Giuseppe Imbesi
Vi ringrazio per l’invito a partecipare a
questo forum: mi interessa molto per
più motivi. È l’occasione per parlare di
areAVasta, una rivista che seguo con
attenzione fin dai primi numeri e che mi
piace sia per la linea editoriale che per i
contenuti. Ma è anche l’occasione di
rileggere insieme aspetti del tema del
paesaggio nella doppia accezione, in
apparenza contraddittoria, della sua
conservazione/valorizzazione che ci fornisce
l’uso che se ne fa per il turismo e il tempo
libero.
Il primo tema, la rivista
Pensare ad una nuova rivista è piuttosto
facile nell’ambiente universitario e per un
docente che voglia misurarsi con le altre
componenti accademiche lasciando traccia
delle proprie idee e della propria
operosità; una rivista sembra essere la
manifestazione più tangibile dell’operare in
modo dialettico nella ricerca, garantendo
continuità e possibilità di scambio al
proprio messaggio culturale. Tutte esigenze
che mi sembrano legittime e che riescono
talvolta ad essere soddisfatte in modo
solenne con un ampio piano editoriale ed
un primo numero (anzi un numero zero).
Il problema nasce dal numero due
quando i pochi amici che hanno fornito a
vario titolo la loro collaborazione si
dileguano, quando ci si accorge che la
diffusione del primo numero è stata del
tutto insufficiente, se non nulla, e le
copie si sono ammucchiate negli scaffali,
quando si comincia a pensare che il valore
delle proprie idee non ha avuto quel
riconoscimento che ci si aspettava.
Realizzare una rivista e dare continuità
alla sua pubblicazione nel tempo è perciò
molto meno facile della sua ideazione: è
anzi un fatto complicato che richiede
capacità singolari del gruppo redazionale,
grande impegno, adeguate alleanze culturali,
ma soprattutto convinzione del proprio
pensiero.
Roberto Gerundo ha dimostrato di saper
soddisfare tali esigenze e in modo brillante
e originale. Lo dimostra la collezione di
numeri che ha saputo costruire in questi
anni e che ho seguito con attenzione e
piacere scoprendo il senso e il valore della
sua iniziativa.
Su tre aspetti, in particolare, vorrei
richiamare l’attenzione: il valore del tema,
l’umiltà nell’approccio, il ruolo del
contesto di riferimento.
Nella rivista com’è ovvio si parla di
urbanistica. Lo si fa accettando la
dimensione del piano (e più in
generale del processo di pianificazione)
senza evidenziare le evidenti contraddizioni
che questo presenta oggi, ma invitando a
lavorare al suo interno per migliorarlo, per
renderlo più efficace. È un limite della
rivista forse, ma ne è anche, per l’oggi, il
suo valore.
Si cerca infatti di coprire uno spazio
culturale dell’urbanistica, tra la
riflessione teorica e la rassegna delle
esperienze (sviluppate analiticamente) oggi
non adeguatamente considerato nel contesto
delle pubblicazioni del settore.
Nell’apparente volontà di dare continuità a
linee del nostro passato urbanistico c’è una
umiltà nell’approccio che va sottolineata.
Il piano non è visto come un bene cui
tendere, né al contrario è riguardato come
un male da combattere in quanto
condizionante per la nostra libertà
creativa. È una condizione strumentale
entro la quale si colloca la nostra società,
troppo complessa per sfuggire a logiche di
gestione del suo assetto, su cui occorre
lavorare per migliorarne le modalità d’uso
comprendendone i limiti intrinseci ma anche
le potenzialità.
La frase che titola quest’ultimo numero
della rivista: “La vita nelle città è più
difficile” mi richiama una lontana inchiesta
svolta dalla rivista “Rinascita” sul disagio
urbano. Quell’arguto urbanista che è Franco
Berlanda nel suo intervento affermava più o
meno così: “La vita urbana è difficile per
tutti, ma non per il principe che risiede in
un castello per cui può vedere dall’alto i
suoi sudditi senza mischiarsi con loro”. Il
titolo è un invito a ritrovare il senso di
un’etica che spesso sembra venir meno? Se è
così forse sarebbe opportuno anche un invito
a sottolineare le differenze di situazioni,
di contesto e, anche se uso un termine
obsoleto, di classe.
È un momento singolare e, ritengo, molto
interessante per lo sviluppo della
disciplina urbanistica nel nostro paese:
stanno sfumando le posizioni radicali che
avevano caratterizzato il divenire
disciplinare fino agli anni ottanta (possono
considerarsi indicativi i due interventi di
Gigi Mazza ed Eddy Salzano apparsi su “La
Repubblica” a proposito dell’ennesima
proposta di legge urbanistica che il governo
si appresta a varare e in cui si ritrovano
da posizioni contrapposte analoghi valori di
riferimento)1: di fronte ad una
diversa lettura dell’assetto del nostro
paese e della città sembra però emergere una
rincorsa all’up to date di nuovi
strumenti e nuove tecniche per l’intervento
su cui si misurano soprattutto i giovani.
Minore, e comunque sviluppata secondo un
filone parallelo, l’attenzione ai
cambiamenti strutturali dell’assetto e della
società.
L’attenzione con cui areAVasta guarda al
piano mi sembra opportuna nel contesto
della letteratura del settore: se si volesse
sintetizzare in una parola chiave la sua
linea basterebbe: discontinuità nella
continuità.
Questo approccio ci costringe a pensare
all’agire urbanistico come necessità
evitando di portarci sulla via del
pessimismo o, al contrario, offrendoci una
sponda tecnica tranquillizzante.
Nell’editoriale del primo numero, “L’area
vasta … in rivista”, Roberto Gerundo nel
precisare gli obiettivi della rivista,
affermava che l’importante era tenere fede
ad essi; si auspicava un dibattito ragionato
e ragionevole. Credo ci sia riuscito in gran
parte. Nell’editoriale c’era dell’altro: si
collegava direttamente al contesto in cui
opera, la Provincia di Salerno e
all’importanza da attribuire sia ad esso che
alla dimensione territoriale dell’intervento
urbanistico.
La città di Salerno come morfologia e
assetto urbano funzionale rimane nello
sfondo, l’attenzione è al territorio
provinciale e alla ricerca di quelle
componenti inedite, anche perché prima poco
studiate, che stanno determinando il
cambiamento dell’assetto alla scala vasta.
Emerge, così, una Campania insolita che non
trova al suo centro Napoli ma la sua parte
meridionale ove si collocano problemi
ambientali e insediativi singolari:
delicatezza e fragilità dell’ambiente fisico
rispetto ai consistenti valori
paesaggistici, identità in pericolo di
ambienti urbani che sono entrati a far parte
di un complesso sistema metropolitano (che
si esprime in forme diverse nella contiguità
con l’area napoletana, la formazione in
nuce di una conurbazione con Avellino e
l’ambiente ancora prevalentemente naturale
della sua parte meridionale verso Polla,
Sala Consilina e il Cilento), incertezza nel
mantenimento di ruoli funzionali consolidati
nei confronti di buona parte del Mezzogiorno
continentale (il sistema autostradale ha
modificato il ruolo di Salerno, prima
storica stazione di posta della
strada delle Calabrie verso il nord).
Questi caratteri di contesto sono stati
posti al centro delle elaborazioni della
rivista in una dimensione difficile che
avrebbe potuto rappresentare per gli stessi
redattori un boomerang e che invece
sta dando, almeno ritengo, frutti positivi:
la difficoltà sta nell’essere espressione di
una università giovane (quale è la facoltà
di Ingegneria) ancora poco ancorata al
proprio territorio e nel costituire per la
pubblicazione un sodalizio con
l’amministrazione provinciale di Salerno.
Non si può rileggere ancora un’adeguata
identità di scuola in questa
università, come purtroppo avviene in buona
parte del Mezzogiorno per le nuove facoltà
tecniche. Queste nel complesso sono
di istituzione troppo recente per poterla
esprimere. In altre aree del paese una
tradizione universitaria più consolidata è
in grado di determinare un maggiore e
continuo interscambio fra docenti e
ricercatori con maggiori effetti
riverberanti per le nuove sedi (come ad
esempio avviene nell’asse padano ove le tre
sedi storiche di Torino, Milano e
Venezia sono state in grado di sostenere la
proliferazione di molte altre sedi
determinando una più viva trasferibilità dei
saperi tecnici e dove con maggiore
facilità si può determinare lo sviluppo di
nuovi, autonomi ambiti di ricerca). Di più,
nelle università del Mezzogiorno è più
difficile il rapporto con gli enti
territoriali: ciò non tanto dal punto di
vista formale quanto da quello sostanziale:
mancano in molte aree adeguate tradizioni di
elaborazioni nel campo urbanistico. Il
piano, fino agli anni più recenti, è
stato spesso più dichiarato che sviluppato
e, soprattutto, non è stato attuato e non si
è arricchito di quei contenuti che solo una
prassi consolidata può alimentare. Le
ricerche che è in grado di svolgere
l’università risentono di questa difficoltà
e, spesso, nei risultati mi sembrano più
l’espressione della volontà di
cominciare a incidere su istituzioni inerti
e poco attente ai temi urbanistici che
contributi scientifici in grado di
produrre esiti positivi e incrementali.
In questo quadro mi sembra assuma valore
maggiore anche la collaborazione instaurata
tra università e amministrazione provinciale
di Salerno per lo sviluppo della rivista.
Sfogliando altre riviste prodotte da enti
territoriali, belle e costose
nell’impaginato e nelle illustrazioni, è
evidente il condizionamento che gli stessi
esercitano inevitabilmente per interessi
elettorali, diretti o indiretti, o forse
anche per ignoranza e inadeguatezza
culturale. In questo clima e con cattive
interpretazioni del senso e dei modi della
comunicazione è difficile che riviste
di questo tipo possano garantire un’adeguata
autonomia di linea.
Ciò che sta avvenendo per areAVasta è invece
indicativo del diverso proficuo rapporto che
si può determinare tra enti territoriali e
università: da una parte si è favorita la
crescita di uno spazio culturale
sull’operatività urbanistica utile per le
amministrazioni locali e territoriali,
dall’altra si è consentito un
approfondimento teorico ricco di contributi
esterni e che non dalla valutazione critica
delle situazioni d contesto. È il caso di
osservare e seguire con attenzione questa
collaborazione, augurandosi che essa possa
continuare e accrescersi di contenuti anche
in futuro.
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1 |
Il secondo tema:
conservazione/trasformazione del paesaggio e
turismo
Questo numero ha al suo centro l’ambiente e
i processi di piano che attorno a questo
tema si stanno costruendo con una certa
difficoltà nel nostro paese. Beni
ambientali, paesaggio naturale e antropico,
mitigazione dei rischi, conservazione sono
perciò le parole chiave che ne hanno
indirizzato la costruzione e che sono
oggetto di riflessione nell’editoriale di
Roberto Gerundo.
L’ansia è quella di garantire la protezione
dell’ambiente dai rischi di manomissione, di
deterioramento, di crisi fisica, di perdita
di valori nei confronti di politiche che
favoriscono un uso più indiscriminato e
incosciente. Ci si sofferma in
particolare sul paesaggio oggetto, proprio
in questi ultimi anni, da una parte, di
nuovi riconoscimenti delle sue peculiarità,
dall’altra, come nel caso della legge sui
beni culturali appena approvata, di una
sorta di disconoscimento del suo valore
pubblico.
Sotto il profilo teorico sul tema del
paesaggio vi sono ormai adeguati
approfondimenti. Si è colto il valore che
esso ricopre non tanto come porzione
territoriale singolare e preziosa per
le sue peculiarità quanto come substrato
della composizione ambientale e insediativa.
È cioè la parte costitutiva del sistema nel
quale viviamo e che ci garantisce non solo
della sua memoria ma anche della sua
continuità e delle sue prospettive. Rispetto
a questa importante interpretazione tuttavia
non mi sembra che a livello urbanistico
siano state svolte adeguate valutazioni: i
termini memoria, continuità, prospettive ci
appaiono distinti fra loro in un processo
logico che tende a contrapporli l’uno
all’altro e non a fonderli per costruire una
diversa razionalità dell’intervento. Rimane
un atteggiamento dicotomico nei confronti
del rapporto tra la conservazione e la
trasformazione del territorio che spesso si
limita alla facies del paesaggio ma
non ne è in grado di mutuarne le nuove
premesse sociali ed economiche, anzi sembra
rifletterle per quanto il passato ci ha
saputo conferire.
C’è da comprendere di più e meglio il
rapporto tra individuale e collettivo, tra
pubblico e privato alla luce delle nuove
condizioni di vita e delle nuove domande.
La critica, spesso aspra, sul degrado del
paesaggio del nostro paese che svolgono
ormai da molti anni gli urbanisti più
sensibili è ormai fatta propria anche a
livello soggettivo da un universo di
soggetti: il miglioramento delle condizioni
di vita, l’avvento di nuove prospettive
della conoscenza hanno reso tutti più
coscienti della stupidità di quanto
si è saputo realizzare finora e del
malessere che ne è conseguito. Tuttavia
questa presa di coscienza non si è
oggettivata né è divenuta condizione
collettiva; nei comportamenti prevalgono,
come prima, gli interessi individuali verso
la diffusione insediativa e l’incuria
ambientale semmai mitigati da un certo
gusto forse un po’ più raffinato che
caratterizza l’utenza. Occorrerebbe
chiedersi di più perché ciò continui ad
avvenire.
Questa condizione si riflette anche sul
rapporto tra pubblico e privato; la difesa
del primo nei confronti del secondo per
quanto riguarda i valori ambientali è
senz’altro legittima. I timori di un cattivo
uso di risorse così importanti, se queste
sono troppo facilmente lasciate in mano
privata, altrettanto. Eppure di fronte alla
nuova legge sui beni culturali non mi sembra
che vi sia stata un’adeguata capacità di
interpretazione delle nuove condizioni entro
le quali ci si stava muovendo a parte pochi
illuminati interventi di origine e natura
fra loro differenti.
Si impone su questo tema un ragionamento che
sfugge alla rapidità di un intervento
nell’ambito di un forum come il
nostro e che avrebbe bisogno di un più
adeguato sviluppo e approfondimento.
Ritengo, però, che oggi per essere più
incisivi nelle valutazioni di merito, prima
di formulare giudizi aprioristici sulle
categorie del pubblico e del
privato in un settore così delicato come
l’ambiente e il paesaggio, dovremmo essere
in grado di capire di più il senso del
cambiamento sociale in atto; dovremmo
estendere la nostra riflessione su campi
come quello antropologico, dei comportamenti
sociali e individuali e operare con maggiore
attenzione al loro interno. Dovremmo capire
quanto può essere affidato alla
responsabilità individuale (e al contrario
alla maturazione collettiva su questa
problematica) e quanto può essere guidato da
più attenti processi di definizione
del piano se questo ci può, come
credo, ancora aiutare. La difesa dei nostri
valori non può essere affidata solo a regole
e norme ma assume un suo significato se
diviene un fatto culturale di traino della
nostra società.
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2 |
Il paesaggio operoso cui ha fatto
riferimento Roberto Gerundo non può essere
riguardato né in modo statico né in forma
regressiva. Forse per comprendere come
operare occorrerebbe ripartire dalle
categorie che, ormai molti anni fa, ci
proponeva attraverso la sua lettura del
paesaggio agrario italiano Emilio Sereni. La
trasformazione del paesaggio per Sereni era
il risultato di una stratificazione del
lavoro sulla terra, la diversificazione fra
ambienti quello della specificità de legami
culturali che presentava ogni area rispetto
alle relazioni e ai caratteri produttivi.
Sono queste le chiavi per comprendere anche
le odierne trasformazioni ambientali? Se sì
come credo, prima di formulare giudizi
occorrerebbe comprendere a partire dai
meccanismi produttivi e comportamentali il
senso profondo delle dissennate
trasformazioni ambientali cui assistiamo
quotidianamente.
Non certo per accettarle supinamente, ma per
comprendere di più per agire più
correttamente.
La seconda residenza che copre e deturpa
ampie fasce costiere ne è una delle
testimonianze più evidenti. E su questo
tema, senza voler pensare alle analisi
specialistiche, non ci sono forse estesi e
ricorrenti riferimenti letterari? Nel suo
“Giardino dei ciliegi” Cechov mette al
centro nel dialogo tra il mercante Lopachin
e l’aristocratica Lijubov proprio il
cambiamento del valore della terra: è
la lottizzazione della proprietà agraria a
divenire fattore di produzione di reddito2.
Calvino apre il suo romanzo “La speculazione
edilizia” raccontando il fastidio del
protagonista, Quinto, nel ritornare
periodicamente sulla costiera ligure e
vederla alterata profondamente dalle nuove
costruzioni3.
In ognuno di questi esempi è il cambiamento
della società al centro dell’attenzione con
analisi impietose ma realistiche. Lo
zoning attraverso cui l’urbanistica ha
cercato di definire dei confini possibili
per le trasformazioni urbane si è rivelato
inadeguato. Utile nell’apparenza per
limitare processi di urbanizzazione
indefinita, ci ha dato tra i risultati
negativi quello di aver perduto il senso
della progettualità urbana, di averci fatto
perdere il senso dello spazio, della strada
così come del rapporto con il paesaggio
circostante. D’altra parte, si è assistito
allo sviluppo di politiche ambientali e di
riduzione dei rischi nelle quali però sono
state privilegiate soprattutto forme di
intervento settoriali. Il valore ambientale
della Calabria si basa in gran parte sulle
relazioni monte-valle la cui massima
manifestazione è costituita dalle
fiumare, corsi d’acqua irregolari che
incidono il territorio ed hanno storicamente
caratterizzato il sistema insediativo;
finora si è osservata un’eccessiva
segmentazione degli interventi di
consolidamento degli argini e degli stessi
insediamenti così come di quelli relativi
alla difesa idrogeologica o alla riduzione
del rischio sismico.
In questi anni mi sono occupato spesso delle
relazioni fra turismo, tempo libero e città,
un ambito poco familiare e forse poco amato
dalla disciplina urbanistica: l’ho fatto
volentieri anche perché si è trattato di un
esercizio di analisi ambientale e di
esperienza progettuale che mi ha consentito
di rileggere le tradizionali categorie
urbanistiche della costruzione urbana in
chiave del tutto differente. Gli stessi temi
affrontati nel numero di areAVasta in
discussione nel forum possono trovare
altre chiavi interpretative.
Ne suggerisco alcune in forma didascalica
seguendo gli appunti presi durante la
lettura della rivista.
Alla città dei cittadini si affianca ormai
per numerosità di soggetti presenti una
città dei turisti con proprie logiche
inedite di uso e fruizione degli spazi
urbani: ma non si tratta di un corpo
esterno alla città a vivere la
dimensione turistica; il consumo di tempo
libero (un tempo liberato dal lavoro
secondo le affermazioni di molti sociologi)
è infatti condizione troppo diffusa per
essere sottovalutata. Ne condiziona gli
aspetti ludici della nostra vita di
relazione, ma anche quelli culturali e
interviene nel definirne la nostra
quotidianità.
Il turismo non è solo una grande impresa, è
un ciclo produttivo complesso che si
alimenta del paesaggio e dei suoi valori per
crescere ma si esprime attraverso un
circolo vizioso che tende a distruggere
l’uno e gli altri per sopravvivere.
È il frutto moderno della globalizzazione,
dell’iperreale4 ma i suoi
utenti vanno anche alla ricerca dell’anima
dei luoghi, per richiamare il titolo del
recente saggio di Hillman5.
Più in generale l’estendersi dell’importanza
del turismo incide sulle trame viarie che
ancora caratterizzano le morfologie urbane e
il territorio, sui nuovi segni
dell’architettura perché gli stessi possano
diventare elementi di attrazione (nuovi
simboli per ciò che rappresenta il nostro
bisogno di up to date), sulla
trasformazione in luoghi dei cosiddetti
non luoghi delle grandi attrezzature
infrastrutturali.
Incide direttamente e indirettamente sui
molteplici ruoli che sembrano assumere le
reti territoriali e gli stessi nodi (le
grandi metropoli non sono forse oggetto di
naturale richiamo turistico?).
Paradossalmente è il turismo che oggi sembra
consentire di attribuire nuovi valori al
paesaggio (in quanto vissuto6
e direttamente fruito, indirettamente
percepito attraverso i mass media,
riguardato attraverso i simboli che riesce a
trasmettere o semplicemente immaginato7
ed evocato) ed è per suo tramite che se ne
potrà forse provvedere alla sua
conservazione8.
C’è però un certo timore a legare il tema
del paesaggio al turismo e al tempo libero;
sembra quasi si abbia paura di infangare il
valore intangibile della natura e della
storia con il suo uso spregiudicato.
C’è invece molto da lavorare in questa
direzione e soprattutto c’è bisogno di
comprendere ragioni e limiti di questo
complesso ciclo produttivo per evitare
pericolose ignoranze dei problemi che
comporta lo sviluppo turistico o, peggio,
continuare a operare sulla base di troppo
facili slogan sia tese alla
conservazione che alla cosiddetta
valorizzazione ambientale.
Se ne potrebbe fare oggetto di un prossimo
numero di areAVasta; in fondo il lungomare
di Salerno e la costiera amalfitana con le
loro evocazioni buone e cattive
- la promenade che spazia
sull’infinito del mare, Ravello e il Fuenti
- incombono e condizionano le nostre
fantasie.
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3 |
Note
1 Si veda
“La Repubblica” dell’8 aprile 2004.
2 Afferma il
mercante: “fino ad ora in campagna ci sono
stati solo padroni e contadini, adesso hanno
fatto la comparsa anche i villeggianti.
Tutte le città anche le più piccole sono ora
circondate da villini. E si può essere certi
che tra vent’anni i villeggianti saranno
cresciuti in modo incredibile”. Cfr. Cechov
Anton (1966), Il giardino dei ciliegi,
in “Racconti e teatro”, Sansoni, Firenze.
Sull’argomento, che mi ha suggerito la
citazione, si sofferma Melo Freni (2004) nel
suo saggio Al limite della ragione,
Rai Eri, Roma.
3 Cfr.
Calvino Italo (1963), La speculazione
edilizia, Einaudi, Torino e in
Romanzi e racconti, Mondadori, I
meridiani, Milano (1991).
4 Cfr. Memo
Mara (1997), Parco tematico. Iperreale
fantastico commerciale walt disney of course!,
in “Attraversamenti. I nuovi territori dello
spazio pubblico”, Costa&Nolan, Genova.
5 Cfr.
Hillman James (2004), L’anima dei luoghi,
Rizzoli, Milano.
6 Sono molto
numerose le testimonianze di viaggiatori
dell’oggi. A parte la meno recente citazione
di Benjamin sul “perdersi nella città”, mi
piace ricordare le riflessioni di viaggio di
Giacomo Corna Pellegrini.
Cfr. Corna Pellegrini Giacomo (1999),
Conoscersi viaggiando, Meltemi, Roma;
dello stesso autore la trattazione contenuta
in Geografia come desiderio, Unicopli,
Milano (1998).
7 Come
racconta Leonardo Sciascia, Stendhal parlò
della Sicilia, ne narrò i luoghi, la natura,
i paesaggi senza esserci mai andato. Cfr.
Sciascia Leonardo (1984), Stendhal e la
Sicilia, Sellerio, Palermo.
Gran parte delle stampe e dei dipinti
cinquecenteschi dello Stretto di Messina
sono solo evocazioni di una stampa di
Bruegel il Vecchio. Cfr. Vallese Gloria (a
cura di) (1979), Virtù, vizi e follia
nell’opera di Bruegel il Vecchio,
Gabriele Mazzotta, Milano.
8
Cfr. Jacob Michael (2004), L’émergence du
paysage, Infolio, Dijon.
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4 |
Giorgio Pizziolo
Vorrei iniziare il mio intervento, prendendo
avvio da alcune osservazioni sulla rivista.
La rivista, secondo me, è molto interessante
perché è diversa da tutte le altre riviste
di architettura, di urbanistica, o anche di
paesaggio, le quali risultano oggi
generalmente quasi tutte impostate come
riviste orientate, che espongono cioè
una posizione precostituita da parte della
redazione, cercando di portare, per così
dire, acqua a quel mulino.
Questa rivista, invece, è fatta in un altro
modo perché chiama voci diverse a
confrontarsi tra loro.
In questo numero, per esempio, l’intervento
di Salzano sulla laguna di Venezia e quello
di Francesco Indovina mostrano già una bella
differenza tra di loro. Se poi, prendiamo in
considerazione gli interventi di Virgilio e
di Mariolina Besio sulle Cinque Terre,
riscontriamo, rispetto ai precedenti autori,
delle impostazioni quasi opposte. È però
interessante che nella rivista tutte queste
impostazioni risultino tutte presenti, e che
siano rapidamente accostate e comparabili,
perché questo consente a chiunque di noi di
poter fare paragoni e confronti, può
consentire inoltre un dibattito civile tra
gli amministratori, e infine consente una
maturazione generale sotto il profilo
culturale.
In questa logica vorrei fare riferimento ad
un altro articolo della rivista che mi ha
colpito, e che è quello di Valerio Palazzo,
dal titolo “Ecosistemi urbano e agricolo:
un’ibridazione possibile?” L’articolo si
conclude affermando che l’ibridazione è
possibile, anzi auspicabile, anche se gli
esempi adottati da Palazzo, muovono tutti in
una direzione: è l’ecosistema urbano che
conquista quello agricolo.
Mi sembra interessante estendere il
ragionamento e valutare se esista, anche, o
invece, una possibilità di ibridazione nel
senso opposto, del rurale che vada a
permeare la città e che la informi in tal
senso, anche perché finora, di casi
orientati in una tale direzione vi sono solo
pochissimi esempi, forse soltanto 2 o 3
esempi storici.
Il caso più noto è quello dei bellissimi
progetti che Scharoun aveva prodotto per la
ricostruzione di Berlino nei quali, di
fatto, i tessuti del parco e del paesaggio
non solo entrano nella città, ma ne
divengono la struttura portante,
praticamente incorporando l’urbano al loro
interno, tanto è vero che l’autore aveva
chiamato quel suo intervento
città-paesaggio, ipotesi estremamente
interessante e innovativa, ma assai
sottovalutata (all’est come all’ovest).
Per non parlare delle riflessioni di Bruno
Taut sulla dissoluzione della città.
In effetti, oggi, il continuum
metropolitano, quello che anche Cacciari
chiama la città infinita, è in realtà
costituito non solo dall’edificato, ma anche
da tutta una serie di vuoti. Si pensi alla
foto dal satellite che fa da sfondo al Tg1,
dove si vedono illuminate tutte le città
importanti e tutte le aree metropolitane e,
in nero, l’area agricola, la struttura
territoriale.
Ad un certo punto può darsi che si possa
pensare che quel nero sia interessante e
importante; anzi, potrebbe divenire un
fattore di grande valore ripensandolo, per
esempio, in termini di bio-regione,
dove il contesto nero potrebbe
divenire il supporto fondamentale e
fondativi della struttura della città.
Per affrontare concretamente queste
tematiche e coglierne la stringente
attualità, vorrei ricordare che fin dal 2000
è operante, in Europa, la Convenzione
europea del paesaggio, un documento
estremamente interessante che, a mio avviso,
modifica radicalmente la maniera di
concepire il paesaggio. L’art. 1 della
Convenzione, infatti, definisce il paesaggio
come “… una parte di territorio, così come è
percepita dalle popolazioni, i cui caratteri
discendono da azioni naturali e umane e
dalle loro interrelazioni”. Si tratta,
quindi, di una idea nuova di paesaggio,
diversa da quella che noi siamo abituati a
considerare, e ciò per più motivi.
In primo luogo la Convenzione introduce ad
una visione dinamica del paesaggio
stesso, una dinamica peraltro molto
particolare.
Infatti, il gioco delle relazioni e
interrelazioni, alle quali la convenzione fa
esplicito riferimento, porta ad una lettura
complessa del divenire paesistico, poiché le
dinamiche della natura e le dinamiche della
società sono tra loro completamente diverse,
pur all’interno dello stesso fenomeno.
Ci troviamo così di fronte ad un fenomeno
che ha 2 tempi e 2 modi diversi di muoversi
al proprio interno (2 ritmi), e questa è la
considerazione preliminare da prendere in
esame sotto questo profilo.
È come se, facendo riferimento al campo
musicale, ci trovassimo di fronte ad uno di
quei rarissimi casi di una musica che ha
contemporaneamente 2 tempi dentro il suo
svolgimento.
Pochissimi sono i casi di questo genere: c’è
qualche passaggio famoso di Mozart, c’è
qualche improvvisazione di Jazz e forse
qualche altro caso di musica non occidentale
in cui ritroviamo 2 o più tempi
completamente diversi che si intrecciano tra
di loro. Il paesaggio è un fenomeno
temporale assai simile a questo tipo di
fenomeni musicali ed è difficilissimo,
pertanto, esaminarlo sotto questi suoi
profili della temporalità interagente, del
cambiamento reciproco e dei ritmi
contemporanei e diversi della
trasformazione. Al tempo stesso, il
paesaggio si può anche considerarlo un
accadimento temporale di grande
rilevanza, in continuo divenire e tale che
potrebbe diventare, alternativamente, o un
fenomeno che può risultare discontinuo,
pieno di contraddizioni, incontrollabile,
oppure che potrebbe risultare un evento
stocasticamente evolutivo.
La questione è aperta. Molto può dipendere
da come riusciamo a intrecciare e a
correlare i fenomeni, e i loro tempi e ritmi
tra di loro.
Un secondo aspetto che emerge dalla
Convenzione è che ci troviamo di fronte ad
una manifestazione della complessità,
dal momento che entro il fenomeno
paesaggio convergono realtà e aspetti
tra loro completamente diversi, a cominciare
dal territorio, con i suoi assetti
materiali, fisici, strutturali, per passare
alle sue trasformazioni naturali e alle
problematiche ambientali, e quindi alle sue
trasformazioni culturali, storiche,
artistiche, del lavoro umano, tutti fenomeni
ai quali si aggiunge poi l’elemento di
maggiore novità, “la percezione che ne hanno
le popolazioni”.
Teniamo conto che quest’ultimo riferimento è
al plurale: si parla di popolazioni e non di
popolazione, espressione che rimanderebbe
alla popolazione residente, mentre parlando
di popolazioni ci si riferisce a tutte le
persone che entrano in rapporto con quel
contesto e con quelle dinamiche alle quali
abbiamo prima fatto cenno.
Dunque, la Convenzione europea del paesaggio
introduce un’idea nuova di paesaggio, quella
di paesaggio come fenomeno sociale,
con inoltre un esplicito riferimento
all’idea di una percezione sociale del
paesaggio. Su questo tipo di
conclusioni, in ambiente europeo (assai meno
in quello italiano), non ci sono dubbi.
E qui si apre la terza considerazione: una
questione che nella Convenzione è accennata
ma che non è esplicitamente detta, anche se
ad essa si fa più volte rimando. Si tratta
della considerazione che la percezione
sociale del paesaggio non è la semplice
rilevazione, magari statistica, dei diversi
punti di vista dei singoli ma è una
comparazione sociale dei molteplici
approcci, attivando un processo di
apprendimento conoscitivo, corale e
partecipato, fino a individuare valori
paesistici comuni e condivisi.
A questa conclusione siamo arrivati, insieme
con un gruppo di ricercatori e di
sperimentatori che, a vari livelli, stanno
lavorando da 2 o 3 anni ad una applicazione
sperimentale della Convenzione europea.
Durante questa attività, in un primo
momento, appariva evidente come lo stesso
luogo poteva essere visto in modo
profondamente diverso da generazioni diverse
della stessa popolazione: gli anziani, i
giovani, le persone di 50 anni, i
giovanissimi. Non solo, ma possiamo
immaginare come possa essere visto in
maniera ulteriormente differenziata da
popolazioni diverse.
Si può fare l’esempio di una qualunque zona
d’Italia, per esempio il Chianti, un
territorio da tutti conosciuto. Questa zona
della Toscana notoriamente è, per così dire,
invasa da una popolazione nord-europea che
ha acquistato le case, e che spesso inoltre
coltiva anche i terreni. Ci sono una serie
di persone provenienti dalla Germania,
dall’Olanda, dall’Inghilterra che vengono a
vivere stagionalmente in quel territorio e
che hanno una loro legittima visione di quei
luoghi, più o meno romantica o letteraria,
comunque molto diversa da quella,
altrettanto legittima, degli abitanti.
Pensiamo anche, contemporaneamente, alla
visione che ne può avere un vendemmiatore o
un raccoglitore di olive esterno ai luoghi,
magari nordafricano. Anche lui ha la sua
visione di questo territorio. E la visione
di una persona non è più importante di
quella di un’altra. Almeno, a me,
sembrerebbe così. Quindi, possono darsi
visioni completamente diverse dello stesso
contesto e possono aversi letture differenti
di ogni paesaggio, con analisi bloccate
nella più totale relativizzazione.
Abbiamo allora rilevato nelle nostre
esperienze di ricerca/azione sul paesaggio
come ambiente di vita che una lettura
di percezione sociale del paesaggio non può
limitarsi alla raccolta delle percezioni
individuali ma che occorre aprire dei
percorsi iterati di dialogo con le persone,
non solo rilevando la loro percezione
istantanea, ma piuttosto stabilendo con loro
un rapporto prolungato per arrivare
progressivamente a discutere di quali
possono essere i significati che loro
attribuiscono al loro luogo di vita
(paesaggio) e quindi arrivare a individuare
i valori del paesaggio che possono essere
condivisi o comunque a individuare valori,
magari anche contrapposti, ma comunque ben
identificati.
In questo senso, allora, il passo successivo
è quello di poter cominciare a pensare anche
a delle ipotesi di intervento condivise, di
trasformazione ragionata, di trasformazione
che passa attraverso le dinamiche sociali.
In un tale quadro, anche tutta l’annosa
tormentata questione del vincolo, della
difesa del paesaggio, e di tutta un’altra
serie di elementi di protezione,
probabilmente si sposta perché una cosa è
vincolare secondo una cultura dominante,
un’altra cosa è quella di arrivare ad una
percezione condivisa dei valori del
paesaggio, verificati scientificamente e
quindi garantiti nella loro
salvaguardia e sostenibilità.
Ecco che allora si potrebbe aprire una nuova
dimensione della pianificazione paesistica
perché in questa maniera si riuscirebbe
progressivamente a mettere in moto delle
situazioni dove la pianificazione diventa
più una struttura di processi, di
apprendimento e di trasformazione condivisa,
che non un meccanismo di piani, vincoli,
imposizioni, norme, anche per la produzione
di piani strategici, di piani strutturali e
altro.
Direi che in questo modo potremmo arrivare
ad una idea di paesaggio in termini
di una cultura post-moderna e forse possiamo
anche immaginare che in fin dei conti il
paesaggio non sia niente altro che la
rappresentazione che una società si dà del
suo rapporto con il contesto e con la natura.
Se noi lo concepiamo in questo modo, allora
vediamo che nel tempo e in altre culture ci
sono state tantissime modalità di
rappresentare questo rapporto.
Ad esempio la cultura dell’antica Grecia
impostava questo rapporto in maniera
sacralizzata ma contemporaneamente
attraverso un certo tipo di interpretazione:
il mito.
La cultura di tipo medievale, che poi è
rimasta una radicata tradizione nelle nostre
campagne, sacralizza il territorio e ne fa
un oggetto rituale, letto in una chiave
ritmica stagionale.
Il concetto di paesaggio in quanto tale è un
concetto storicamente definito. Parte, come
è noto, da Petrarca e Lorenzetti e arriva ai
giorni nostri, potremmo dire a ieri
l’altro.
Diverso è il concetto del rapporto
uomo/ambiente e della sua rappresentazione
che è proprio di altri popoli e di altre
culture, ad esempio del popolo cinese. Nella
lingua di questo popolo non c’è la parola
paesaggio ma esiste comunque un rapporto
intensissimo, tra società e ambiente. Tutta
l’impostazione taoista e buddista comporta
una visione del mondo straordinariamente
intensa nel senso di questo rapporto e non
potremmo certo dire che l’esperienza di
questo rapporto tra quella società e
l’ambiente sia stato inferiore a quello
occidentale. Basta considerare quanto la
pittura di paesaggio cinese sia
straordinaria e non si può certo affermare
che quella esperienza artistica sia
inferiore alla nostra. Direi al contrario
che essa è addirittura più complessa.
Si tenga conto, per esempio, che un quadro
della tradizione cinese era una struttura
comunicativa che non solo si vedeva ma che
anche si recitava e si cantava, era una
sintesi di arti che esprimevano questo
rapporto profondo tra l’uomo e il suo
ambiente di vita.
Vogliamo dire che questa modalità di
espressione paesistica è inferiore alla
nostra? Direi di no. Come non mi sembrerebbe
di dire che è inferiore alla nostra, per
esempio, l’esperienza degli aborigeni
australiani che, come si sa dal libro di
Chattwin, hanno un rapporto intenso con il
luogo che passa attraverso le vie dei canti,
il loro spostamento sul territorio, le
grandi raffigurazioni parietali sulle pareti
rocciose dell’Australia, con un paesaggio
come arte di rapportarsi ai luoghi e di
comunicarli, con modalità che sono
ancora utilizzate attivamente.
È questo, allora, lo straordinario:
questo fare paesaggio non è una cosa,
per così dire, dell’antichità dell’uomo, è
una cosa attuale, ed è questo che è
fantastico.
A questo punto, allora, credo che ci
troviamo in questi anni ad un nuovo
passaggio storico, ad una nuova tappa
epocale, per cui il nuovo modello di
manifestazione del rapporto uomo/ambiente
che viene proposto all’Europa è quello di
assumere il paesaggio come fenomeno sociale,
come fenomeno sociale e partecipativo, dove
si attribuisce al paesaggio un ruolo attivo
tra popolazione/ cultura degli esperti/
amministratori verso la definizione
progressiva di un progetto generale che
adotti nuove modalità procedurali e nuove
pratiche come, ad esempio, il riferimento ad
Agenda 21, che può divenire una struttura
veramente viva sul territorio con un apporto
intenso da parte delle popolazioni e con una
partecipazione reale, non quella formale del
consenso ma con una vera partecipazione
effettiva.
Ecco che allora potremmo avere di fronte un
quadro veramente nuovo: le nuove
prospettive per il paesaggio d’Italia
devono, a mio parere, passare per questa
dimensione europea perché altrimenti si
continua a girare sui nostri argomenti
stantii e, ancora una volta, si rischia di
ritrovarsi molto provinciali.
Le fotografie 1, 2, 3 e 4 rappresentano
rispettivamente il progetto The World
costituito da 250 isole artificiali che
riproducono la forma dei cinque continenti;
l’albergo Burj Al Arab; l’isola artificiale
di Palm Jebel Ali e un suo particolare, a
Dubai negli Emirati Arabi Uniti. |