Numero 8/9 - 2004

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La città infinita... mente abusiva


Roberto Gerundo

 

 

 

Al giro di boa della prima metà del decennio che sta scivolando sotto di noi, si comincia ad apprezzare come le cose siano veramente cambiate e da quel secolo breve, teoricamente dichiarato concluso da oltre quindici anni, solo ora si avverta sempre più nettamente il distacco.

Naturalmente, parliamo di ambiente e città, di amministrazione dell’urbanistica o, aggiornando il linguaggio, di governo del territorio, finendo col riferirci a quasi tutto possa accadere ad una comunità e ai suoi singoli componenti.

Ciò che è sicuramente cambiata è la politica e, quindi, la politica del territorio.

Qui non si fa riferimento agli orientamenti diversi che i governi succedutisi dal dopoguerra in poi hanno fatto registrare sul tema e alle disposizioni normative che li hanno supportati, ma ad un modo diverso di intendere il territorio e alle forme della sua salvaguardia.

L’interminabile fase storica sostanzialmente centrista, nella quale sono da includere i governi di centro-sinistra dell’ultimo quinquennio degli anni ’90, avevano considerato il territorio come un bene da tutelare e da fare sviluppare equilibratamente, adottando il metodo della pianificazione.

Ciò è riprovato, almeno in larga parte, dal complesso della legislazione approvata a valle della legge 1150/1942 che, pur generata in un particolare periodo, aveva arato il solco profondo che sarebbe rimasto di guida per l’operato del nuovo regime democratico che di lì a poco si sarebbe affermato in Italia.

I risultati hanno ampiamente deluso le aspettative, come è sotto gli occhi di tutti, sebbene il linguaggio sia rimasto, negli anni, improntato al rigore che caratterizza il difensore dei patrimoni culturali e ambientali di cui è disseminato il bel paese.

Oggi è cambiato anche il linguaggio e, in coerenza ad esso, opera la politica.

Negli anni trascorsi, qualsiasi amministratore pubblico avrebbe ritenuto indecoroso e sicuramente disconosciuto la paternità, ad esempio, di una lottizzazione per villette lungo la costa, salvo brigare per consentirne la realizzazione, magari cercando di far passare il tutto sotto silenzio.

Bisogna riconoscere che fra il pronunciamento formale delle istituzioni e il sentire comune della popolazione è sempre esistito un distacco più o meno ampio, per cui l’uomo qualunque, anche quando non dedito alla speculazione edilizia, non riusciva a comprendere perché non si potesse costruire, sempre e comunque, sull’area di proprietà.

Ancora oggi, gran parte della popolazione italiana non si meraviglierebbe a vedere palazzine crescere nei pressi di battigie sabbiose o colline a bosco.

La politica ha avuto, quindi, una funzione educativa e gli italiani sono stati costretti a crederci, pur fra i mugugni o la decisione di risolvere i problemi in piena e abusiva autonomia, scelta peraltro opzionata da una moltitudine.

Vi era stata, quindi, per oltre mezzo secolo, una convenzio fra le forze politiche in base alla quale il territorio, bene oggettivamente scarso quantitativamente e pregiato qualitativamente, andasse salvaguardato senza tentennamenti, almeno a parole.

E, sicuramente, nelle leggi della Repubblica.

Si potrebbe chiamare, questo atteggiamento, senso dello Stato, con a corredo le umane debolezze proprie della nostra tradizione, improntata a cristiana tolleranza.

Il primo condono edilizio, nel 1985, andava a sanare una marea di abusi e di devastanti manomissioni dell’ambiente, anche se, formalmente, la legge 47 era declinata come una riforma ampia e capillare nel settore del controllo del territorio, in prospettiva della piena eliminazione del fenomeno dell’abusivismo edilizio. Insomma, un passo indietro sicuro, ma due passi avanti possibili. Ancora una riprova del senso dello Stato, fra tante incertezze.

Già allora, si prefigurava una prima latente emersione di quel senso comune o, meglio, di quella parte di opinione pubblica che avrebbe voluto emergere e trovare rappresentanza politica e culturale.

Quel condono fu ideato dal tandem Craxi-Nicolazzi, il primo presidente del Consiglio dei ministri, il secondo Ministro dei lavori pubblici.

Il secondo condono edilizio, nel 1994, fu partorito dal vecchio-nuovo tandem Belusconi-Radice, in analoghe responsabilità di governo.

Il senso comune, in fase di progressivo, anche se lento, accreditamento, comincia a mettere radici e nonostante sia trascorso quasi un decennio, punta ancora sulla gestione del territorio per definire un proprio intervallo di esistenza.

Trascorrono ulteriori dieci anni e si perviene al terzo condono edilizio Berlusconi-Tremonti (-Lunardi-Mattioli), di nuovo Presidente del consiglio dei ministri e Ministro dell’economia (-Ministro delle infrastrutture-Ministro dell’ambiente).

Non è più il parto improvvisato di un Berlusconi di ispirazione craxiana, come lo aveva definito l’ex Presidente del consiglio dei ministri Massimo D’Alema; si comincia, infatti, a delineare una politica del territorio ben più esplicita, facendo affiorare la chiave di lettura, più convincente, di un Craxi pre-berlusconiano.

La prima legislatura del 2000, porta, nel governo del territorio, un immaturo ed egoistico senso comune al potere.

***

Sono in molti a sostenere che sia stata solo una questione di cassa, l’idea di varare il terzo condono edilizio con il decreto legge 260/2003, ma, a ben vedere, solo all’inizio, in quanto non lo era prima né lo è stato dopo.

Sul prima, si deve ricordare come diversi candidati sindaci, in occasione della tornata elettorale del 2001, a cominciare dalle città di Roma e Napoli, ebbero a spezzare una lancia nei confronti degli abusivisti di quei territori, dichiarando che, vincenti loro, si sarebbe dovuto costruirle le case e non certo demolirle.

È questo un passaggio importante verso la creazione di un blocco sociale, elettoralmente forte, già svezzato dal secondo condono edilizio del 1994.

Ma quegli aspiranti sindaci rimasero tali.

Anche le ruspe, in talune occasioni, rimasero parcheggiate un ché di troppo, ma non furono dismesse, a testimonianza della posizione formale delle istituzioni.

Quel blocco sociale, che dal 1994 si era accresciuto di ulteriori adepti e aveva dato fiducia ai nuovi governanti, contribuendo al loro successo, doveva essere premiato.

L’occasione è stata la necessità di fare cassa per sostenere un’altra affermazione del senso comune: la riduzione del carico fiscale senza se e senza ma.

Ma subito dopo, per altro a raggiungimento ormai fallito dell’ammontare dei 3,6 miliardi di euro di gettito preventivato, si riprende la strada di un governo del territorio sbilanciato sul senso comune.

Si passa così ad un altro condono, riguardante gli sconfinamenti su aree demaniali, varato con legge 212/2003, secondo il quale le porzioni di aree appartenenti al patrimonio e al demanio dello Stato, interessate dallo sconfinamento di opere eseguite entro il 31 dicembre 2002 su fondi attigui di proprietà altrui, sono alienate a cura della filiale dell’Agenzia del demanio territorialmente competente mediante vendita diretta in favore del soggetto legittimato che ne faccia richiesta.

L’impatto della norma è mitigato dalla necessità che le suddette opere siano urbanisticamente legittime, non ricadano nel demanio marittimo o siano gravate da vincolo paesaggistico (Tabella 1).

Tabella 1

 

Si è in presenza di un aspetto di dettaglio nella generale problematica del distorto uso del suolo, in questo caso a danno diretto dello Stato e dei suoi beni, ma paradigmatico di un nuovo rapporto fra pubblico e privato, in cui gli interessi di quest’ultimo sono tendenzialmente prevalenti rispetto a quelli del primo.

È vero che, nella fattispecie, si tratta di opere urbanisticamente conformi agli strumenti urbanistici vigenti, anche se illegittimamente autorizzate per mancanza di titolo a richiedere l’atto abilitativo.

Chi opera nel settore edilizio sa bene che occupare un pezzo di proprietà pubblica passa spesso sotto silenzio e, in molti casi, non se ne viene neanche a conoscenza.

Nutrendo grande considerazione per la preparazione professionale dei tecnici comunali, l’ipotesi che, probabilmente, i suddetti sconfinamenti siano stati spesso più che consapevoli, se non in qualche caso premeditati, non peccherebbe di atteggiamento eccessivamente sospettoso.

Infine, che lo Stato debba e non possa alienare i beni sottratti, per altro a prezzi del tutto convenienti – si fissa, in zona agricola, l’importo di 10 euro/mq – e non gravati da alcuna componente che dia conto, in qualche modo, di un atteggiamento sanzionatorio, conferma la tesi iniziale.

La stima del possibile ricavato dell’aliquota di immobili che saranno messi a disposizione si aggira sui 250-300 milioni di euro al massimo, contro gli 1,2 miliardi che erano stati preventivati, dal Governo, sotto la copertura, ormai politicamente sempre più stretta, di voler fare unicamente cassa.

Ottenuta la coppia, si punta al tris, conseguito con l’approvazione della normativa sulle aree percorse dal fuoco, contenuto nella legge 350/2003, in base alla quale, “le zone boscate e i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni”, modificativa della precedente normativa, la legge 353/2000 in materia di incendi boschivi. che prevedeva unicamente la non edificabilità delle stesse.

In sostanza, tali zone non sono più inedificabili per i successivi quindici anni dall’evento, a patto che non lo fossero già prima, secondo gli strumenti urbanistici vigenti.

Ma che genere di strumenti: recenti piani regolatori o vecchi programmi di fabbricazione; in pianura o in collina; nell’entroterra o sulla costa?

Certo se il fuoco divora il terreno, ci sarà un bosco, una macchia o un pascolo, come riconosce la stessa norma, e non un suolo sterrato o incolto, percorrendo il quale si sarebbe ben presto annichilito.

E come faceva ad essere edificabile un suolo coperto da vegetazione rigogliosa?

Almeno, la norma abrogata consentiva una moratoria entro la quale si sarebbe potuto verificare l’idoneità della precedente destinazione urbanistica e proporne una più consona alla salvaguardia delle preesistenze arboree, imponendo comunque il ripristino della configurazione naturale andata distrutta.

Infine, il poker arriva con il condono ambientale, contenuto nella legge 308/2004, all’interno del provvedimento di delega in materia di riordino della relativa disciplina.

In realtà, i condoni sono due: il primo determina una sanabilità ordinaria degli abusi commessi in zone gravate da vincolo paesaggistico, realizzati in assenza o in difformità rispetto alla prevista autorizzazione; il secondo, consente una sanatoria straordinaria per i lavori effettuati, senza autorizzazione paesaggistica, entro il 30 settembre 2004.

La suddetta norma prevede che l’accertamento della compatibilità paesaggistica, a seguito di apposita domanda da presentarsi entro il 31 gennaio 2005, estingue il reato penale commesso, senza entrare negli aspetti amministrativi del condono (Tabella 2).

Tabella 2

 

Nel primo caso, invece, la condonabilità è permanente “qualora l’autorità amministrativa competente accerti la compatibilità paesaggistica nel caso di … lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; … per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica; ... configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria …”.

Anche in questo caso, il rapporto fra Stato e cittadino si flessibilizza, ma determinando l’aumento dell’entropia del sistema, in termini di maggiore confusione comportamentale.

Ciò determinerà, con ogni probabilità, una tendenza a non rispettare l’autorizzazione paesaggistica ottenuta o a non richiederla affatto, essendo sempre possibile sanare le difformità, qualora accertate dalla pubblica amministrazione, senza oneri aggiuntivi per chi ha violato la norma (Tabella 3).

Tabella 3

 

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La costruzione di un blocco sociale è, tuttavia, molto più facile a ottenersi sulle aspettative che sulle risposte concrete che si riescono a dare tentando di organizzare una macchina amministrativa efficiente.

Il condono edilizio del 2003, il terzo della serie, infatti, ha registrato una rilevante censura della Corte costituzionale che ha smontato l’approccio neocentralista del Governo, riconoscendo alle regioni la facoltà di legiferare in modo ampio sui destini urbanistici dei propri territori.

In particolare, rientrano nelle competenze dello Stato la definizione dei “contenuti di principio” della sanatoria, del “titolo abilitativo edilizio”, dei profili penali del condono, del limite temporale massimo di realizzazione delle opere condonabili e, infine, la determinazione delle relative volumetrie massime.

Alle regioni, la sentenza 196/2004 della Corte costituzionale riconosce “per tutti i restanti profili … un ruolo rilevante … nella articolazione e specificazione” delle disposizioni dettate dal legislatore statale, in merito agli aspetti amministrativi del condono.

Le regioni possono, quindi, stabilire limiti volumetrici inferiori, determinando “la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità alla sanatoria di tutte le tipologie di abusi edilizi”, essendo lo spazio di manovra delle regioni a statuto speciale ancora maggiori.

In definitiva, lo Stato può solo costruire lo scenario di massima tolleranza entro il quale è ammessa una sanatoria edilizia.

Più in generale, la Corte costituzionale ritiene giustificato il suo operato in base alla dichiarata “opportunità che si preveda ancora una volta un intervento straordinario di condono edilizio nelle contingenze particolari della recente entrata in vigore del testo unico delle disposizioni in materia edilizia, nonché dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V della seconda parte della Costituzione, che consolida ulteriormente nelle regioni e negli enti locali la politica di gestione del territorio”.

Sotto il profilo tecnico-urbanistico, non si vede come il nuovo codice dell’edilizia possa centrare qualcosa con il fenomeno dell’abusivismo edilizio o abbia determinato un momento di incertezza nei cittadini, responsabile di averli confusi talmente da richiedersi un atto di riallineamento delle basi di partenza, quale è, generalmente, un provvedimento di condono di qualsiasi tipo esso sia.

Il richiamo al nuovo Titolo v della Costituzione è, poi, del tutto incomprensibile, rimanendo sensato solo il riconoscimento allo Stato a provvedere in materia penale.

Ben altro era stato lo stile della sentenza 416/1995, su ricorso della sola Regione Emilia Romagna, sull’art. 39 della legge 724/1994, relativo al secondo condono edilizio.

Vale la pena di riportare per esteso un suo passaggio fondamentale nel quale si afferma che “ben diversa sarebbe, invece, la situazione in caso di altra reiterazione di una norma del genere, soprattutto con ulteriore e persistente spostamento dei termini temporali di riferimento del commesso abusivismo edilizio. Conseguentemente differenti sarebbero i risultati della valutazione sul piano della ragionevolezza, venendo meno il carattere contingente e del tutto eccezionale della norma (con le peculiari caratteristiche della singolarità e ulteriore irripetibilità) in relazione ai valori in gioco, non solo sotto il profilo della esigenza di repressione dei comportamenti che il legislatore considera illegali e di cui mantiene la sanzionabilità in via amministrativa e penale, ma soprattutto sotto il profilo della tutela del territorio e del correlato ambiente in cui vive l’uomo. La gestione del territorio sulla base di una necessaria programmazione sarebbe certamente compromessa sul piano della ragionevolezza da una ciclica o ricorrente possibilità di condono-sanatoria con conseguente convinzione di impunità, tanto più che l’abusivismo edilizio comporta effetti permanenti (qualora non segua la demolizione o la rimessa in pristino), di modo che il semplice pagamento di oblazione non restaura mai l’ordine giuridico violato, qualora non comporti la perdita del bene abusivo o del suo equivalente almeno approssimativo sul piano patrimoniale”.

Non si vede perché non abbia la Corte costituzionale ripreso tali argomentazioni per bocciare in toto il terzo condono edilizio.

È qui accaduto un evento inedito per l’Italia. Molte regioni hanno ristretto le maglie dell’ammissibilità del condono governativo, riducendolo, in taluni casi, a interventi edilizi marginali e ininfluenti per l’assetto del proprio territorio.

Inoltre, Toscana, Emilia Romagna, Umbria, Marche, Veneto, Lombardia, Campania hanno legiferato in modo talmente distante da quanto il Governo si aspettasse, tanto da determinare quest’ultimo a impugnare, di rimando, le rispettive normative innanzi alla Corte costituzionale.

Alcune delle regioni citate sono, peraltro, amministrate da compagini politiche omologhe a quella governativa, facendo emergere ancora più forte la novità.

In buona sostanza, gli enti di governo più vicini alle popolazioni, quali sono le regioni, in controtendenza con quanto è consuetudine, hanno assunto atteggiamenti più rigorosi e repressivi nei confronti dei cittadini rispetto a quelli dallo Stato centrale che, essendo più distante da essi, attua, generalmente, azioni meno propense al compromesso e meno sensibili al consenso.

Al blocco sociale del senso comune, in costruzione da parte del Governo, si è così contrapposta la resistenza di un altro blocco sociale, trasversale ai diversi orientamenti politici, che ricomprende amministratori, funzionari e tecnici delle regioni e degli enti locali, i quali sono di molto impensieriti, per la loro stessa sopravvivenza politica e amministrativa, dall’incedere di una terza ondata di condoni edilizi e dal conseguente stabilizzarsi del fenomeno dell’abusivismo, alimentato, dalla iterazione progressiva dell’adagio popolare non c’è due senza tre.

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L’aspetto maggiormente inquietante della complessiva vicenda dei ripetuti e diversificati condoni edilizi, quale strategia di lungo periodo per la costruzione di un blocco sociale, generatore, in prospettiva, di specifico consenso elettorale, sta nella mancata comprensione della disastrosa saldatura fra gestione del territorio e fuoriuscita da condizioni prevalenti di legalità delle popolazioni insediate, in particolare nel Mezzogiorno.

La riprova è fornita non solo dalla distribuzione del fenomeno dell’abusivismo edilizio e dal suo incremento percentuale fra il 2002 e il 2003, conseguente alle aspettative generate dal Governo nell’opinione pubblica (Tabella 4).

Tabella 4

 

Le regioni meridionali mantengono saldamente sia il primato del maggior numero di abusi commessi, sia l’incremento percentuale più alto fra le due annualità.

Ma anche dalla propensione all’emersione dell’intero comparto edilizio.

A riprova di tale tesi, si possono analizzare i dati sulle ristrutturazioni di immobili per le quali sono stati richiesti gli sgravi fiscali accordati dalla normativa vigente.

Le popolazioni meridionali non solo non fruiscono di tale interessante opportunità, ma arretrano nel suo utilizzo, con il passare degli anni (Tabella 5).

Tabella 5

 

Che le dinamiche edilizie possano essere più contratte al sud rispetto al centro-nord è del tutto comprensibile, quale frutto del crescente divario socio-economico esistente tra le due realtà, ma ciò non assolutamente verificabile in modo così eclatante (Figura 1).

1 - Fonte: Agenzia delle entrate, 2004

 

Al sud, gli interventi sul preesistente patrimonio edilizio non sono trascurabili in termini di diffusione e numerosità, ma vengono prevalentemente effettuati al nero, in modo da sfuggire al complesso delle regole e delle responsabilità fiscali, contributive, amministrative, urbanistiche.

Il diretto corollario di tale situazione e l’affermarsi di un’imprenditoria edilizia occulta e, come tale, facile preda della malavita organizzata.

Mentre l’abusivismo edilizio è prevalentemente animato da ceti sociali marginali e suburbani, la ristrutturazione edilizia, operando prevalentemente nella città consolidata, su tessuti edificati in larga parte legittimi sotto il profilo urbanistico, tendenzialmente abitati da ceti sociali medio-alti, vede coinvolta l’intera popolazione urbana in atteggiamenti e derive che privilegiano la scorciatoia illegittima rispetto alla legalità.

Anche in una fase come l’attuale, che vede il massimo della semplificazione procedurale nel settore edilizio.

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Nella contesa fra un territorio da sfruttare, in un’ottica anarco-liberista, frontiera estrema e rampante del neoconservatorismo nordamericano, rispetto ad un ambiente da tutelare, in modo da poterlo trasferire nelle migliori condizioni possibili alle generazioni future, la politica governativa continua a segnare altri punti a vantaggio della prima posizione.

Ne è ulteriore riprova l’impugnazione innanzi alla Corte costituzionale della legge regionale sarda 8/2004, cosiddetta salvacoste, concernente norme urgenti di provvisoria salvaguardia per la pianificazione paesaggistica e la tutela del territorio regionale.

L’ipotesi della impugnazione é che il Consiglio regionale sia andato al di là delle proprie competenze, invadendo quelle dello Stato, che ai sensi dell’art. 117 della Costituzione sono esclusive in materia di ambiente e beni culturali.

A tale censura ha replicato la stessa amministrazione regionale sarda, facendo presente che la pianificazione paesistica spetta alla Regione e non allo Stato.

L’impugnativa riguarda anche il blocco delle pale eoliche, perché la legge regionale violerebbe il decreto legislativo 387/2003 che recepisce una Direttiva europea sulla promozione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili, laddove prevede che tali fonti siano considerate di pubblica utilità.

Appare evidente come, anche in questo caso, lo scontro sia ancora fra il senso comune, cavalcato da una parte politica, ed una prospettiva di governo organico del territorio, auspicata dall’altra, in quanto le leggi regionali sarde contestate non chiudono definitivamente determinate prospettive di utilizzo del suolo ma lo subordinano alla predisposizione di appositi strumenti di pianificazione urbanistica.

Ma, ancora, appare sorprendente, a denotare un effettivo profondo mutamento di clima culturale e politica, come il ruolo del Governo non sia stato quello di sopperire ad una mancanza di tutela del territorio da parte di una regione, ma di vanificarne gli sforzi nel cercare di farlo in modo razionale.

 

 

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