il rione del reinsediamento di quanti
abitavano la parte di città evacuata.
All’origine di tutto vi era stato – e nel
decennio intercorso fra il 1970 e il 1982 si
era ben compreso – la mancanza d’una
struttura di vigilanza e di studio del
fenomeno che fosse in grado di seguirne
l’evoluzione e valutare la gravità e la
pericolosità delle sue manifestazioni.
I provvedimenti di evacuazione e di
ricollocazione degli abitanti si erano
incardinati in questa mancanza di
valutazioni scientifiche fondate su un
monitoraggio di lungo periodo che, per
questa stessa ragione, fosse in grado di
fornire dati comparabili e attendibili.
Questa mancanza di conoscenze per alcuni è
stata strumentalizzata a fini di
speculazione immobiliare – il Rione Terra ha
una collocazione ed un panorama fra i più
belli della già bellissima zona flegrea –
per altri è stata subita per incapacità
politica, per altri ancora è stata alla base
di un allarmismo dettato da eccesso di
prudenza.
Quale che sia la valutazione, tutti
convengono sul fatto che il mancato studio
del fenomeno abbia impedito di fronteggiarlo
validamente e abbia portato ad adottare
provvedimenti assolutamente sproporzionati
rispetto alla reale entità del caso. E
difatti le vecchie costruzioni di Rione
Terra, nonostante le scosse del 1970, quelle
successive del 1982-1984 ed un trentennio di
totale abbandono, non sono crollate e da
esse ora si parte per riattarle e attivarle
con destinazioni d’uso differenti e per
utenti assai diversi dai proprietari
originari.
Questo, in sintesi, il quadro delle vicende
che, forse, ritrovano il loro senso concreto
se si raccontano alcuni episodi verificatisi
in quel periodo e che hanno, a parere di chi
scrive, un valore emblematico.
Nel corso della crisi, protrattasi ben oltre
i venti mesi, vengono consultati i più
eminenti scienziati e i più noti esperti di
sismologia; fra questi il professore Tazief
che, illustrando alla stampa la sua
valutazione sul fenomeno e sul pericolo
corso dalla città, si esprime dicendo che la
situazione di Pozzuoli è paragonabile a
quella del tappo di una bottiglia di
champagne.
Quando, per Rione Terra, viene deciso
l’abbandono si provvede a realizzarlo manu
militari, con le forze dell’ordine che
impongono e costringono, prim’ancora che
aiutare, sostenere e ordinare.
All’atto della ricollocazione degli abitanti
nelle nuove case di Toiano, sistemate in tre
file di lunghissimi palazzoni tutti uguali,
si vedono gli inquilini intenti a ridurre,
in vario modo, il mobilio delle camere da
letto tarate su dimensioni ben diverse da
quelle delle nuove abitazioni i cui balconi
sono drappeggiati da asciugamani, tovaglie e
lenzuola dai colori diversissimi e
sgargianti. Era l’unico modo per poter
riconoscere casa propria in quell’allucinante
uniformità di sagome e di tinte.
Questi fatti dicono meglio di qualsiasi
ragionamento come l’intervento scientifico
fosse improvvisato, approssimativo e
indifferente agli effetti di annunci basati
solo su rispettabili opinioni personali che
però avevano, appunto, questo valore, come i
fatti successivi si sono incaricati di
dimostrare. Pure l’operazione fatta per
svuotare il Rione Terra mostra come questa
iniziativa fosse condotta senza la
partecipazione consapevole dei cittadini
che, al contrario, in alcuni casi opposero
una disperata resistenza. Infine gli episodi
relativi alla ricollocazione degli abitanti
rivelano come anche la progettazione
urbanistica e abitativa sia stata fatta
senza e contro i diretti interessati; si
prende un borgo marinaro e lo si trasferisce
in una piana lontana qualche chilometro dal
mare; si va a edificare una zona rimasta per
secoli disabitata scoprendo dopo che, per il
passato, non era stata luogo d’insediamenti
perché molto umida; si costruiscono case
dalla tipologia esattamente opposta a quella
tipica dell’architettura spontanea che
cresce su se stessa nel corso dei secoli e
per mano, più o mena diretta, degli stessi
residenti.
Bisogna aggiungere, per amore di verità, che
la condizione abitativa di Rione Terra era
pessima. Assai frequentemente capitava che
per un intero, numeroso, nucleo familiare
fosse disponibile un solo vano senza bagno.
L’indiscutibile miglioramento che, sotto
questo profilo, è prodotto dai nuovi alloggi
di Toiano nulla toglie però agli altri
limiti prima denunciati che hanno tenuto, e
ancora mantengono, questo quartiere in una
condizione di grande degrado sociale e
civile.
Dunque, negli anni che vanno dal 1970 al
1982 si vive il tipo di esperienze accennate
e su di esse anche si riflette attraverso
una discussione che coinvolge la città e le
sue organizzazioni sociali e politiche.
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Figura 3 - Porto di Pozzuoli (1984) |
I fatti dimostravano la necessità di dotare
i Campi Flegrei di un servizio di protezione
civile che sensibilizzasse i cittadini sui
modi di rendere sicura la città, le sue
abitazioni, gli eventuali esodi in
emergenza, fondando questo lavoro su quello
di un sistema di monitoraggio e studio del
bradisismo condotto in uno dall’Osservatorio
vesuviano e dalle facoltà universitarie di
scienze della terra.
In quest’ambito scientifico, peraltro, la
zona flegrea ha, come accennato, una storia
significativa.
Dunque nulla di più naturale che dare
seguito a precedenti di tanto rilievo.
Ma, come già detto, nulla viene fatto anche
per la mancanza d’iniziativa d’una
cittadinanza che, con il passare del tempo,
o si occupa di quelle vicende attraverso
un’annosa lite giudiziaria centrata sui
rimborsi da avere per le case espropriate a
Rione Terra, o è tornata all’abituale
tran-tran quotidiano.
Eppure la trascuratezza che sembra
emergere da questa situazione viene
sconfessata dagli avvenimenti successivi,
almeno per quanto riguarda i semplici
abitanti della zona.
Nel 1980 il fenomeno riesplode.
Contesto e conseguenze sul piano sociale,
politico e urbanistico si trovano ben
delineati in un articolato scritto di S.
Mandile pubblicato sul numero diciotto del
Bollettino Flegreo.
Qui interessa raccontare di quella crisi, di
come sia stata vissuta dalla gente e di come
si sia andato modificando, col tempo,
l’atteggiamento dei cittadini.
Dunque, si presenta una nuova fase del
fenomeno che, per di più, ha un’intensità
ben superiore a quella del 1970.
Differentemente da allora, però, viene
istituito un servizio si sorveglianza sul
fenomeno e lo si affida al direttore
dell’Osservatorio vesuviano.
Mese dopo mese si registrano migliaia di
scosse, il suolo prende a salire, rispetto
al livello del mare, in maniera assai
consistente, gli sciami sismici si
susseguono finché uno di particolare durata
e intensità induce le stesse strutture
scientifiche a considerare la possibilità di
un evento catastrofico.
Le cronache che raccontano della nascita del
Monte Nuovo riportano che l’eruzione era
stata preceduta proprio da una intensa serie
di microterremoti che si erano susseguiti
per lungo tempo e quasi senza interruzione.
La situazione, dunque, è di allarme e viene
decisa l’evacuazione del centro antico della
città. Chi non risiede nella zona
individuata come quella più esposta al
rischio si allontana o per paura o per
prudenza. In sostanza si verifica un vero e
proprio esodo che distribuisce i puteolani
lungo tutto il litorale domitio le cui
strutture estive – case di villeggiatura e
alberghi – vengono requisite o messe a
disposizione di chi ha dovuto lasciare
Pozzuoli.
D’altro canto le scosse continue hanno
riflessi distruttivi sugli impianti
industriali e sui servizi.
Le fabbriche, che in genere utilizzano
macchine di precisione da tenere
perfettamente in piano, hanno la produzione
continuamente interrotta e gli impianti in
perenne manutenzione.
Gli edifici scolastici, sollecitati dalle
innumerevoli scosse, vengono sottoposti a
frequentissime verifiche di agibilità
statica con la conseguente sospensione
dell’attività didattica che, comunque, viene
interrotta dai tremori del suolo che
costringono, per ovvie ragioni di prudenza,
a condurre gli alunni fuori dalle aule.
L’ospedale cittadino, già rimasto privo di
sede per effetto della crisi del 1970, è
stato anch’esso chiuso per ragioni di
sicurezza e i suoi servizi sanitari sono
stati trasferiti in presidi vicini ma non
toccati dal fenomeno.
In queste condizioni prende corpo l’ipotesi
di spostare l’abitato in una zona distante e
di scavare Pozzuoli portando alla luce
l’antica città romana come una seconda
Pompei, ma ben più vasta e significativa.
A questo punto la gente ritorna. Percorre
trenta, quaranta chilometri al giorno per
tornare in città, per farla vivere almeno in
parte, una minima parte, quasi un presidio
che, però, viene tolto di notte.
In Sofer sono gli operai a farsi carico del
costante riallineamento delle macchine e del
mandare avanti la produzione a ritmi quasi
ordinari.
Gli insegnanti, mobilitati dal sindacato,
fanno funzionare le scuole la cui tenuta
statica viene verificata quasi ogni mattina.
I docenti privi degli alunni che si sono
spostati lungo la Domitiana, riprendono
l’attività su base volontaria e in una
scuola di fortuna creata nel Villaggio
Coppola dopo essere stata autorizzata, in
via del tutto eccezionale, dai
Provveditorati di Napoli e Caserta, il primo
competente per alunni e personale, il
secondo per area territoriale.
Vengono riorganizzati i trasporti che devono
collegare i cittadini, ormai domiciliati
fino a Ischitella e Baia Verde, con la zona
flegrea.
Quest’intensa mobilitazione civile ha una
base del tutto spontanea, trova adesioni
completamente volontarie, ma interpreta un
ragionamento maturato, particolarmente, in
ambiente sindacale.
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Figura 4 - Ristorante Vicienzo a
mmare, Pozzuoli |
Il suo assunto è semplice. L’assetto della
città dovrà necessariamente essere rivisto
per essere adeguato alla probabilità, quasi
una certezza, del ripetersi di altre crisi.
Ma di questa trasformazione non si può
decidere sotto la pressione della paura e
dell’allarme. Occorrono pronunciamenti
scientifici più meditati delle
preoccupazioni dettate dall’emergenza e
riflessioni politiche più distaccate di
quelle prodotte in una situazione di
particolare straordinarietà. Viene tenuto,
comunque, in conto il rischio di manovre che
strumentalizzino le preoccupazioni per
innescare speculazioni di carattere
immobiliare. Ammonisce, in tal senso, la
vicenda vissuta con l’evacuazione del Rione
terra.
Conseguenza di queste valutazioni è la
scelta di mantenere viva la città, di
evitarne l’abbandono in modo da impedire
iniziative avventate o perniciose come
quella, ventilata, di ricollocare l’abitato
in altra zona.
Una direzione di questo tipo era stata
seguita per alcuni paesi colpiti dal
terremoto del 1981 con effetti assai più
devastanti di quelli che si andavano
registrando con la crisi bradisismica in
atto.
Nasce da queste considerazioni l’opzione di
mantenere in attività, fin dove possibile, i
servizi e le fabbriche. A questo appello
risponde la gran parte degli operatori dei
vari settori dando vita anche a vicende di
particolare intensità.
Per rassicurare insegnanti e genitori sulla
possibilità di continuare l’attività
didattica anche in presenza del fenomeno e
delle sue continue scosse, viene tenuta
un’assemblea pubblica proprio nell’edificio
scolastico che sorge sui bordi della
Solfatara. Il Provveditore agli studi, il
direttore dell’Osservatorio vesuviano, i
dirigenti sindacali e scolastici svolgono i
loro interventi dinanzi ad un’affollatissima
platea mentre la sala è percorsa da tremiti
insistenti e il vicino cratere fa sentire,
continuamente, il suo brontolio.
Una mattina, prima che la Cumana iniziasse
le corse abituali sulla tratta ancora in
attività, i dirigenti sindacali, quelli di
fabbrica e alcuni lavoratori, conducono,
lungo il percorso ferroviario interdetto per
ovvie ragioni precauzionali, un locomotore
completato che doveva essere consegnato.
Non di rado, durante sciami sismici d’una
certa durata, una parte del personale
dell’Osservatorio vesuviano e dell’Ufficio
Bradisisma si porta nelle scuole, nelle
fabbriche o in altri luoghi di presenze
collettive e durante le scosse spiega,
tranquillizza, ripete gli elementi
essenziali dei comportamenti che riducono il
rischio in caso di emergenza.
Ma, più in generale, è tutta la cittadinanza
a fare la sua parte ingegnandosi ciascuno a
coniugare prudenza e normale svolgimento
delle sue attività.
Si crea una situazione di slancio
generoso che non è estraneo alla
tradizione italiana di partecipare, con
passione, all’impegno per fronteggiare
eventi catastrofici. Valga per tutti, il
ricordo della mobilitazione dei giovani in
occasione dell’alluvione di Firenze.
A Pozzuoli la cosa ha, evidentemente,
caratteristiche diverse animate, tuttavia,
dallo stesso slancio che non è solo frutto
della volontà di difendere i propri beni.
Molti insegnanti non sono puteolani né
risiedono in città così come tanti altri
addetti ad altri settori lavorativi.
D’altro canto sulla possibilità di
salvaguardare i propri beni non v’è, allora,
certezza. Il destino della città non
dipende, in quei momenti, da una politica
già largamente e facilmente influenzabile,
ma dai capricci di madre natura. Eppure
l’impegno appassionato si ha e anche per
lungo tempo, per mesi, nelle scuole
addirittura per anni.
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Figura 5 - Bradisismo del 1970,
sfratto |
Si può dire che esso sia stato la
manifestazione di quell’amore per la propria
terra di cui anche Goethe dà testimonianza
nei ricordi del suo viaggio in Italia.
Racconta il poeta d’essersi procurato, come
guida che lo conducesse nel suo giro dei
Campi Flegrei, un giovane contadino
puteolano assai esperto dei luoghi. Questi,
accompagnato lo scrittore sul belvedere che
ancora si apre accanto al convento dei
Cappuccini, avanza di alcuni passi e
prorompe in un urlo potente. Poi, il
contadino si spiega: “Eccellenza questa è la
mia terra” dice accompagnandosi con un largo
gesto del braccio che indica il panorama di
stupefacente bellezza che, da quel punto, si
vede. Il giovane dichiara così un amore
acceso dalla bellezza soltanto – come spesso
capita per l’amore – e nemmeno alimentato
dalla conoscenza della preziosa storia che
accompagna quei luoghi e che l’intellettuale
tedesco conosceva benissimo.
C’è un amore così e non è retorica
dichiararlo, né grande scoperta segnalarlo.
C’è e, in alcuni casi, opera con tutta la
forza di cui il sentimento è capace ma anche
con tutti i limiti che accompagnano
manifestazioni del cuore non filtrate
dalla ragione.
Probabilmente andò così nei mesi cruciali
del massimo allarme e dell’evacuazione.
In verità bisogna dire che la
manifestazione d’affetto si nutre anche
di una discussione assai intensa. Prima di
tutto sul fenomeno, sulle sue
caratteristiche, sulle sue possibili
evoluzioni, sui modi per fronteggiarlo. Il
professore Luongo, all’epoca direttore
dell’Osservatorio vesuviano e responsabile
dell’Ufficio Bradisisma di Pozzuoli, sa
interloquire con questo bisogno di conoscere
e di capire. Si susseguono così decine,
forse centinaia, d’incontri, di assemblee di
pubblici dibattiti, nei quartieri, nelle
scuole, nelle fabbriche e negli altri luoghi
di lavoro.
Si chiede, si spiega, si chiarisce, si
formulano ipotesi in un vero e proprio
studio di massa che è anche elaborazione
collettiva di un possibile modo di procedere
e di preparare scelte per il futuro della
città.
Altrettanto attenta, vivace e intensa è la
discussione sul futuro assetto urbanistico
della città.
Si confrontano due tesi opposte per
concezioni e possibili conseguenze.
C’è chi ritiene che, per contenere il
rischio entro limiti accettabili, si debba
ridurre il numero dei residenti nel centro
storico con il conseguente abbattimento dei
vani così liberati che sono da ricostruire
in un’altra, più sicura, area del comune.
Si profila, in questa ipotesi, lo
spostamento di una porzione sostanziosa di
cittadini ed un’alterazione profonda del
tessuto sociale di quella parte della città
C’è chi sostiene, all’opposto, che si
realizzano livelli di sicurezza accettabile
se si ristrutturano in maniera antisismica
stabili e maglia urbana. In questo caso,
com’è evidente, spostamenti quasi nulli e
conseguente mantenimento della composizione
sociale della zona.
Il confronto è lungo, durissimo e
consapevole. Pier Luigi Cervellati vi
partecipa più volte in prima persona
spiegando, illustrando, portando
l’esperienza concreta della ristrutturazione
del centro storico di Bologna a cui ha
lavorato.
L’amore per la propria terra,
dunque, diventò anche sforzo di capire e di
progettare, ma forse non vide la necessità
di dotarsi di strumenti per esprimersi e
contare.
Il destino di una città, come le grandi
questioni etiche o morali, dovrebbe essere
deciso tramite modalità che non si
identificano con la sola dialettica fra
partiti o istituzioni. Dovrebbe, anche,
essere controllato con strumenti diversi da
quelli preposti alla vigilanza
sull’ordinaria gestione della vita e della
spesa pubblica. D’altro canto è evidente la
differenza che c’è fra scelte ordinarie,
sempre revocabili o emendabili, e scelte di
fondo le quali, una volta attivate,
tracciano percorsi irrevocabili in larga
misura.
Comunque sia e quale che fosse la scelta più
giusta da adottare in quella situazione, da
essa doveva discendere, perché obiettivo
dichiarato di tutti, maggiore vigilanza sul
fenomeno, maggiore sicurezza della città.
I fatti sono noti e sotto gli occhi di
tutti.
Fu decisa la riduzione della densità
abitativa, l’abbattimento dei vani svuotati,
la loro ricostruzione a Monterusciello. Ma,
costruito il megaquartiere e insediativi
migliaia di cittadini, non è stata abbattuta
una sola delle case svuotate. Esse, per un
po’, sono state abbandonate, poi sono state
vendute, riattate e rivendute, a costi
altissimi, ad acquirenti ovviamente
benestanti e generalmente proveniente da
Napoli.
La densità abitativa del centro storico è,
dunque, rimasta immutata mentre, com’è
ovvio, è cresciuta quella della città ai cui
abitanti del 1982, in parte spostati a
Monterusciello, vanno aggiunti i nuovi
residenti che hanno comprato le case
lasciate per effetto della pretesa riduzione
del numero di presenze in quell’area.
Monterusciello, a venti e passa anni dalle
prime assegnazioni degli alloggi agli
sfollati, continua a scontare
l’emarginazione d’una periferia foltissima e
abbandonata che ha smarrito perfino la
consapevolezza d’essere parte di una
Pozzuoli di cui i bambini presenti nelle
scuole non sanno nulla e vivono come un
altro paese. I maestri provano a far vivere
quel legame portando gli alunni in visita al
Porto, alla Solfatara, all’Anfiteatro. Ma
ovviamente è poco e non basta.
In quest’ultimo periodo è stato
definitivamente smantellato il poco restato
dell’Ufficio Bradisisma che, nella fase
dell’emergenza, si era fatto le ossa
diventando interlocutore di un’intera
cittadinanza.
Vigilanza e sicurezza, a ventitré anni da
quella crisi bradisismica intensa, non sono
state realizzate, anzi sembra che le
condizioni di rischio siano, oggi, più
rilevanti che allora.
D’altro canto l’enorme afflusso di danaro
pubblico giunto in occasione del bradisisma
ha modificato nel profondo la città e il suo
modo di vivere.
Recentissime notizie di cronaca descrivono
una Pozzuoli pervasa da corruzione e
delinquenza organizzata le cui influenze su
amministrazione, consiglio e uffici
comunali, azienda sanitaria locale, mercato
ittico e carabinieri vengono indagate dalla
magistratura ordinaria o da apposite
commissioni.
Di tutto questo, prima del 1980, non si
aveva idea.
È dunque evidente che i considerevoli
finanziamenti pubblici, il modo della loro
gestione, hanno offerto alla criminalità e
ad una disinvolta mentalità affaristica,
un’occasione, pienamente sfruttata,
d’insediamento, di radicamento, di
arricchimento.
Ma è altrettanto evidente che questa
penetrazione, nell’arco degli anni seguiti a
quelli della spesa pubblica per bradisisma,
non ha trovato ostacoli o antidoti; pare
anzi che abbia continuato a trovare terreno
fertile anche perché è mancata una
resistenza della città, dei suoi
cittadini, della sua cultura diffusa.
A questo, sicuramente, non è estranea la
chiusura delle fabbriche che comincia prima
delle crisi bradisismica ma che si conclude
poco dopo la fine dell’emergenza. Viene cioè
meno quella classe operaia che, per anni,
aveva avuto un ruolo ed un prestigio sociale
basato su di un senso comune fatto di
valore del lavoro, di rispetto per le regole
e la legalità, di partecipazione sociale e
politica, di intensa vita collettiva.
Venuto meno tutto questo, arrivati fiumi di
danaro, la città si riduce,
progressivamente, ad essere sovrastata da
una cappa d’illegalità piccole o grandi
contro le quali non viene un segno di
ripulsa, un moto d’indignazione, un
tentativo di ribellione.
È come se quell’amore per la propria terra
si fosse ritratto dopo che al suo slancio è
seguito il contrario di quello che si
proponeva.
Tornano, a questo punto, le responsabilità
della politica, ma questa è materia per un
altro articolo oltre ad essere tema del già
citato articolo di S. Mandile.
Quello che invece si può dire, restando al
tema di queste note, è che l’amore per la
propria terra come ogni altro amore può
esprimersi in affettuosa e concreta
attenzione o in irragionevole volontà di
possesso che appunto si soddisfa del
possedere senza interrogarsi né del come né
del cosa ne venga.
A imboccare una via o l’altra, nella vita
delle città, contribuisce, in maniera forse
determinante, il ruolo dei gruppi dirigenti.
Non il ceto politico, o non solo, ma gli
intellettuali, i professionisti, gli
imprenditori dai quali, alla fine, viene
un’indicazione semplice: si vive nella città
o sulla città. |