Il caso del Master Mapaus
dell’Università di Ferrara
Non è consueto svolgere riflessioni
disciplinari a partire da un’esperienza
didattica, in particolare se le riflessioni
emergono a partire da un master, quindi da
corsi post laurea che si innestano a volte
occasionalmente, altre volte con continuità,
spesso comunque in modo eccezionale rispetto
alla normale macchina didattica,
organizzativa e amministrativa di Facoltà e
Dipartimenti.
Devo, quindi, ringraziare la direzione di
areAVasta per avermi suggerito proprio
questo tipo di esercizio sulla base della
personale esperienza di direttore della
seconda edizione del Master in
Programmazione di ambienti urbani
sostenibili, master di II livello
organizzato dalla Facoltà di Architettura di
Ferrara in collaborazione con tre Università
latino-americane e sostenuto da numerosi
sponsor ed enti pubblici italiani1.
Colgo questa occasione per cercare di
riordinare alcuni ragionamenti e
considerazioni che, da alcuni anni, i
docenti dell’area di pianificazione
territoriale di Ferrara hanno sviluppato.
Prima di fare ciò, riporto brevemente il
contenuto di un colloquio avuto con Federico
Venturi, rappresentante degli studenti di
Architettura nel Consiglio di Facoltà, che
nelle scorse settimane, al termine del
periodo didattico del Mapaus (8
marzo-28 maggio 2004), per sostenere quanto
grave fosse ormai la deriva dell’Università
italiana, criticava lo sforzo prodotto per
condurre il Master, mentre l’offerta
didattica di base si starebbe impoverendo e
livellando per favorire quella post laurea e
a pagamento2. Non sono sicuro di
aver convinto Venturi del contrario, ma
forse sono riuscito ad avvicinarlo alle mie
ragioni, alcune delle quali espongo di
seguito.
Perché aumentano i master e quale vuoto
riempiono?
I master aumentano di numero e di costo
perché rappresentano indubbiamente un
accessorio ormai indispensabile per facoltà
e atenei e perché sono ritenuti – a volte
erroneamente – un mezzo per fare cassa, per
aumentare le entrate in luogo di un
difficile e impopolare aumento delle tasse
di iscrizione ai corsi di laurea. Ma queste
sono risposte semplicistiche che non
spiegano completamente il fenomeno, anche se
sono giustificate qualora provengano da
quegli studenti che vivono l’Università non
solo per sostenere esami e conseguire un
titolo.
I master, o almeno i migliori fra i tanti,
troppi, offerti dalle Università italiane,
proliferano perché vanno a colmare un vuoto,
o meglio, delle smagliature che,
progressivamente, si aprono fra gli spazi
epistemici e pratici che separano o
avvicinano famiglie disciplinari e campi del
sapere completamente diversi e, fino a ieri,
rigidamente separati. E proliferano perché
la formazione universitaria di base non è
più in grado, e sempre meno lo sarà, di
rispondere adeguatamente all’aumento delle
materie, all’acuminarsi e frammentarsi delle
specializzazioni, all’aumento della
complessità scientifica e della realtà. Solo
venti anni fa, quando io ero matricola allo
Iuav, i corsi di laurea in Architettura e i
pochi in Urbanistica allora attivi non
insegnavano, se non pionieristicamente, il
disegno automatico e la modellazione
digitale; il diritto urbanistico e,
addirittura, i fondamenti del diritto
amministrativo; la valutazione e le sue
molteplici tecniche, la gestione urbana e la
gestione e valutazione finanziaria dei
progetti, la partecipazione, le politiche,
l’inglese, il paesaggismo e, finalmente, il
diritto ambientale, la valutazione
ambientale, le tecniche di ingegneria
ambientale, l’ecologia applicata, ecc.
Oggi gli studenti devono, quindi, affrontare
da un lato, l’ampliarsi dei ventagli
disciplinari – a cui necessariamente
corrisponde il minore approfondimento delle
discipline centrali e tradizionali –
dall’altro, incontrano solo superficialmente
o parzialmente una complessità prima
sconosciuta. Questo stesso processo è
vissuto preventivamente e in maniera non
meno sofferta da docenti e ricercatori che,
sia scientificamente sia nelle pratiche di
ricerca o professionali, sperimentano ormai
quotidianamente le trasformazioni imposte
dallo sviluppo delle tecnologie, dei saperi,
dei processi economici e sociali e
l’emergere di nuove criticità, quella
ambientale per prima.
Per una parte consistente dei giovani
studenti di Architettura, aumento delle
materie e scoperta della complessità si
coniugano anche con una crescente capacità
di mobilità internazionale. Solo venti anni
fa, infatti, il Programma Erasmus,
iniziativa alla quale l’attuale Università
europea deve uno dei più straordinari
processi di integrazione e di scambio che
siano mai stati promossi, era soltanto
un’idea della tecnoburocrazia comunitaria.
Per non fare che un esempio, nel 1986,
quattro o cinque studenti dello Iuav
partirono con le prime borse Erasmus. Nel
2004 la sola Facoltà di Architettura di
Ferrara ha inviato in Europa e nelle
Università latino-americane 74 dei 150
studenti iscritti al IV anno, ricevendone
altrettanti per periodi variabili fra i sei
mesi e un anno. Si tratta di una
trasformazione profonda, che cambia la mente
e la visione del mondo degli studenti, li
rende più intelligenti e capaci di
confrontarsi con ciò che è diverso,
sconosciuto, anche scomodo e, spesso, ne
aumenta il desiderio e la necessità di
proseguire gli approfondimenti e gli studi
dopo la laurea.
Le esperienze della Facoltà di Architettura
di Ferrara
Il Master Mapaus è lo stadio più
recente di una sperimentazione didattica, ma
anche di ricerca e di riforma
dell’organizzazione della struttura
tecnico-amministrativa dell’Università di
Ferrara, avviata, nel 1994, per volontà di
Paolo Ceccarelli, allora Preside della
Facoltà di Architettura, con la prima
edizione del Master in City Management,
diretto da Gastone Ave. Si trattò di
un’esperienza pionieristica di integrazione
disciplinare, progettata per la formazione
di una figura professionale che si andava
imponendo in quegli anni e che necessitava
della coniugazione di saperi diversi: dal
diritto amministrativo alla finanza locale,
dalle tecniche di gestione alle pratiche di
pianificazione e così via.
Fra il 1999 e il 2001, grazie al
finanziamento straordinario ottenuto dal
Ministero dell’ambiente e al sostegno
operativo e finanziario dell’Agac di Reggio
Emilia, la Facoltà di Architettura
organizzava il Master in Gestione
ambientale e sviluppo sostenibile (Megas),
ancora una volta promosso da Paolo
Ceccarelli e diretto da Gastone Ave. Dal
punto di vista della costruzione di un
programma di studi interdisciplinare, il
Megas fu un vero e proprio punto di svolta,
trattandosi di un master biennale (lezioni
dal venerdì al sabato), focalizzato sulla
gestione ambientale e le pratiche di
sostenibilità, destinato a dirigenti e
funzionari dell’amministrazione pubblica
locale e a tecnici dell’Arpa (dei 60 allievi
solo una minoranza era laureata in
Architettura, Pianificazione o Ingegneria) e
a cui hanno insegnato quasi 100 docenti,
provenienti da una quindicina di atenei, da
imprese private e da pubbliche
amministrazioni di ogni livello. Le materie
insegnate in quel corso spaziarono, infatti,
dalla termodinamica, come presupposto per
spiegare i principi della sostenibilità,
alle tecniche per il recupero dei corpi
idrici; dalla pianificazione strategica alle
pratiche per lo sviluppo locale; dalle
tecniche di negoziazione e partecipazione
alla allora quasi sconosciuta valutazione
ambientale strategica, passando per le
metodiche della valutazione di impatto
ambientale e poi, ancora, diritto
amministrativo e ambientale, sociologia
delle organizzazioni, gestione finanziaria e
aziendale, e così via.
Infine, nel 2000, rispondendo al bando per
l’internazionalizzazione dell’Università
italiana, promosso dal Ministero
dell’università e della ricerca scientifica
e tecnologica, la Facoltà ottenne il
finanziamento del 50% dei costi di avvio del
Master Mapaus, organizzato e promosso
congiuntamente, nel 2001, dall’Università
degli Studi di Ferrara e da Paranacidade,
agenzia per la programmazione e la
pianificazione dello Stato del Paranà in
Brasile. Il Master si proponeva di formare,
attraverso un’esperienza congiunta
italo-brasiliana, quadri per il settore
della pubblica amministrazione capaci di
gestire la progettazione di ambienti urbani
sostenibili. Il processo formativo, basato
sulle competenze delle due istituzioni
promotrici (accademiche e di governo del
territorio, programmazione e gestione
finanziaria dei progetti), metteva a
confronto le diverse esperienze e condizioni
dei due paesi, con l’obiettivo non
secondario e poi centrato di contribuire
alla creazione di reti internazionali di
tecnici, operanti nelle pubbliche
amministrazioni e nelle imprese private,
capaci di mantenersi in contatto,
aggiornandosi e scambiandosi materiali,
indicazioni, modelli di intervento3.
Ricordare gli antecedenti non è un banale
espediente per dare lustro alle iniziative
promosse, quanto il modo più efficace per
restituire sinteticamente le tappe di un
processo di affinamento mai cristallizzatosi
e anzi in continua evoluzione, sia
organizzativa sia disciplinare. Il tratto
distintivo dei tre corsi (Master CiMa I, II,
III, IV; Master Megas; Master Mapaus I e II)
è stato, infatti, fin dall’inizio quello di
una interdisciplinarità tanto avanzata da
creare, a volte, anche seri problemi di
dialogo e di comprensione – si potrebbe dire
di smarrimento – sia fra gli alunni sia fra
i docenti. Tale caratteristica, richiedendo
un’azione continua di monitoraggio e di
coordinamento da parte dello staff direttivo
e di coordinamento, ha trasformato quest’ultimo
nel primo bersaglio della formazione. Da
queste esperienze ho, quindi, tratto il
convincimento che se chi si occupa di un
master non trova occasione di apprendimento
dal programma formativo che ha contribuito a
definire, seguendo per quanto possibile le
lezioni, significa che quel corso non
presenta interessanti livelli di
approfondimento, innovazione e ampliamento
degli orizzonti, perché i master, a
differenza della didattica di base, offrono
la rara possibilità al singolo docente di
utilizzare per il momento dell’esposizione
didattica lo stadio più avanzato della
ricerca.
Specializzazione, interdisciplinarità,
transdisciplinarità
Infatti, se è vero che tanto l’interdisciplinarità
accademica quanto l’intersettorialità
amministrativa, rappresentano, dopo circa 40
anni di discettazioni e una sempre elevata
difficoltà di applicazione, quasi un luogo
comune dei discorsi epistemologici e dei
ragionamenti sulle buone o migliori
pratiche, è anche vero che alcuni hanno già
iniziato a parlare di transdisciplinarità,
sostantivo forse più adeguato nell’epoca del
transgender, delle mutazioni
genetiche, delle transizioni accelerate e
delle transnazionalità che producono
transculturalità. Del resto, mentre il
prefisso inter indica una posizione
intermedia fra spazi definiti ed esprime
reciprocità nel condividere determinati
spazi comuni, mantenendo la titolarità sui
propri specifici spazi, il prefisso trans
sta a significare un attraversamento in
atto da®a,
fra uno spazio e un altro, altrettanto
definiti inizialmente ma poi, in virtù
dell’avvenuto attraversamento e della
compenetrazione ottenuta, capaci di dar vita
a qualcosa di unitariamente diverso e non
solamente condiviso. E questa condizione,
sempre più frequente nelle traiettorie
disciplinari, epistemologiche e anche
professionali di chi opera sulla frontiera
dell’innovazione, costringe ad ascoltare,
imparare, rinnovare la propria cassetta
degli attrezzi, per affrontare, per esempio,
i nuovi termini della pianificazione
territoriale e urbanistica, ma anche la
questione ambientale, la continua
mutevolezza delle modalità di gestione e
attuazione e così via enumerando.
Nei master che ho avuto la fortuna di
coordinare e in quello che sto attualmente
dirigendo, ho avuto la possibilità di
verificare l’avvento di questa determinante
trasformazione, come anche la permanenza di
approcci semplicemente interdisciplinari,
individuando anche le aree molli in cui si
sta sviluppando transdisciplinarità e quelle
più dure in cui permane l’interdisciplinarità.
Ovviamente, la durezza o la mollezza di
queste aree ha a che fare immediatamente con
la classica – e anche discutibile –
separazione fra scienze dure, scienze umane
e discipline tecniche. Infatti, alcune
discipline e alcune aree disciplinari (la
sociologia, e in questa quella urbana, le
scienze politiche, l’ecologia, l’urbanistica
e la pianificazione, per esempio) sono
maggiormente portate al meticciato
culturale, per usare un’altra definizione in
voga, rispetto ad altre ancora e sempre
diffidenti verso le aperture ad altri mondi
del sapere, altri paradigmi, altre
tassonomie (la geologia, la biologia, la
chimica, con l’eccezione di Enzo Tiezzi).
Altre mi sembrano trovarsi a metà del guado
(l’economia, la giurisprudenza, la
statistica), in uno spazio nel quale alcuni
singoli, o appartenenti a filiere
accademiche ancora minoritarie, stanno
tentando di innovare modelli e paradigmi
interpretativi (gli economisti ambientali e
gli amministrativisti), introducendo il
territorio, il confronto fra le pratiche e
l’analisi delle politiche all’interno dei
loro saperi. Mi sembra comunque
indiscutibile che la questione ambientale e
la ribalta assunta in questi ultimi due
decenni dalle politiche urbane e da quelle
territoriali abbiano imposto definitivamente
l’interdisciplinarità come metodo – di
ricerca come anche di lavoro – mentre
iniziano a porre la transdisciplinarità come
fattore di innovazione4.
I Master fra rischi e opportunità
Se in termini epistemologici l’approccio
transdisciplinare richiede non solo la
predisposizione alla contaminazione ma,
soprattutto, la capacità di assumere,
metabolizzandoli con i propri, altri
linguaggi e altri metodi, piuttosto che
soffermarsi all’estrapolazione da altre
discipline di metafore e figure retoriche
esplicative, facendo proprie anche le
ragioni altrui (per essere semplicistici:
come conciliare le visioni dello sviluppo
degli economisti con quelle della
sostenibilità degli ecologisti?), in termini
didattici lo sforzo non è minore.
Premesso che ritengo improbabile, per quanto
detto sopra, riuscire a trasmettere
compiutamente questo tipo di saperi e di
complessità agli studenti dei corsi di
laurea, il problema è come impartirli agli
studenti di un master. I master possono
essere ultraspecialistici, monodisciplinari
o quasi, e interamente mirati a
specializzare gli allievi su un determinato
problema o pratica; oppure inter/transdisciplinari,
cioè finalizzati a introdurre gli studenti
in discipline e pratiche le più lontane
dalle specializzazioni e dalle professioni
degli alunni5. Questi ultimi sono
quelli più delicati: possono, infatti,
risolversi in un semplice bombardamento di
nozioni, oppure costruire quadri di
riferimento ampi, in cui il metodo, il
processo e la narrazione delle pratiche
emergono come i fulcri didattici, grazie ai
quali, successivamente, gli allievi
potrebbero approfondire e praticare la
transdisciplinarità. Questa tipologia di
master mira a formare un professionista
capace di gestire la complessità e forse, un
giorno, di coordinare gruppi
interdisciplinari proprio grazie alla
formazione transdisciplinare ricevuta.
Didatticamente, quindi, i docenti di un
master inter/transdisciplinare sono
costretti a esercizi non semplici di
misurata despecializzazione dei propri
linguaggi e metodologie e di traduzione del
proprio sapere per permetterne
l’assimilazione da parte di allievi
completamente estranei alla materia. E
questo senza livellare e banalizzare, semmai
accompagnando chi ascolta all’interno di
nuovi labirinti. Si tratta di esercizi ad
alto rischio di insuccesso, ma che
entusiasmano gli allievi se compiuti con
maestria e sensibilità didattica.
A mio avviso, malgrado il carattere
precipuamente didattico e spesso discontinuo
dei master, questi corsi comportano dei
rischi ma anche opportunità sostanziali per
una Università sempre più specializzata, ma
che necessariamente dovrà arricchire la
propria offerta post laurea per garantire
formazione avanzata e adeguata per i giovani
e aggiornamento per chi è già inserito nel
mondo del lavoro. Fra i rischi maggiori si
può temere un eccessivo utilizzo di questi
corsi come mero strumento di business,
giustificato dal presunto livellamento
dell’offerta didattica pre-laurea e dagli
scarsi stipendi dei docenti. L’opportunità
principale risiede, invece, nel carattere
extraordinario dei master rispetto alla
canonicità dell’offerta didattica e alla
lenta capacità di questa di rinnovarsi e
aggiornarsi a causa, essenzialmente, di
piani di studio particolarmente rigidi e
uniformati. I master permettono, infatti,
quello scambio interdisciplinare che la
quotidianità del lavoro universitario vede
sempre meno praticato, a causa del crescente
carico didattico, del crescente carico
burocratico-amministrativo assegnato ai
docenti, della crescente proceduralizzazione
a cui sono assoggettati, a causa delle
croniche carenze di fondi e di personale,
perfino i percorsi di ricerca; permettono,
anche se solo temporaneamente, una maggiore
mobilità dei docenti fra le sedi, altrimenti
limitata ai seminari e ai convegni;
rappresentano, infine, un eccellente
strumento di travaso del sapere dal momento
della ricerca o delle pratiche a quello
della didattica.
Note
1
La seconda edizione del Master Mapaus
è stata organizzata dalla Facoltà di
Architettura dell’Università degli Studi di
Ferrara, in collaborazione con le Facoltà e
i Dipartimenti di Architettura della
Pontificia Universidade Catolica de Curitiba
(Brasile), della Universidad Catolica de
Cordoba (Argentina), della Universidad
Tecnica Federico Santa Maria di Valparaiso
(Cile); è stato sostenuto, sia per la parte
didattica sia dal punto di vista
finanziario, dalla Provincia di Reggio
Emilia, dall’Azienda Gas Energia Ambiente
Spa di Ferrara e dal Comune di Ferrara; è
stato sostenuto finanziariamente anche dalla
Fondazione della Cassa di Risparmio di
Ferrara, dalla Camera del Lavoro di Ferrara
e dall’Istituto Italo Latino Americano; ha
ottenuto supporto didattico dalle Province
di Bologna e di Modena e dal Comune di
Ferrara.
2
La seconda edizione del Master Mapaus
ha avuto un costo di iscrizione di euro
2.500 per gli allievi italiani e euro 500
per gli allievi latino-americani. Per
sostenere finanziariamente i costi di
soggiorno in Italia degli allievi
latino-americani (alloggio e vitto per tre
mesi) sono state essenziali le risorse messe
a disposizione da sponsor e sostenitori.
Anche il periodo di formazione che il Master
organizza in Cile, Argentina e Brasile viene
finanziato a tutti gli allievi del corso.
Queste condizioni variano di anno in anno a
seconda delle risorse esterne che il Master
riesce ad ottenere.
3
La prima edizione del Master Mapaus
ha avuto dieci allievi, di cui cinque
italiani e cinque brasiliani, laureati in
Architettura, Ingegneria, Economia.
4
Proprio per posizionare il master lungo il
fronte più avanzato degli sviluppi
disciplinari di molteplici materie, quasi
paradossalmente, nel caso della seconda
edizione del Mapaus ho voluto provare a
riesumare il termine programmazione,
ormai considerato un vecchio attrezzo
della pianificazione e della gestione del
territorio, da molto tempo scomparso perfino
dalla letteratura disciplinare degli
economisti, eppure sempre presente nelle
difficoltà degli amministratori.
5
Il piano degli studi della seconda edizione
del Master Mapaus ha annoverato
contributi didattici dalle seguenti
discipline: Diritto amministrativo; Diritto
ambientale; Ecologia; Economia aziendale;
Epidemiologia; Finanza locale e Finanza
pubblica; Geologia; Ingegneria Ambientale;
Pianificazione territoriale; Politiche
pubbliche; Sistemi informativi territoriali;
Sociologia urbana; Statistica; diverse
Valutazione ambientale e Valutazione
economica; Urbanistica.
Fra le tematiche che hanno rivestito un
ruolo centrale nel corso del periodo
didattico, sottolineo: la pianificazione di
area vasta; la pianificazione strategica; la
programmazione complessa; le tecniche e le
pratiche di certificazione, di gestione, di
negoziazione, di partecipazione, di
valutazione.
Fra i principali contributi non accademici
che hanno arricchito e completato il
Mapaus ricordo: le pratiche di gestione
aziendale dell’Azienda Gas Energia Ambiente
di Ferrara nella fornitura di servizi
ambientali; le pratiche di pianificazione
territoriale del Comune di Ferrara e delle
Province di Bologna, Reggio Emilia e Modena;
le azioni ambientali promosse dal Comune e
dalla Provincia di Ferrara; i casi di
conflitto urbano emersi a Bologna rispetto a
intenzioni di riqualificazione urbana. |