L’argomento
merita certamente tutte le attenzioni del
caso, tuttavia prima di entrare nel vivo
occorre fare una breve premessa tra
l’attività di cava e di miniera.
La differenza
tra queste attività, se nel passato poteva
avere delle ragioni, oggi di fatto le ha
perse. Infatti, l’attività di cava riguarda
la coltivazione di materiali di seconda
categoria, come lapidei, mentre l’attività
mineraria riguarda i prodotti di prima
categoria, quali i metalli più o meno
pregiati. Il modo di coltivare le cave e le
miniere oggi non presenta differenze
sostanziali: sia per l’una che per l’altra
si procede a cielo aperto o, di rado, in
galleria, per cui la forse ed un’unica
sostanziale differenza è data dalle
disposizioni di legge in merito alla messa
in sicurezza per le miniere, e al ripristino
ambientale per le cave.
La questione
verterà proprio su questo aspetto, tenuto
anche conto della non semplice
interpretazione tra ripristino e messa in
sicurezza.
Visto che
oggi non si distingue in maniera netta
l’attività di cava da quella di miniera, non
è facile quindi comprendere perché fra le
due sia ancora presente una distinzione per
le attività post estrattive. Perché, ad
esempio, secondo l’attuale normativa le cave
di granito dovrebbero essere ripristinate,
mentre le miniere di talco devono essere
solo messe in sicurezza? In altri termini,
per le prime si dovrebbe procedere al
riempimento delle cavità e alla eventuale
rinaturazione, mentre per le seconde alla
stabilizzazione dei fronti, con tutto ciò
che comporta. Infatti, il ripristino delle
cave di granito non appare semplice: in
primis poiché occorre individuare i
possibili materiali per realizzare i
riempimenti, e poi per la non meno
importante rinaturazione. Ma se l’attività
di cava consiste proprio nell’estrazione, da
dove dovrebbero essere prelevati i materiali
per realizzare i ripristini?
Come è facile
comprendere, la questione risulta essere
assai complessa, soprattutto dal momento che
ha generato e continua a generare dei veri e
propri interventi di camuffamento,
spesso anche molto costosi e con scarse
ricadute per la collettività.
Sono numerosi
i progetti di ripristino ambientale, ma
pochi quelli che sono in grado di offrire un
giusto compromesso tra ambiente e ricadute
positive per la società.
Non che
voglia apparire provocatoria, ma forse non è
soltanto la categoria del materiale a
giustificare o meno il ripristino ambientale
o la messa in sicurezza. Infatti, c’è il
rischio che tutto il territorio possa essere
inteso allo stesso modo, ovvero che non vi
sia un’interpretazione oggettiva dei luoghi.
Ad esempio, vi possono essere cave di
granito che per loro conformazione e
localizzazione non necessariamente
richiedono un ripristino ambientale, mentre
potrebbero richiedere una riflessione di
tipo urbanistico, finalizzata
all’individuazione di nuove funzioni.
Posto che
l’attività estrattiva è necessaria al
regolare sviluppo di una società, non
risulta altrettanto necessaria la netta
distinzione tra cave e miniere per le
soluzioni post-estrattive, come pure
ritenere che i recuperi ambientali siano
solo prerogative delle cave e i ripristini
delle miniere.
Ciò stante,
si intravede un rischio latente, quello
della moltiplicazione degli effetti negativi
derivanti dall’attività estrattiva,
esprimibili in costi sociali, ulteriori
impatti ambientali, ecc.
Occorre,
quindi, ripensare l’attività estrattiva,
consapevoli del fatto che è un’attività
irreversibile, similarmente
all’architettura. Così come l’architettura
presenta delle inequivocabili motivazioni,
quali la residenza, gli spazi collettivi e
commerciali, ecc., anche l’attività
estrattiva possiede le sue motivazioni; il
problema è, quindi, comprendere fino a che
punto si possano accettare i suoi effetti
sull’ambiente.
Con ciò non
si vuole necessariamente considerare
fondamentale la valutazione di impatto
ambientale (Via) anche per le attività
estrattive, in quanto si ritiene sia
soltanto in parte efficace. L’esperienza,
infatti, mostra che è possibile dimostrare
tutto e il contrario di tutto, trascurando
così le vere motivazioni alla base della
Via.
Tuttavia, a
tal riguardo possiamo dire che qualche
cambiamento si è già riscontrato. In
particolare, le norme Uni 10975 del marzo
2002 “Linee guida per la redazione degli
studi di impatto ambientale relativi ai
progetti di attività di cava”: introducono,
al punto 3, le finalità e i requisiti dello
studio di impatto ambientale. Tale “studio
di impatto ambientale (Sia) relativo ad
un progetto di attività di cava ... non può
limitarsi alla sola fase di estrazione dei
materiali, ma deve comprendere,
congiuntamente alle operazioni di recupero
dell’area, anche l’attività a cui sarà
adibito il luogo al termine
dell’escavazione”.
Considerazione questa altamente moderna, ma
che lega l’impatto al solo riuso del sito e
non, come sarebbe maggiormente auspicabile,
anche all’uso del materiale estratto. La
norma prevede quindi che “in sintesi lo Sia
deve fare riferimento alle seguenti fasi: la
coltivazione della cava e il recupero della
cava e attività che diviene operativa
sull’area a recupero ultimato”.
La norma Uni
10975, pur modificando nella sostanza
qualunque atto precedente inerente gli studi
di impatto ambientale, ha trascurato il
fatto che spesso non è possibile individuare
nuove funzioni, sopratutto allontanandoci
dalla città in direzione del territorio,
trascurando invece il ruolo importante e
spesso significativo che certi materiali
rivestono. Basti pensare ad una cava di un
particolare marmo, che necessariamente deve
essere coltivata per riqualificare un
edificio di rilevanza architettonica quale
una cattedrale, un edificio civile di
particolare pregio, ecc.
Conta forse
di più l’uso del materiale o il riuso del
sito dal quale il materiale viene estratto?
Una domanda di certo non semplice, la cui
risposta appare difficile e complessa,
considerato che, se non riesce ancora a
trovare soluzione, è certo che il metodo
applicato non appare ancora esaustivo.
Si rischia
cioè di giustificare l’apertura di cava
esclusivamente per un potenziale compromesso
tra la produzione e il riuso del sito.
Come è facile
intuire, le motivazioni di tale
compromesso sono ben altre: quello che
crediamo riuso, secondo una più moderna
visione di pianificazione, è stato già da
numerosi decenni applicato. A titolo
d’esempio basti pensare all’anfiteatro
romano di Cagliari, originariamente cava e
poi spazio collettivo per spettacoli.
Dubito, che detta soluzione abbia seguito i
principi ispiratori della norma Uni 10975.
Infatti ciò
che contava era il materiale estratto e
quindi, in una seconda fase, la proposizione
del riuso.
Bibliografia
Irer (1998),
Il recupero di aree industriali dismesse
in ambiente urbano.
AA.VV.
(2001), Luoghi pubblici nel territorio.
Una proposta per le cave del Casertano,
Giannini Editore, Napoli.
Norme Uni
10975, marzo 2002.
AA.VV.
(2002), La città europea del XXI secolo,
lezioni di storia urbana, Skira Editore,
Milano. |