Numero 10/11 - 2005

 

Le tesi di laurea  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il paesaggio degli abitanti


Rosa Sibilio


 

L’intenso e recente dibattito sui temi del paesaggio ha consolidato il presupposto secondo cui la pianificazione paesistica deve tener conto delle identità locali unitamente alle qualità morfologiche dei luoghi. Rosa Sibilio, prendendo le mosse da una tesi di laurea in Urbanistica discussa presso l’Università di Napoli Federico II1, esamina un territorio pesantemente degradato della piana campana, alla periferia nord della città di Napoli, dapprima analizzando e studiando le caratteristiche territoriali e paesaggistiche, quindi, concentrando l’attenzione sull’individuazione delle risorse identitarie

 

 

Il dibattito sui temi del paesaggio, in questi ultimi anni intensificatosi, ha avviato una nuova e più incisiva fase istituzionale a tal riguardo.

Alla Convenzione europea del paesaggio del 2000, infatti, è subito seguito nel nostro paese l’accordo Stato-regioni e, in seguito, l’approvazione del nuovo Codice dei beni culturali e paesaggistici. Prescindendo dalla cospicua mole di contributi e diatribe che si addensano attorno al concetto di paesaggio, si possono comunque individuare alcuni punti fermi che sintetizzano i caratteri più innovativi e fecondi dell’attuale questione paesistica.

Il primo tra i nuovi assunti vede il paesaggio come il risultato di un mutuo confronto tra una serie di componenti oggettive, vale a dire “l’oggettualità percepibile sul territorio”, e di componenti soggettive e, quindi, “la soggettività di chi percepisce”2, esaltando in tal modo la valenza essenzialmente culturale del paesaggio.

In secondo luogo vi è l’affermazione che il paesaggio così inteso non è più contenibile in isole di tutela delimitate e confinate, ma semmai è possibile individuare aree distinguibili per omogeneità di componenti oggettive o di componenti soggettive.

Infine, quindi, vi è la consapevolezza che il paesaggio così concepito è in continua e inarrestabile trasformazione, la quale è “prodotta dall’azione congiunta del consumo e del rinnovo naturale della materia, degli interventi antropici sostitutivi o manutentivi e del mutare del modo di attribuire senso a ciò che si percepisce”3.

Sono questi i punti fermi dell’attuale dibattito paesistico a livello internazionale, punti fermi che a ben guardare affondano le loro radici soprattutto nella tradizione paesaggistica italiana.

 

 

Le radici italiane

 

Percorrendo, dunque, l’evoluzione del concetto di paesaggio tracciata da Romani4, s’individuano nel corso della storia due correnti fondamentali, che considerano e studiano il paesaggio in modo totalmente diverso.

Una è la corrente scientifica, che risale alla nascita e all’evoluzione delle scienze naturali; l’altra è la corrente estetico-percettiva, che deriva dalla concezione estetica e che, per una serie di circostanze, ha avuto nel nostro paese uno sviluppo predominante.

Si può immediatamente notare, quindi, che fin dalla nascita del concetto di paesaggio attribuita a Humboldt la corrente scientifica trova maggiore spazio in Europa settentrionale prima e in Russia in seguito, toccando solo marginalmente l’Italia.

La seconda è la corrente di pensiero estetico-percettiva, che ha per oggetto la percezione visiva e le sensazioni che scaturiscono dalla contemplazione o dalla semplice fruizione di un paesaggio. È, dunque, questa corrente che, com’è stato detto, trova maggiore spazio in Italia, affondando le sue radici nell’Estetica di Benedetto Croce. All’interno di questa scuola, trovano spazio una serie di lungimiranti studi che costituiscono oggi proprio i presupposti teorici del dibattito paesistico attuale.

Tra questi, fondamentali sono gli studi portati avanti da Gambi5 nel 1961, che vede nel paesaggio un complesso interrelarsi di stratificazioni storiche, sociali e d’istanze culturali.

Partendo dallo studio dei paesaggi rurali, Gambi isola una serie d’elementi rilevanti nella caratterizzazione delle realtà agricole che intende descrivere, non individuabili, però, da un punto di vista semplicemente visivo. L’intuizione di porre l’accento sull’aspetto culturale e umano del paesaggio, indagando sulle ragioni storiche del rapporto uomo-natura è volto, infatti, al superamento delle posizioni che privilegiano gli aspetti visivi di tale rapporto.

La visione di Sereni6 ha molti punti di contatto con quella di Gambi; anche in questo caso, infatti, l’elemento fondamentale ed essenzialmente costitutivo del paesaggio è lo stretto intrecciarsi di una società, della sua cultura e della sua storia con il territorio in cui questa è vissuta e si è sviluppata. Il rischio che Sereni denuncia è, dunque, di assumere il paesaggio come già dato, indipendente ed esterno dalla trama dei fatti sociali di cui è impregnato e di cui è unica vera sintesi.

Si innesta in questo stesso filone la ricerca avviata agli inizi degli anni ’70 da Turri. Egli focalizza la sua attenzione sulla definizione, in ambito geografico, del paesaggio come insieme di segni lasciati dall’uomo sul territorio. È proprio qui la grande novità del tentativo di Turri e cioè il voler inserire nella sfera scientifica geografica una lettura culturale dell’ambiente. È del 1974 il testo Semiologia del paesaggio italiano, in cui Turri tenta di inserire il dibattito culturale di quegli anni nel più specifico ambito paesaggistico. Egli, infatti, partendo dalla constatazione della brusca rottura causata dal passaggio dalla condizione rurale locale alla condizione industriale nazionale, evidenzia la stretta interrelazione che sussiste tra questa rottura a livello sociale e la consequenziale distruzione a livello territoriale. Ne scaturisce un’esortazione a intendere il paesaggio come manifestazione di un gruppo sociale e, quindi, a cogliere e studiare “l’uso che una società ha fatto del suo territorio”7.

Il paesaggio così inteso, quindi, subisce una prima importante trasformazione iniziando ad abbracciare non più solo i territori poco costruiti, caratterizzati da grandi spazi verdi, ma estendendosi fino ad arrivare alle nostre periferie degradate, da un lato ancora rurali, dall’altro circondate e affogate da immense autostrade; è il paesaggio tutto quello che interessa, con tutte le sue contraddizioni, perché sono proprio queste lo specchio delle contraddizioni della nostra società. È una grande intuizione, questa, che Turri compie appena nel 1974, ma che purtroppo, da allora, resterà solo un argomento teorico. Bisognerà aspettare la Convenzione europea del paesaggio perché quest’intuizione si trasformi finalmente in un esplicito invito a riformulare i contenuti e i confini di questa disciplina.

A dover cambiare, secondo Turri, è, dunque, l’uso del territorio, che in Italia “è sempre stato imposto dalle classi dominanti”8: le trasformazioni territoriali, quindi, sono sempre state regolate dall’alto. Bisogna, dunque, stravolgere e ribaltare questo modo di operare facendo nascere le trasformazioni e l’uso del territorio valorizzando un’indagine dal basso.

Quello che si evince, riguardando gli studi di Gambi, Sereni e Turri è proprio quel principio fondamentale sancito formalmente dalla Convenzione europea, che vede l’inscindibilità del territorio dalle persone che lo vivono e, quindi, l’impossibilità di risolvere i problemi territoriali e ambientali senza tener conto innanzi tutto di quelli sociali, sostenendo, dunque, che esiste solo un’unica inscindibile questione che è sociale e paesistica al tempo stesso.

 

 

Il dibattito internazionale e la svolta della Convenzione europea

 

Ciò che fa della questione paesistica un argomento così attuale e rilevante, tanto da accendere un così fervido dibattito a livello europeo, è lo stretto legame che unisce la domanda di paesaggio ai processi di globalizzazione delle dinamiche economiche, sociali e culturali. Se, infatti, gli effetti dei processi economici sono inevitabilmente quelli di un’omologazione territoriale, da un lato, e di una disuguaglianza sociale dall’altro, risulta direttamente consequenziale una preoccupante perdita di identità locale. La giusta risposta ad una tale richiesta, quindi, è la definizione di un paesaggio dove una determinata comunità possa rispecchiarsi e riconoscersi, che sia il risultato dei meccanismi comunicativi e delle stesse contraddizioni sociali che ospita, che, in definitiva, possa aiutare a ridare identità ad un determinato luogo e ad una determinata comunità.

La Convenzione europea del paesaggio, riprendendo i contenuti più innovativi della Risoluzione del 1998, per la prima volta tratta il paesaggio come una materia di strategia politica e lo definisce come “una porzione determinata di territorio qual è percepita dall’uomo, il cui aspetto risulta dall’azione di fattori umani e naturali e dalle loro interrelazioni”; applica, inoltre, a tale paesaggio l’impegno di “consacrarlo giuridicamente come bene comune, fondamento dell’identità culturale e locale delle popolazioni, componente essenziale della qualità della vita e espressione della ricchezza e della diversità del patrimonio culturale, ecologico, sociale ed economico”9.

Il paesaggio, inteso in tal senso, assume rilievo come tema politico d’interesse generale, oltre che culturale. A dover cambiare, quindi, è il livello stesso dello strumento urbanistico-territoriale che “dovrà cercare ogni volta la legittimazione nella comunità a cui si riferisce (se esiste e per come si esprime) e troverà le sue limitazioni negli interessi che per quella comunità devono essere protetti e sviluppati”10. È questo il sistema più idoneo affinché le varie comunità locali possano, finalmente, cessare di subire i loro paesaggi e diventare, invece, promotrici fondamentali e uniche responsabili delle trasformazioni del loro stesso territorio, giungendo, dunque, alla pratica di una “pianificazione per un’azione collettiva di supporto ai territori, in contrasto con una linea di incentivi individuali e automatici che la esclude”11.

Affermare che il paesaggio, inoltre, contribuisca al “consolidamento dell’identità europea”12 offre l’agio d’intendere il paesaggio come il prodotto storico della cultura e del lavoro dell’uomo sulla natura e, quindi, come ambito dei meccanismi identitari, tanto più voluti e necessari in un percorso d’integrazione che voglia essere oggi tutore delle differenti identità. Sostenere che i mille paesaggi europei sono proprio i mille volti dell’Europa, significa basare proprio sul paesaggio la risposta politica che a livello istituzionale va data alla crescente esigenza sociale di contrapporsi all’omologazione generata dal nostro attuale modello economico.

L’aspetto più interessante è, quindi, l’introduzione di un ruolo attivo della collettività, non più semplicemente limitato all’approvazione delle scelte di piano e quindi utile a non ostacolare le trasformazioni prefissate. Adesso la partecipazione assume un ruolo indispensabile soprattutto nella fase dell’analisi e della comprensione del paesaggio su cui si deve intervenire; il momento della decodificazione dei segni lasciati sul territorio diventa, così, uno strumento cognitivo imprescindibile nella valutazione dello stesso. Riconosciuto il peso che l’intervento umano ha nella produzione di un qualsiasi paesaggio, anche di quello più incontaminato, e dato per assodato l’aspetto dinamico che pervade ogni luogo, non si può allora prescindere, operando in un determinato territorio, dalla valutazione e dall’analisi del gruppo sociale che l’ha oggettivamente prodotto e segnato. Si può, quindi, affermare che “se queste sono le coordinate entro cui muoversi, la partecipazione diffusa alle politiche di gestione patrimoniale del paesaggio non è un omaggio moralista alla democrazia, ma uno strumento necessario, in molti casi l’unico utilizzabile per sperare di conservare almeno la testimonianza di una cultura materiale ormai trascorsa”13.

 

 

La complessità del paesaggio

 

Negli ultimi anni, si può considerare consolidato il presupposto fondamentale che vede il paesaggio come il risultato del rapporto comunità-territorio. A rendere tale rapporto di così difficile decifrazione e a complicare la lettura di un determinato paesaggio è, inoltre, proprio quella necessità istintiva e collettivamente sentita di un’identificazione tra un luogo e la sua popolazione, che finalmente oggi ha indotto alla consapevolezza che “solo alle comunità insediate possiamo far risalire le morfologie degli insediamenti umani e, in generale, tutta l’opera di antropizzazione, includendo le costruzioni del paesaggio agrario”14. Il rapporto che si instaura tra una popolazione e il suo territorio, quindi, non è solo la sommatoria di una serie di processi più o meno coordinati, ma è un rapporto di tipo organizzativo e pianificatore, i cui effetti si manifestano reciprocamente sia sugli uomini sia sul paesaggio, è insomma uno scambio che è in continua trasformazione e arricchimento.

È dall’esaltazione delle tracce che una comunità lascia sul suo territorio, dunque, che si deve partire per scoprire l’identità di un luogo, per capire il senso di un paesaggio, quel senso comune che è il frutto di una memoria collettiva, che non è scritta solo nei libri ma che è invece fissata e contenuta nel paesaggio “come le linee di una mano”15. Appare a questo punto logico considerare tale senso comune come presupposto basilare per la pratica progettuale. Per cui, se si vuole proseguire quel rapporto di adesione essenzialmente culturale che lega una comunità al suo territorio, non bisogna fermarsi all’individuazione di elementi monumentali, né tanto meno alla storia dei grandi eventi, bisogna, invece, indagare la vita quotidiana degli uomini che vivono quel territorio, i ritmi, i tempi e le abitudini che da sempre regolano quel determinato scenario.

Alla base di un approccio corretto, quindi, che produca modificazioni armoniche di un determinato luogo, deve necessariamente esserci una considerazione integrata dei fattori ambientali e sociali. Ed è, infatti, proprio da questi ultimi che si deve partire per scoprire le risorse identitarie di un luogo; una volta individuate queste risorse la pianificazione paesistica dovrebbe esaltarle e rafforzarle al fine di favorire la creatività locale e di potenziare i processi auto-poietici dei sistemi locali. In questo modo anche il paesaggio più degradato tipico delle nostre periferie potrà essere padrone del proprio percorso di sviluppo, perché come ricorda Turri: “se è vero che (l’uomo) come attore sul teatro mondiale non ha molti modi di farsi sentire, perché altri sono gli attori che muovono la scena globale, egli può sicuramente avere una parte di primo piano, sempre, sul teatro locale”16. Solo in questo modo le trasformazioni paesistiche non saranno più solo subite dalle popolazioni direttamente interessate ma scelte, guidate e poi anche attivamente gestite da loro.

In sostanza l’operazione che a mio avviso sarebbe da compiere è di porre in risalto un paesaggio così come depositato nella mente e nelle memorie di chi quotidianamente lo vive, interrogando i reali meccanismi di percezione collettiva di uno spazio, così come riconosciuto e, in definitiva, goduto, partendo dal presupposto che “in qualche misura, un paesaggio mentale diviene così paesaggio riconosciuto da una cultura”17; ricercando quel senso comune “base di quel sentimento di appartenenza ai luoghi, che è essenziale nel riconoscimento delle specificità di un paesaggio senza divenire pretesto di chiusure localistiche, ma al contrario, strumento fondamentale di una comunicazione proficua tra luoghi, società e culture”18.

 

 

Un progetto di paesaggio

 

Al fine di provare la validità di detto approccio, quindi interpretando il paesaggio non più solo dal punto di vista estetico, ma anche, e soprattutto, dal punto di vista sociale, si è condotta un’analisi di un territorio pesantemente degradato della piana campana, alla periferia nord della città di Napoli, dapprima analizzando e studiando le caratteristiche territoriali e paesaggistiche di una porzione della piana campana, per poi concentrare lo studio sul Comune di Afragola.

La scelta di un’area periferica degradata è sembrata una conseguenza logica di questo studio, avendo sostenuto l’importanza di una pianificazione paesistica che richiami l’attenzione sulle identità locali, come determinatesi dall’interazione tra azioni antropiche e risorse ambientali, unitamente alle qualità morfologiche di un luogo.

Si è, quindi, proposta una metodologia operativa idonea sia all’interpretazione di territori già morfologicamente qualificati, sia alla valorizzazione e all’indagine di quelle labili identità che caratterizzano i paesaggi slabbrati delle nostre periferie. Si è inteso affermare, in tal modo, infatti, proprio la sterilità di una limitazione delle analisi paesistiche alle sole aree già morfologicamente privilegiate. La metodologia proposta, dunque, ha l’obiettivo di un riequilibrio ambientale basato principalmente sulle vocazioni socio-culturali di un territorio; è da intendersi, per tale ragione, non solo come utile appannaggio dei piani paesistici come tradizionalmente intesi, ma anche, e soprattutto, come imprescindibile strumento di conoscenza, delimitazione e partecipazione per i piani territoriali a livello provinciale e comunale.

Il metodo con cui si è proceduto ha visto, sin dall’inizio, affiancate le analisi paesistiche tradizionali, volte alla conoscenza delle componenti oggettive, dall’indagine delle componenti soggettive, le risorse identitarie. La loro individuazione si è compiuta attraverso una serie d’interviste (circa 15), sulla base delle quali si è elaborato un questionario distribuito a 100 persone, appartenenti a diverse categorie di fruitori dell’area del comune individuato. Il questionario è stato articolato in quattro aree tematiche: la memoria individuale, la memoria collettiva, l’orientamento e infine il senso di identità e di alterità, ognuna delle quali ha contribuito, alle varie scale territoriali, all’individuazione di quell’immagine identitaria indispensabile ai fini della strategia progettuale prescelta. Dal continuo confronto tra le componenti oggettive e soggettive, si è proceduto all’individuazione e decodificazione dei segni e delle tracce del territorio considerato.

L’analisi delle risorse identitarie, per la prima volta analizzate in tal modo e in un contesto a vocazione così periferica e degradata, ha dato risposte inaspettate in termini di studio delle sinapsi territoriali spontanee, evidenziando subito come queste fuoriuscissero naturalmente dalle maglie strutturali di quel comune, in ciò integrando spontaneamente elementi dei territori limitrofi, paesaggi in se amministrativamente separati. Elemento di studio è stato, quindi, il veder prevalere connessioni specifiche tra comuni e comuni, talune dipendenti da fattori identitari, altre da barriere naturali, storicamente sedimentate. Risaltava il dato per il quale comuni di maggiore peso in termini di stratificazioni storiche non avevano sviluppato adeguate cinghie di connessione rispetto a comuni d’importanza minore ma più favoriti in termini di affinità culturali. Si sono, in questo modo, individuati dei limiti fisici-naturali, non identificabili dalla semplice analisi cartografica ma socialmente percepiti come barriere, che hanno, quindi, condizionato lo sviluppo non solo degli scambi, ma la percezione degli stessi confini. Emergeva, ad esempio, il ruolo svolto dai Regi Lagni, una persistenza ambientale non di mole insormontabile dal punto di vista fisico, che, tuttavia, aveva influenzato il compiersi delle connessioni nel corso del tempo. Grazie agli esiti del questionario, in definitiva, si è potuti procedere all’individuazione di una microunità di paesaggio che rispecchiasse le interrelazioni e gli scambi tra paesi limitrofi così come sono quotidianamente e storicamente sentiti dagli abitanti.

L’analisi delle componenti soggettive ha dato risultati sorprendenti anche quando la si è indirizzata a scale territoriali più dettagliate, facendo emergere aspetti che l’analisi del sistema ambientale, insediativo e infrastrutturale basata solo su dati oggettivi non era ovviamente riuscita a inquadrare. Si è, infatti, preso atto di un’inaspettata immagine mentale ben più ricca e carica di significati rispetto alle reali caratteristiche fisiche del territorio, tale da poter validamente costituire una sorta di vademecum per l’individuazione sia di punti di vista privilegiati sul paesaggio circondante, sia di elementi di riferimento e di riconoscimento all’interno dell’ambito urbano. Sono così emerse tutte quelle strade, piazze, emergenze architettoniche, ma anche colture e visuali, con scarsa valenza storica o morfologica, ma indicate come elementi identificativi del luogo. Si sono, inoltre, costatate una serie di nuove frammentazioni all’interno degli stessi confini comunali, oltre che intere aree urbane o imponenti infrastrutture avvertite, nella sostanza, come barriere da dover aggirare.

I risultati dell’analisi effettuata in tal senso hanno portato alla definizione di una proposta progettuale di riqualificazione urbana principalmente finalizzata ad un riequilibrio ambientale, sociale e culturale e, quindi, necessariamente rispettosa delle memorie e coerente con le percezioni di chi quotidianamente vive e fruisce quel territorio.

In conclusione credo che si possa affermare che ogni paesaggio, per quanto degradato sia, in sé possieda struttura e identità. Sta all’interprete il delicato compito di analizzare quel territorio tanto compiutamente da riuscire a svelare le sue, seppur deboli, qualità. Il senso di un’analisi paesistica in tal modo condotta è, quindi, l’addentrarsi in quel precipitato spontaneo depositato nell’immaginario collettivo dei suoi abitanti, considerando la rilevanza che l’immagine mentale ha affiancandosi alla percezione della forma fisica in se stessa. Il fine non è il goffo abbellimento delle nostre periferie degradate, bensì il tentativo di ristabilire una continuità, specie dove questa è venuta meno o sta mutando corso, tra passato, presente e futuro, tra le trasformazioni degli uomini e le vocazioni di un determinato paesaggio, nel tentativo, quindi, di restituire identità e coerenza a quei luoghi che l’hanno ormai perduta.

 

 

Note

 

1 La tesi di laurea dal titolo “Il paesaggio degli abitanti. Segni, tracce e memorie della piana campana”, è stata discussa nell’A.A. 2004/2005, relatore il Prof. Arch. Francesco Domenico Moccia.

2 Castelnovi P. (2002), Società locali e senso del paesaggio, in Clementi A. (a cura di), “Interpretazioni di paesaggio”, Meltemi, Roma.

3 Idem.

4 Romani V. (1999), Il paesaggio. Teoria e pianificazione, Ires, Torino.

5 Gambi L. (1961), Una geografia della storia, Einaudi, Torino.

6 Sereni E. (1961), Storia del paesaggio agrario italiano, Laterza, Bari.

7 Turri E. (1974), Semiologia del paesaggio italiano, Longanesi, Milano.

8 Idem.

9 Consiglio d’Europa (2000), Convenzione europea del paesaggio, Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa, Firenze.

10 Moccia F. D. (2001), La pianificazione di area vasta tra riforma costituzionale e politiche neocentraliste, a cura di Gerundo R, in “areAVasta”, n. 3/2001.

11 Idem.

12 Consiglio d’Europa (2000), Convenzione europea del paesaggio, Congresso dei poteri locali e regionali d’Europa, Firenze.

13 Castelnovi P. (2000), Il senso del paesaggio, Ires, Torino.

14 Moccia F. D. (2003), Progetti integrati territoriali in Campania. Aspettative e preoccupazioni in corso d’opera, in Moccia F. D. (a cura di), “I progetti integrati territoriali”, Graffiti, Napoli.

15 Calvino I. (1972), Le città invisibili, Mondadori, Milano, pag. 10.

16 Turri E. (1998), Il paesaggio come teatro, Marsilio, Padova.

17 Olmo C. (1991), Dalla tassonomia alla traccia, in “Casabella”, n. 575-576.

18 Dematteis G. (2000), Il senso comune del paesaggio come risorsa progettuale, in Castelnovi P. (a cura di), “Il senso del paesaggio”, Ires, Torino.

 

 

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