Numero 8/9 - 2004

 

la riqualificazione ambientale 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il ripristino ambientale delle attività estrattive tra necessità ed equivoco


Ginevra Balletto


 

Secondo l’attuale normativa di settore, le cave devono essere ripristinate mentre le miniere devono solo essere messe in sicurezza. Pochi sono, tuttavia, gli interventi programmati in grado di offrire un equilibrato compromesso fra esigenze di tutela ambientale ed aspettative sociali. Ginevra Balletto ascrive un’importante valenza alle norme Uni 10975, in base alle quali gli studi di impatto ambientale relativi alle attività di cava devono considerare anche le destinazioni cui saranno adibiti i luoghi al termine delle escavazioni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’argomento merita certamente tutte le attenzioni del caso, tuttavia prima di entrare nel vivo occorre fare una breve premessa tra l’attività di cava e di miniera.

La differenza tra queste attività, se nel passato poteva avere delle ragioni, oggi di fatto le ha perse. Infatti, l’attività di cava riguarda la coltivazione di materiali di seconda categoria, come lapidei, mentre l’attività mineraria riguarda i prodotti di prima categoria, quali i metalli più o meno pregiati. Il modo di coltivare le cave e le miniere oggi non presenta differenze sostanziali: sia per l’una che per l’altra si procede a cielo aperto o, di rado, in galleria, per cui la forse ed un’unica sostanziale differenza è data dalle disposizioni di legge in merito alla messa in sicurezza per le miniere, e al ripristino ambientale per le cave.

La questione verterà proprio su questo aspetto, tenuto anche conto della non semplice interpretazione tra ripristino e messa in sicurezza.

Visto che oggi non si distingue in maniera netta l’attività di cava da quella di miniera, non è facile quindi comprendere perché fra le due sia ancora presente una distinzione per le attività post estrattive. Perché, ad esempio, secondo l’attuale normativa le cave di granito dovrebbero essere ripristinate, mentre le miniere di talco devono essere solo messe in sicurezza? In altri termini, per le prime si dovrebbe procedere al riempimento delle cavità e alla eventuale rinaturazione, mentre per le seconde alla stabilizzazione dei fronti, con tutto ciò che comporta. Infatti, il ripristino delle cave di granito non appare semplice: in primis poiché occorre individuare i possibili materiali per realizzare i riempimenti, e poi per la non meno importante rinaturazione. Ma se l’attività di cava consiste proprio nell’estrazione, da dove dovrebbero essere prelevati i materiali per realizzare i ripristini?

Come è facile comprendere, la questione risulta essere assai complessa, soprattutto dal momento che ha generato e continua a generare dei veri e propri interventi di camuffamento, spesso anche molto costosi e con scarse ricadute per la collettività.

Sono numerosi i progetti di ripristino ambientale, ma pochi quelli che sono in grado di offrire un giusto compromesso tra ambiente e ricadute positive per la società.

Non che voglia apparire provocatoria, ma forse non è soltanto la categoria del materiale a giustificare o meno il ripristino ambientale o la messa in sicurezza. Infatti, c’è il rischio che tutto il territorio possa essere inteso allo stesso modo, ovvero che non vi sia un’interpretazione oggettiva dei luoghi. Ad esempio, vi possono essere cave di granito che per loro conformazione e localizzazione non necessariamente richiedono un ripristino ambientale, mentre potrebbero richiedere una riflessione di tipo urbanistico, finalizzata all’individuazione di nuove funzioni.

Posto che l’attività estrattiva è necessaria al regolare sviluppo di una società, non risulta altrettanto necessaria la netta distinzione tra cave e miniere per le soluzioni post-estrattive, come pure ritenere che i recuperi ambientali siano solo prerogative delle cave e i ripristini delle miniere.

Ciò stante, si intravede un rischio latente, quello della moltiplicazione degli effetti negativi derivanti dall’attività estrattiva, esprimibili in costi sociali, ulteriori impatti ambientali, ecc.

Occorre, quindi, ripensare l’attività estrattiva, consapevoli del fatto che è un’attività irreversibile, similarmente all’architettura. Così come l’architettura presenta delle inequivocabili motivazioni, quali la residenza, gli spazi collettivi e commerciali, ecc., anche l’attività estrattiva possiede le sue motivazioni; il problema è, quindi, comprendere fino a che punto si possano accettare i suoi effetti sull’ambiente.

Con ciò non si vuole necessariamente considerare fondamentale la valutazione di impatto ambientale (Via) anche per le attività estrattive, in quanto si ritiene sia soltanto in parte efficace. L’esperienza, infatti, mostra che è possibile dimostrare tutto e il contrario di tutto, trascurando così le vere motivazioni alla base della Via.

Tuttavia, a tal riguardo possiamo dire che qualche cambiamento si è già riscontrato. In particolare, le norme Uni 10975 del marzo 2002 “Linee guida per la redazione degli studi di impatto ambientale relativi ai progetti di attività di cava”: introducono, al punto 3, le finalità e i requisiti dello studio di impatto ambientale. Tale “studio di impatto ambientale (Sia) relativo ad un progetto di attività di cava ... non può limitarsi alla sola fase di estrazione dei materiali, ma deve comprendere, congiuntamente alle operazioni di recupero dell’area, anche l’attività a cui sarà adibito il luogo al termine dell’escavazione”.

Considerazione questa altamente moderna, ma che lega l’impatto al solo riuso del sito e non, come sarebbe maggiormente auspicabile, anche all’uso del materiale estratto. La norma prevede quindi che “in sintesi lo Sia deve fare riferimento alle seguenti fasi: la coltivazione della cava e il recupero della cava e attività che diviene operativa sull’area a recupero ultimato”.

La norma Uni 10975, pur modificando nella sostanza qualunque atto precedente inerente gli studi di impatto ambientale, ha trascurato il fatto che spesso non è possibile individuare nuove funzioni, sopratutto allontanandoci dalla città in direzione del territorio, trascurando invece il ruolo importante e spesso significativo che certi materiali rivestono. Basti pensare ad una cava di un particolare marmo, che necessariamente deve essere coltivata per riqualificare un edificio di rilevanza architettonica quale una cattedrale, un edificio civile di particolare pregio, ecc.

Conta forse di più l’uso del materiale o il riuso del sito dal quale il materiale viene estratto? Una domanda di certo non semplice, la cui risposta appare difficile e complessa, considerato che, se non riesce ancora a trovare soluzione, è certo che il metodo applicato non appare ancora esaustivo.

Si rischia cioè di giustificare l’apertura di cava esclusivamente per un potenziale compromesso tra la produzione e il riuso del sito.

Come è facile intuire, le motivazioni di tale compromesso sono ben altre: quello che crediamo riuso, secondo una più moderna visione di pianificazione, è stato già da numerosi decenni applicato. A titolo d’esempio basti pensare all’anfiteatro romano di Cagliari, originariamente cava e poi spazio collettivo per spettacoli. Dubito, che detta soluzione abbia seguito i principi ispiratori della norma Uni 10975.

Infatti ciò che contava era il materiale estratto e quindi, in una seconda fase, la proposizione del riuso.

 

 

Bibliografia

 

Irer (1998), Il recupero di aree industriali dismesse in ambiente urbano.

AA.VV. (2001), Luoghi pubblici nel territorio. Una proposta per le cave del Casertano, Giannini Editore, Napoli.

Norme Uni 10975, marzo 2002.

AA.VV. (2002), La città europea del XXI secolo, lezioni di storia urbana, Skira Editore, Milano.

 

 

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