Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il paesaggio plurale


Filippo Gravagno

Salvatore Messina


 

Dai contenuti della Convenzione europea del paesaggio, secondo cui esso è una componente fondamentale della costruzione ed elaborazione delle culture locali, prende spunto una ricerca condotta dal Laboratorio Peat dell’Università di Catania sui paesaggi del rischio indotto dalla presenza del polo industriale di Priolo-Gargallo nella Provincia di Siracusa. Filippo Gravagno e Salvatore Messina, nell’esporre il lavoro svolto, propongono una prospettiva di intervento per le aree a rischio industriale alternativa alle politiche tradizionali

 

 

Siamo tutti ormai assuefatti all’idea che la nostra sia, a pieno titolo, la società del rischio; una società costretta a convivere con una crescente molteplicità di fonti di pericolo1. Questa consapevolezza è associata alla sensazione di una maggiore vulnerabilità dei nostri sistemi territoriali e ad una sempre più diffusa percezione del fallimento delle strategie di trattamento del rischio sino ad oggi messe in campo.

Questo fallimento, almeno in parte, sembra legato alle sempre più complesse modalità di interazione fra le nuove fonti di pericolo e il sistema delle relazioni sociali, economiche e ambientali, che ci costringono a sperimentare ed elaborare nuovi paradigmi e strumenti di trattamento dei problemi associati al rischio. Paradigmi e strumenti che, in quella che è ormai considerata l’era della tecnica2, vanno necessariamente finalizzati alla costruzione di modalità differenti di declinazione del rapporto individuo-società-ambiente3.

Il lavoro presentato in queste pagine è il risultato di una ricerca-azione svolta dal Laboratorio per la progettazione ecologica e ambientale del territorio (Lab.PEAT) dell’Università di Catania nel comprensorio industriale Asi di Siracusa dove è insediato uno dei maggiori poli della chimica italiana. Il principale obiettivo del lavoro è di aprire nuove prospettive progettuali per lo sviluppo di questo territorio a partire dal senso di alcune riflessioni costruite intorno ai contenuti della Carta del paesaggio europeo, sottoscritta a Firenze nel 2000.

In particolare la ricerca è costruita attorno al significato che la Carta europea del paesaggio attribuisce al termine paesaggio inteso come “… una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”, e soprattutto su ciò che la carta attribuisce come funzione alla “gestione dei paesaggi” comprendendone tutte “… le azioni volte, in una prospettiva di sviluppo sostenibile, a garantire il governo del paesaggio al fine di orientare e di armonizzare le sue trasformazioni provocate dai processi di sviluppo sociali, economici e ambientali” e alla “pianificazione dei paesaggi” che va correttamente intesa come l’insieme “... delle azioni fortemente lungimiranti, volte alla valorizzazione, al ripristino o alla creazione di paesaggi”.

 

 

Qualche considerazione preliminare … dal paesaggio ai paesaggi

 

Dai contenuti della Carta del paesaggio europeo emerge in primo luogo che, se il paesaggio è in qualche modo ciò che una comunità percepisce del suo ambiente di vita, e comunità è ormai un termine inevitabilmente plurale e atomizzato, il paesaggio non può, per sua natura, essere ormai declinato al singolare, ma solo al plurale così come plurali sono le dimensioni con cui può essere percepito e con cui chiede di essere interpretato.

I paesaggi del rischio sono dunque costituiti in primo luogo, da ciò che le comunità hanno come consapevolezza dei fattori di pericolo e delle vulnerabilità presenti nel proprio territorio. Parlare di paesaggio acquista tuttavia un senso solo in relazione alla formulazione di strategie finalizzate alla produzione di ambienti di vita ecologicamente sostenibili e socialmente non solo condivisi quanto soprattutto progettati. Parlare di paesaggi del rischio significa in particolare esplorare le modalità con cui una data comunità percepisce e vive la condizione di esposizione ad alcune fonti di pericolo, ma anche tentare di recuperare le sue facoltà progettuali latenti al fine di restituire al paesaggio e alle condizioni di vita presenti in questi territori dignità e possibilità plurali di esistenza.

È ormai evidente che per la costruzione di nuovi paesaggi occorre mettere in campo politiche integrate capaci di valorizzare e interpretare queste istanze ed esigenze e che i temi della mitigazione del rischio richiedono, più che una implementazione della tecnica, una forte implementazione della politica, intesa quale luogo della critica sociale volta a migliorare le condizioni di vita delle comunità territorializzate e volta a ricomporre le relazioni ternarie individuo-società-ambiente.

 

 

Qualche breve cenno storico … per recuperare la memoria del luogo

 

Il processo di industrializzazione a Priolo ha inizio nell’immediato secondo dopoguerra, allorché nel 1948 il giovane Angelo Moratti, trasferisce ad Augusta gli impianti di una raffineria dismessa a Longview nel Texas dando vita alla Rasiom (Raffineria siciliana oli minerali) che successivamente diventerà Esso.

La scelta del territorio di Priolo è determinata da numerosi fattori: dal fatto di trovarsi sulla rotta che collega il Canale di Suez a Gibilterra dove si registrava il maggior traffico di greggio proveniente dal Medio Oriente e dalla Russia; dalle favorevoli condizioni orografiche del sito; dalla notevole disponibilità idrica; dalla presenza di una rada naturale; dalla possibilità di impiego dei serbatoi e del pontile della Marina militare costruiti durante la seconda Guerra Mondiale. Soprattutto dal fatto che la Provincia di Siracusa è l’emblema di un meridione ancora rurale e arretrato, facile all’incantamento delle promesse della modernizzazione e con una grande disponibilità di manodopera locale a basso costo.

Sfruttando alcune agevolazioni e gli incentivi economici erogati dalla Cassa per il Mezzogiorno in pochi anni si vanno progressivamente a insediare nell’area numerosi altri impianti: la Liquichimica, oggi Sasol, la Co.Ge.Ma.; l’Eternit, la Sicilfusti; l’Edison che investe nell’area quanto ricavato dalla cessione delle industrie elettriche allo Stato realizzando la S.IN.CAT (Società industriale catanese) successivamente denominata Enichem per la produzione di fertilizzanti; la Celene per la produzione di polimeri; la Montecatini che produce prodotti chimici e petrolchimici.

A questi impianti verranno presto aggiunte la centrale Enel Tifeo e negli anni settanta l’Icam per la produzione di etilene, la centrale termoelettrica Enel di Melilli, la Erg energy e la raffineria Isab che cancella con la sua localizzazione il tessuto urbano di Marina di Melilli ormai incompatibile con gli impianti allocati nell’area.

Negli anni settanta Priolo vive il miraggio delle migliaia di posti di lavoro promesse dall’industria, ma cambia il suo volto e nel suo territorio cominciano ad affacciarsi anche alcuni problemi inediti.

A Priolo, ad Augusta e a Melilli si riversano centinaia di famiglie da tutta la Sicilia alla ricerca di un posto di lavoro, di una occupazione fissa in grado di sottrarle alla precarietà del lavoro agricolo, alla durezza di quello di mare e alla dilagante disoccupazione dell’entroterra siciliano.

L’ecosistema tuttavia comincia presto a mostrare i primi sintomi di malessere: insieme ai fumi delle ciminiere diventano visibili i primi effetti dei gas inquinanti, dei reflui delle lavorazioni chimiche e degli scarichi industriali nelle acque del mare. Soprattutto cominciano a venir meno gran parte delle relazioni che prima garantivano l’equilibrio del territorio: i saperi del mondo contadino scompaiono e con essi le cure per il suolo agricolo e i vecchi legami di solidarietà e mutualità fra la gente. La vita della comunità subisce delle trasformazioni radicali. Il lavoro in fabbrica diventa il principale elemento regolatore e ordinatore della vita dell’intera comunità.

Crescono la ricchezza pro-capite e i consumi, nascono nuove attività commerciali, ma la comunità comincia a soffrire le prime situazioni di disagio a causa della sua rapida crescita demografica e della mancanza di adeguati servizi. Soprattutto cresce senza tener conto di ciò che la circonda, del nuovo paesaggio che ormai ha preso il posto dei vecchi agrumeti, uliveti e mandorleti.

È quasi la mezzanotte del 19.5.1985 quando un guasto provoca l’esplosione di un serbatoio di Etilene nello stabilimento dell’impianto dell’Icam. Il paese deve improvvisamente essere evacuato. Nel panico migliaia di persone si riversano in strada rimanendovi intasate con le proprie auto. Nessuno sa cosa fare, dove andare. La gente tenta di scappare ma non ci riesce. Fortunatamente è solo etilene e non ammoniaca come anni prima a Seveso, anche se di ammoniaca negli stabilimenti di Priolo ce ne era a sufficienza da provocare danni assai gravi.

Questo non è un incidente del tutto inaspettato: già da tempo specialisti di vari settori, avevano cominciato a segnalare i possibili effetti di alcune fonti di pericolo presenti nell’area.

Alcuni medici, che operavano nel territorio di Priolo, si erano già accorti di come le patologie legate alla presenza di sostanze nocive (malformazioni perinatali e carcinoma, solo per citare i più frequenti) fossero aumentate vertiginosamente. Così, avevano cominciato da un lato a catalogare e a monitorare tutte quelle patologie che possono colpire i lavoratori e gli abitanti, e dall’altro tentato di far prendere conoscenza dei reali pericoli a cui sono esposti. Avevano cioè tentato di far nascere una cultura del rischio nella comunità locale attraverso l’informazione.

Anche biologi e geologi avevano tuttavia cominciato a denunciare alcuni fatti meritevoli di attenzione.

I biologi analizzando la qualità dell’aria e dell’ambiente marino, avevano trovato forti correlazioni tra gli odori sgradevoli, l’irritazione delle mucose e degli occhi, la modificazione genetica di alcuni organismi marini e la massiccia presenza di metalli pesanti nell’aria e nel mare.

I geologi e i geofisici avevano messo in guardia dai pericoli di inquinamento della falda e del sottosuolo derivanti dalla presenza delle numerose discariche abusive e delle cave. Soprattutto avevano segnalato l’elevata pericolosità sismica dell’area che può facilmente e fatalmente tramutarsi in occasione di innesco per una catena di incidenti negli impianti industriali dagli effetti imprevedibili e assai catastrofici poiché difficilmente controllabili.

Questi studi, che hanno avuto una certa diffusione all’interno della comunità locale, costituiscono ancor oggi le principali fonti di informazione sulle reali condizioni di rischio dell’area di Priolo. È su di essi che ancora oggi è fondata gran parte dell’informazione diffusa ovvero il sapere comune della popolazione che vive nell’area.

 

La gestione (?) istituzionale del rischio

 

Tragedie come quelle di Seveso o Manfredonia, o il fortunato epilogo dell’incidente del 1985 a Priolo, portano a trattare già a partire dal 1988 il problema del rischio industriale anche a livello istituzionale.

La risposta istituzionale tuttavia ancora oggi non affronta le condizioni strutturali e la complessità dei problemi realmente presenti, limitandosi a organizzare solo l’eventuale emergenza, trascurando le condizioni normali di esercizio degli impianti che nell’area di Priolo, come in tantissime altre realtà, costituiscono la vera emergenza. Essa è affidata alla applicazione di direttive, per alcuni aspetti troppo generiche, che lasciano le questioni del rischio fuori dalla costruzione di una strategia complessiva di sviluppo del comprensorio.

La legge 334/1999, meglio conosciuta come Seveso II4, attualmente norma le situazioni di rischio industriale in Italia. Con questa legge il legislatore si prefigge di censire e controllare tutte quelle fabbriche che possono causare un incidente rilevante, cioè una esplosione, un incendio o una fuga di sostanze tossiche.

Le fabbriche ritenute pericolose vengono così individuate attraverso due parametri: il tipo e il quantitativo di sostanza lavorata. Se l’azienda detiene una certa quantità di sostanza pericolosa superiore ai limiti fissati dalla legge, questa viene ritenuta fonte d’incidente rilevante, mentre restano escluse da qualunque controllo le cave, le discariche di rifiuti, gli elettrodotti, gli impianti militari, le condotte, i trasporti pericolosi su ferro e su gomma.

La Seveso II affida il trattamento della messa in sicurezza del territorio a due piani: uno interno all’area di produzione che deve redigere l’azienda ed uno esterno che deve essere redatto dal Prefetto, d’intesa con le regioni e gli enti locali interessati, mentre le amministrazioni comunali in cui ricadono questi impianti sono tenute a redigere un rapporto di sicurezza, che deve informare la popolazione esposta dei rischi presenti nell’area.

Sulla base di questi elementi a Priolo, le industrie ritenute pericolose risultano solo il polo petrolchimico (Agip, Polimeri Europa, Enichem), l’Isab-Erg e l’area Air Liquide (Figura 1).

Figura 1 - Sorgenti di pericolo presenti nel territorio di Priolo secondo le istituzioni (vengono considerate solo quelle capaci di provocare danni provocati da un incidente rilevante)

1. Polo petrolchimico; 2. Isab-Erg; 3. Air Liquide

 

A Priolo tuttavia gran parte delle fabbriche interessate dalla Seveso II ha redatto un piano di sicurezza interno che per molti versi risulta di certo parziale e incompleto, almeno per quanto attiene alla definizione dei danni che alcune sostanze pericolose possono causare al lavoratore o al cittadino che vi si trovi a contatto, e alla individuazione delle aree di ricaduta in caso d’incidente rilevante. Questi strumenti si limitano infatti a pianificare la fuga dall’area degli impianti, senza preoccuparsi di ciò che avviene dopo e all’esterno.

Alla fine, sebbene siano trascorsi circa quindici anni dall’emanazione della Seveso e cinque dalla Seveso II, non è neanche entrato in vigore il piano di sicurezza esterno, l’unico strumento previsto dalla legge per pianificare le operazioni da svolgersi in caso d’incidente industriale5, mentre l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, che ha il compito di monitorare le condizioni dell’ambiente, stenta ancora a partire e non dispone di propri strumenti idonei al controllo della diffusione di sostanze pericolose o nocive nell’ambiente.

La stessa protezione civile si limita a controllare la situazione attraverso l’uso di alcune telecamere poste sul tetto del municipio, puntate sulle ciminiere delle industrie a rischio. In caso d’allarme, attraverso l’uso di megafoni posti agli angoli di qualche strada del centro, si pensa di poter avvisare la popolazione sul da farsi. Sebbene si sia provveduto a fare simulazioni nelle scuole e in altri ambienti altamente frequentati, a Priolo non si sono mai svolte prove generali di evacuazione in caso d’allarme per incidente rilevante. Nel piano di sicurezza del territorio sono previste solo zone di raccolta in caso d’evento sismico. Nessuna informazione si ha invece sulle aree di raccolta e tanto meno sulle vie di fuga in caso di un incidente nella zona industriale.

Per quanto attiene all’informazione dei cittadini, da un lato la Seveso II attribuisce al sindaco la responsabilità di informare i cittadini sia sul pericolo a cui sono esposti sia sulle norme da seguire in caso d’incidente, responsabilità che a Priolo non appare comunque assolta; dall’altro la medesima legge prevede la secretazione di alcuni dati che sarebbero fondamentali per una reale messa in sicurezza di Priolo. Di fatto gli abitanti e i lavoratori non sono informati del reale rischio a cui sono quotidianamente esposti, e ne hanno consapevolezza solo attraverso la propria esperienza quotidiana: gli odori sgradevoli, le intossicazioni e alcune malattie gravi, e i mass media, che sono oggi più attenti a portare in luce certe situazioni di disagio sociale e ambientale. La consapevolezza del rischio si ha più perché esso è diventato un sapere diffuso che si veicola da cittadino a cittadino, che per il ruolo svolto dall’amministrazione di costruzione di campagne di informazione sull’argomento.

Nel frattempo di crisi in crisi cala progressivamente il numero degli occupati nell’area: dei 20.000 posti di lavoro degli anni settanta ne restano ormai poco meno di 6.000. Resta invece in questo scenario di generale smobilitazione che lascia disoccupazione, malattie e inquinamento il problema del che cosa fare, del come costruire un modello credibile di futuro per questa area a partire dalla situazione attuale.

 

 

Verso la costruzione di una nuova immagine di futuro con la comunità di Priolo

 

In questo contesto si è tentato di inserire la ricerca-azione del Lab.PEAT che intende recuperare e far emergere le capacità progettuali latenti della comunità di Priolo a partire dalla crescita della consapevolezza delle effettive condizioni di esposizione ai rischi presenti nel territorio al fine di avviare processi utili a costruire nuove immagini di futuro per l’area. Immagini capaci di riannodare i legami del sistema delle relazioni ternarie individuo-società-ambiente.

Il lavoro del Lab.PEAT è stato indirizzato, in una prima fase, verso l’individuazione degli hazard che realmente incidono sulla vita quotidiana degli abitanti, per vedere come influenzano i comportamenti della comunità e il tipo di pressione che essi esercitano sull’ambiente naturale.

Gli hazard che abbiamo considerato nel nostro lavoro sono molto più numerosi di quelli previsti dalla normativa, perché nella nostra prospettiva sono considerati hazard non solo quelli che provocano danni a causa di un qualche incidente, ma anche quelli che creano danni diffusi e continui nel tempo e nello spazio; in altre parole si è attribuita maggiore rilevanza ai fattori sempre presenti sul territorio e dunque maggiormente percepiti dalla popolazione. Alla luce degli studi ufficiali e informali6 sino ad oggi condotti nell’area, le sorgenti di pericolo accertato che insistono sul territorio comprendono almeno il polo petrolchimico (Agip, Polimeri Europa, Enichem), l’Isab-Erg, l’Air Liquide, la centrale termoelettrica Enel, il depuratore Ias, il cementificio Unicem, le cave, le discariche abusive, l’elettrodotto, l’energodotto, le vie di comunicazione principali (Ss 114, ex Ss 114, ferrovia) e i depositi militari (Figura 2).

Figura 2 - Sorgenti di pericolo presenti nel territorio di Priolo secondo le fonti scientifiche (vengono considerate quelle capaci di provocare sia danni puntuali, sia danni diffusi, anche in assenza di incidente rilevante)

1. Polo petrolchimico; 2. Isab - Erg; 3. Air Liquide; 4. C.T. Enel; 5. Depuratore Ias; 6. Cementificio Unicum; 7. Cave; 8. Discariche abusive; 9. Ss 114; 10. Ex Ss 114; 11. Linea ferroviaria; 12. Elettrodotti; 13. Faglie

 

Nel nostro lavoro abbiamo inoltre ritenuto opportuno adottare un più ampio concetto di vulnerabilità, inteso come propensione al danno7. In questa accezione è tutto l’ecosistema del territorio di Priolo che diventa area sensibile ai danni provocati dalle industrie, poiché ogni suo elemento è in relazione con tutte le altre componenti del territorio. Per questo motivo è stata elaborata una carta in cui sono evidenziate le aree d’impatto di tutte le fonti di pericolo presenti nell’area utilizzando i dati e le informazioni scientifiche provenienti dagli studi fatti sul territorio di Priolo e di Melilli (Figura 6). È stato così possibile individuare quattro macro-aree:

Figura 6 - Aree d'impatto danni diffusi

 

 

1. aree in cui sono registrati effetti diretti sulla salute: sono le aree in cui le indagini mediche segnalano l’aumento di alcune patologie correlate alla presenza di alcune sostanze derivanti dai processi di lavorazione delle industrie. In particolare sono stati registrati tassi di mortalità più elevati per tumori (al polmone, al pancreas e all’encefalo) e risultano più frequenti i casi di malformazioni congenite e malattie perinatali;

2. aree interessate da effetti dannosi a carico dell’ambiente marino: sono le aree in cui alcuni studi di biologia marina hanno dimostrato la presenza di mutazioni genetiche in alcuni organismi marini provocate da alcuni metalli pesanti rilasciati in mare;

3. aree con presenza di sostanze inquinanti nel sottosuolo: si tratta delle aree in cui si sono riscontrate tracce di sostanze inquinanti nelle acque del sottosuolo impiegate negli usi civili e per irrigare i campi e in cui il prelievo massiccio dalle falde idriche da parte delle industrie, ha fatto abbassare la quota piezometrica di circa 100 m, con conseguente ingresso in falda di acqua marina;

4. aree interessate dalla presenza di inquinamento atmosferico: comprendono le aree in cui si registra il superamento della soglia massima di legge per concentrazione in atmosfera di metalli pesanti, di mercaptani e di ammine responsabili di odori sgradevoli e di irritazione dei tessuti e delle mucose.

La comparazione tra le aree di ricaduta delle fonti di pericolo e i fattori di vulnerabilità del territorio permette di mettere in luce le rilevanti differenze tra ciò che oggi viene considerato pericolo dalle istituzioni e ciò che più coerentemente dovrebbe essere preso in considerazione come fattore di pericolo per l’area.

Secondo le istituzioni le zone coinvolte da un possibile rilascio di sostanza tossica o di esplosione, non superano i confini delle fabbriche (Figura 3);

Figura 3 - Aree d'impatto secondo le istituzioni (per esse le aree d'impatto non superano i confini delle fabbriche)

 

 

mentre attraverso una semplice implementazione di alcune formule riportate da Vismara (1988), le aree di ricaduta degli impatti superano abbondantemente il perimetro delle industrie interessando sia il centro abitato di Priolo che gli altri insediamenti industriali, provocando possibili effetti domino di proporzioni molto vaste. In particolare, qualora esplodesse un serbatoio di ammoniaca avremmo il probabile crollo totale degli edifici in un raggio di 1073 m, la demolizione parziale degli edifici fino a 1428 m, edifici inabitabili, ma riparabili fino a 3213 m (Figura 4).

Figura 4 - Aree d'impatto in caso di esplosione di un serbatoio di ammoniaca

 

 

Le cose peggiorano implementando le formule per l’esplosione di un serbatoio di benzene in cui si possono avere danni del primo tipo sino a1400 m, del secondo tipo sino a 1850 m e del terzo tipo sino a 4150 m (Figura 5).

Figura 5 - Aree d'impatto in caso di esplosione di un serbatoio di benzene

 

 

Il focus del nostro lavoro, alla luce delle considerazioni rappresentate nell’introduzione, è tuttavia volto alla individuazione delle cesure provocate dai processi di trasformazione del secolo scorso. In particolare, a cavallo degli anni ’50 il paesaggio da agricolo si è trasformato in industriale, e ha sradicato completamente le tradizioni e gli stili di vita locali, cambiando soprattutto tempi e forme del rapporto tra comunità e ambiente. Quando, cioè, il contadino si trasformò in operaio, il sistema sociale della comunità rurale divenne quello della catena di montaggio deresponsabilizzando gli abitanti nei confronti del territorio.

I risultati di questa lettura sono restituiti nella tavola delle dinamiche dell’uso del suolo (Figura 7).

Figura 7.1 - Dinamiche dell'uso del suolo di Priolo dal 1967 al 2004

 

 

 

 

Figura 7.2 - Aree derelitte presenti a Priolo nel 2005

 

 

Questa carta è stata redatta confrontando l’Igm del 1967 e le ortofoto del 2004. Dalla matrice di trasformazione del territorio tra gli anni ’60 e il 2000, appare subito come coltivazioni da lungo tempo presenti sul territorio (agrumeti, mandorleti, uliveti) abbiano lasciato il posto negli ultimi anni a vaste aree derelitte, che solo sui Monti Climiti sono state rioccupate da vegetazione spontanea. Il resto delle aree, soprattutto sulla piana, dall’entroterra al mare, risultano spoglie e spesso vandalizzate da discariche abusive.

L’industrializzazione ha prodotto nel territorio una presenza massiccia di aree abbandonate, che possiamo oggi definire veri e propri relitti paesistici. Mentre l’effetto sull’ambiente è rappresentato sottoforma di inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo e sulla salute umana e l’effetto sulla psiche e sui comportamenti umani è visibile nella assuefazione al rischio, l’effetto sul territorio assume la forma visibile delle aree derelitte. Abbiamo cioè, cercato di indagare come le fonti di pericolo influenzano la vita della comunità di Priolo. In questa fase sono stati necessari uno scambio di conoscenza e un dialogo diretto con la comunità, ma anche la lettura della storia del territorio interpretata e ricostruita attraverso i testi e i documenti ufficiali e non, e attraverso la comparazione delle carte e delle ortofoto.

Il riscontro di questa mutazione degenerativa si è poi avuto dialogando con gli abitanti attraverso interviste mirate a indagare i livelli di conoscenza, i gradi di informazione e soprattutto di elaborazione da parte degli abitanti di Priolo delle fonti di pericolo, presenti nel loro territorio, dei comportamenti e delle norme da seguire in caso d’incidente, delle influenze che tutto ciò ha sul loro vissuto quotidiano.

Ne è emerso che la quasi totalità dei cittadini sa di vivere in una zona ad alto rischio industriale, ma lo sa perché, come già detto, il rischio è un sapere diffuso e non perché è realmente informata dalle istituzioni. La maggior parte dei soggetti sconosce, infatti, le norme principali di comportamento in caso d’incidente.

Ma ciò che dal nostro punto di vista risulta più rilevante è che gran parte del campione intervistato identifica Priolo con le fabbriche. Non riesce ad avere una immagine differente del proprio luogo di vita: Priolo è i suoi fumi infernali, i suoi serbatoi d’ammoniaca, i suoi odori malsani. Questo accerchiamento delle industrie, provoca un senso di angoscia e di smarrimento negli abitanti di questo territorio, che ne limita le capacità progettuali. Le uniche due possibilità di comportamento rilevate attraverso le interviste sono così ridotte alla fuga da Priolo o all’assuefazione, quasi patologica, a questo sistema di cose, dimenticando come era la costa in passato e non riuscendo a immaginare cosa essa potrebbe diventare in futuro.

Questa immagine diffusa del proprio luogo di vita emerge anche, e se vogliamo ancor più drammaticamente, dal lavoro svolto con i bambini della scuola elementare Manzoni, che con i loro disegni ci hanno restituito la loro visione del territorio, la loro dimensione e prospettiva di esistenza (Figura 8).

Figura 8 - Priolo vista con gli occhi dei bambini

 

 

Questi dati ci hanno permesso di costruire quella che abbiamo definito la carta delle paure e delle abitudini, una carta che non ha alcuna pretesa di oggettività e che di certo presenta molti limiti a causa delle difficoltà di trasferimento dei comportamenti e dei sentimenti in una carta territoriale al 25.000. Da questa tuttavia emergono molte delle contraddizioni e delle patologie a nostro avviso oggi presenti nel territorio (Figura 9).

Figura 9 - Le paure e le abitudini della comunità

 

 

Attraverso lo studio delle dinamiche del suolo e il dialogo con gli abitanti sono emersi due racconti del territorio.

Il primo. Priolo nasce dalla conformazione geomorfologia dei Monti Climiti. Proprio la loro forma e la loro sostanza sono l’inizio di tutto. Dai loro canyon naturali di pietra calcarea, si riescono a raccogliere e incanalare le acque che dalle sommità montuose arrivano fino al mare. È intorno a questi corsi d’acqua che gli uomini di questa porzione di Sicilia, fin dalla antichità organizzano la loro vita. L’acqua diventa l’elemento generatore e aggregatore di tutte le risorse umane. Le permanenze delle vecchie masserie e dei percorsi rurali che le connettono sono segni che testimoniano questo legame. L’uomo aveva un forte interscambio con la natura: questa veniva tutelata e curata e in cambio sostentava tutte le comunità antropiche che nel corso dei secoli si sono succedute. Dunque, schematizzando, la relazione ecologica fondamentale in questo territorio è: conformazione geomorfologica — corsi d’acqua - rete antropica rurale.

Il secondo. Il territorio ci dice che queste relazioni sono state interrotte e questa rottura ha determinato la nascita dei relitti paesistici. Infatti l’acqua prelevata in forma massiccia dal sottosuolo per i processi industriali ha spezzato il legame con la terra; la città ingrandendosi per la forte emigrazione verso la zona industriale ha cementificato i corsi d’acqua. Nel frattempo, il contadino ha smesso di coltivare, preferendo la tuta blu. Così in breve tempo tutto il territorio ha assunto una conformazione industriale dimenticando la sua essenza agricola. Lacerti di territorio prima fiorenti, diventano sterili e appetibili solo come discariche a cielo aperto. Dunque ripristinare la relazione ecologica fondamentale, e di conseguenza tutto il tessuto spaziale che intorno si era attivato, è lo spunto e il suggerimento che il territorio ci comunica.

Ri-significare il territorio significa scardinare le relazioni malsane che legano oggi l’uomo, la società e l’ambiente per ritrovare quelle perse ed ecologicamente valide. Per ritrovare il paesaggio sano, fatto di relazioni compatibili e sostenibili con il territorio. Questo non vuol dire restaurare il territorio, non avrebbe senso. Questo vuol dire ri-scoprire la relazione ecologica fondamentale e ri-progettare i relitti paesistici.

Per costruire e dare vita ad una struttura di relazioni, è stata realizzata una carta delle unità ambientali, attraverso cui si è tentata una interpretazione del territorio con la quale innescare il nostro percorso ecologico progettuale (Figura 10 e 11).

Figura 10 - Il Parco delle relazioni: la sua trama

1. Parco agricolo; 2. Parco dei monumenti naturali; 3. Parco delle operosità ecologiche; 4. Parco della memoria ecologica; 5. Il parco di terra e di mare; 6. Parco della pace; 7. Laboratorio del verde sperimentale; 8. Aree filtro per il biomonitoraggio e la fitoestrazione; 9. Aree di osmosi tra Parco e centro abitato; 10. Aree di integrazione con bosco diffuso; 11. Aree per agricoltura no-food; 12. Aree per agricoltura alimentare; 13. Aree per il trattamento delle acque reflue

 

Figura 11 - Il Parco delle relazioni: le sue peculiarità diffuse

 

 

 

 

Ci sembra che essa possa costituire un utile punto di partenza per approfondire alcune relazioni presenti nel territorio, da cui è possibile tentare una spiegazione per certe dinamiche di cambiamento nell’uso del suolo e del paesaggio. Ma soprattutto per avviare un lavoro riflessivo di ri-immaginazione collettiva del territorio. Magari a partire da alcuni interventi che possono essere concretamente avviati per ristabilire un minimo di condizioni d’equilibrio tra la comunità e il suo ambiente di vita e che possono essere correttamente inseriti nell’alveo delle politiche correnti e ordinarie di programmazione e governo delle trasformazioni d’uso del suolo.

Con ciò si spera di avviare un dibattito sulla possibilità di innesco di modalità differenti di coesistenza tra gli abitanti e gli impianti industriali, ma soprattutto di riaprire la collettività ad un maggior senso di responsabilità e di voglia di protagonismo nei confronti delle sorti del suo territorio.

Ma quali contenuti dare a questo progetto? Noi abbiamo pensato ad un progetto che ci piace definire ecologico: una nuova rete di relazioni da innestare sul territorio. Qualcosa che implichi tutela e rispetto dei segni antichi sia naturali che antropici, ma anche frequentazione sociale ad ogni livello: una differente declinazione dell’idea di parco.

 

 

La nostra idea di parco per Priolo

 

Il territorio su cui si vuole intervenire è ampio. Va dai Monti Climiti al mare, passando per la pianura dove c’è il centro abitato di Priolo. In esso sono chiaramente identificabili almeno tre differenti unità ambientali. Per questa ragione abbiamo ritenuto opportuno articolare la nostra proposta in tre ambiti: la fascia sopra il gradino morfologico dei Monti Climiti; la zona a sud dell’abitato di Priolo, la penisola Magnisi.

Seppur differenti dal punto di vista morfologico, tutti questi ambiti sono tuttavia uniti dai corsi d’acqua che dai monti scendono fino al mare; questi corridoi biotici, sono da sempre delle cerniere naturali che legano i monti al mare insieme alle permanenze delle armature antropiche di matrice rurale e archeologica.

Agire su questi ambiti implica la rigenerazione delle loro relazioni ecologiche, ma anche ri-considerare e ri-progettare i vuoti, i relitti paesistici che questi corridoi connettono.

Un parco fatto da poche aree vincolate ma che si propone quale ambiente creativo, di incontro sociale, ma anche di lavoro. Ecco qual è la nostra idea di parco. Niente di confinato, anzi luogo di integrazione umana e ambientale; luogo della memoria e dell’innovazione tecnologica in chiave ecologica e di ri-fondazione della comunità locale.

Con questo intervento si vuole spostare l’asse l’attenzione dalla zona industriale all’entroterra, con una piccola appendice sulla penisola Magnisi. Incidere sulla identificazione della comunità con le fabbriche. Ma anche altro: un nuovo modello di sviluppo economico per il territorio che vuole essere altro rispetto al polo petrolchimico proponendosi come un polo di sviluppo ecologico e scientifico. La chimica verde, i bio-materiali, i centri di ricerca e per l’agricoltura no-food sono solo alcuni spunti di riflessione per una nuova economia dell’area.

 

Il parco agricolo

 

Questo parco, da un lato ri-propone la coltivazione e il mantenimento delle specie agricole tipiche della zona mantenute coi cicli della rotazione, con il ripristino di tutte le strutture antropiche di supporto (masserie, percorsi, pozzi); dall’altro propone la fruizione tipica dell’ecoturismo, della didattica, con percorsi pedonali, ciclabili o da percorrere a cavallo.

Molta importanza è data alla chiusura di alcuni cicli ecologici urbani usando come concime i rifiuti organici della città. La valenza storica, per un territorio che fonda le sue radici nella cultura agricola, di un parco del genere è fondamentale. Questo ambito permette di ricucire lo strappo che l’industria pesante ha creato tra comunità e territorio; si propone quale luogo di memoria e attrattore economico-turistico per tutta la zona, luogo di svago e di cultura allo stesso tempo.

 

Il parco dei monumenti naturali

 

In questo ambito rientra la formazione geomorfologica dei monti Climiti. I Climiti vanno ri-significati come sistema ecologico, per la densità di segni di valore storico e naturale presenti. I rilievi (ad esempio Monte S. Nicola), i canyon, le grotte, le gole presenti in quest’ambito costituiscono un patrimonio di inestimabile valore, insieme alla macchia mediterranea qui in forte espansione nelle aree abbandonate dall’uomo e alle testimonianze archeologiche presenti nell’area.

Le cave in questo contesto possono diventare occasione per insediare nuove attività economiche quali laboratori per la trasformazione primaria dei prodotti provenienti dalle coltivazioni no-food, laboratori artigianali per il riciclaggio, per la creazione di manufatti artistici, spazi per attività sportive non agonistiche, laboratori per la modellazione del gesso (nei dintorni delle cave).

L’alveo del Mostringiano può così essere riqualificato e proposto quale spina verde che connette il parco da ovest a est. Da essa può partire una rete di percorsi pedonali trasversali recuperando le vecchie trazzere rurali. Questo parco può svolgere inoltre la funzione di connettore delle periferie più estreme della città (i quartieri a est e San Focà), diventando elemento utile alla loro riqualificazione.

 

Il parco della memoria ecologica

 

Esso si inserisce in un ambito, tutto da ri-progettare e ri-inventare: un cammeo di territorio. Un territorio da esplorare per strati nelle relazioni che legano le masserie, i percorsi rurali, i pozzi e i corsi d’acqua, alle permanenze archeologiche e che ci testimoniano l’antico rapporto presente in questo contesto tra uomo e ambiente.

Questo spazio si presta inoltre a ospitare molte forme di attività artistiche. Noi lo immaginiamo come un museo a cielo aperto, fatto di mostre itineranti e appuntamenti periodici che comunque abbiano come tema conduttore l’ambiente e il suo rapporto con l’uomo.

Anche qui cerniera con le altre aree a parco diventa il corso d’acqua che noi pensiamo ripristinato e bonificato, insieme ai numerosi percorsi rurali.

 

Il parco di mare e di terra

 

La penisola Magnisi è un posto assolutamente da scippare agli scenari dei paesaggi della industria del petrolio. La zona oltre a rivestire una enorme valenza ecologica è anche sede dei resti di Thapsos, uno dei più importanti insediamenti siciliani dell’età del bronzo. Oggigiorno la penisola è abbandonata a se e i reperti difficilmente fruibili. Bisogna mettere in valore tutto ciò e riscoprire il rapporto col mare qui da sempre presente.

 

Il parco della pace

 

Luogo simbolico, senza barriere o frontiere. Luogo indefinito fra monti e collina, crocevia di strade da nord, da sud, da est, da ovest. Luogo di incontro e scambio di esperienze e tematiche sull’integrazione, la pace e la multicultura. Parco da contrapporre alla base Nato che si trova anch’essa sotto i Climiti, ma dalla parte opposta, che è invece chiusura e sottrazione di territorio.

Il parco sempre aperto, può ospitare forum permanenti sulle tematiche ecologiche e pacifiste, e attività artistiche di ogni tipo ma può ospitare anche un centro di accoglienza per i profughi di tutte le guerre.

 

Il laboratorio del verde sperimentale

 

Questo spazio adiacente alle scuole, è un luogo volto a costruire una spinta educativa alla formazione ecologica dei bambini e dei genitori. Qui, sarà possibile la trasmissione del sapere locale alle nuove generazioni che poco conoscono la storia e le tradizioni di Priolo. Un luogo per la elaborazione di possibili nuovi modelli di sviluppo del territorio. Riavviare il contatto con la terra e aprire nuove prospettive nel rapporto tra i giovani e ambiente.

 

Le aree filtro per il biomonitoraggio e per la fitoestrazione

 

Nelle aree abbandonate intorno le industrie sarebbe impossibile e dannoso recuperare il territorio con attività antropiche di fruizione a scopo ricreativo. Tuttavia sono forse questi i paesaggi su cui è più necessario intervenire. Una possibilità di recupero, per mitigare i problemi di inquinamento che come sappiamo sono qui maggiormente evidenti, è data dalla loro piantumazione con bioindicatori (piante che riescono a indicare la presenza di metalli pesanti nel suolo e in atmosfera) e bioaccumulatori (piante che riescono a mitigare la presenza dei metalli pesanti nel suolo).

 

Le aree per agricoltura non alimentare

 

Non tutte le aree coltivate devono produrre prodotti da inserire nella catena alimentare. In questi ultimi anni le ricerche sulle fonti alternative di energia rinnovabile hanno creato una nicchia della agricoltura, quella non alimentare (no-food). Vi sono molte specie vegetali che servono per questi scopi. A noi interessa sostanziare l’uso alternativo dei suoli derelitti, di nuovo produttori di territorio e di economia locale. Infatti, i prodotti della agricoltura no-food, non solo possono essere qui prodotti ma anche lavorati8.

 

Le aree per agricoltura alimentare

 

In alcune aree è tuttavia ancora possibile praticare alcune colture per uso alimentare. Queste aree in particolare sono collocate in prossimità di contrada Feudo Grande e a sud verso il fiume Anapo. Per gli abitanti di Priolo, questa area rappresenta già la campagna, il luogo dove trascorrere qualche ora nel verde durante le festività.

 

Le aree per il trattamento delle acque reflue

 

Questo è un ambito, da destinare al trattamento delle acque con la fitodepurazione. Qui si raccolgono le acque reflue del centro abitato, si depurano in modo naturale e si rimettono in ciclo. L’area viene piantumata con una fitta vegetazione di pini marittimi già presenti lungo la costa. La vicinanza alla zona industriale, la rende una zona filtro, e quindi non fruibile da tutti i cittadini, ma solo agli addetti ai lavori di depurazione e di monitoraggio delle acque superficiali e di sottosuolo.

 

 

Per tirar le somme

 

L’idea di parco che abbiamo cercato di costruire è solo un modo per avviare un dibattito sulla possibilità di esistenza di un futuro differente per il comprensorio. Ci sembra assai improbabile infatti che la riduzione del rischio industriale a Priolo possa passare solo attraverso la realizzazione di nuove vie di fuga da utilizzare in caso di incidente. Gli incidenti a Priolo si verificano ogni giorno. Basta scorrere con un po’ di attenzione l’Atlante della mortalità per tumori e per le patologie cronico degenerative in Provincia di Siracusa dal 1995 al 19999. O ancora più drammaticamente guardare gli occhi di quelle madri che mettono alla luce bambini che non potranno mai sorridere pienamente alla vita.

Con l’ingresso delle fabbriche nel territorio di Priolo non è stato mutilato infatti solo l’ambiente, ma anche le persone, cui sono state limitati alcuni diritti fondamentali quali quello alla salute e ad una dignitosa qualità della vita. Ma soprattutto le capacità creative e inventive, la capacità di costruzione di futuro. È su questa capacità che ci sembra più utile fare affidamento e lavorare per costruire i paesaggi del futuro.

Il paesaggio derelitto che oggi possiamo vedere in questo territorio, infatti, non è altro che il risultato della deriva di questo complesso processo, della rottura delle relazioni virtuose tra individuo-comunità-ambiente che sono stati da sempre i punti di forza di ogni comunità territorializzata.

 

 

Note

 

1 Cfr.Beck (1992).

2 Cfr Galimberti (1999).

3 Cfr Micarelli, Pizziolo (2003).

4 La prima legge in Italia a occuparsi del rischio industriale arriva come recepimento della direttiva Cee 501/1982 (meglio nota come direttiva Seveso), ed è la 175/1988, questa viene poi superata da quella attualmente in vigore, la legge 334/1999 la cosiddetta Seveso II, anch’essa frutto del recepimento della direttiva Cee 82/1996.

5 Per quanto abbiamo potuto appurare, questo strumento esiste, è depositato in Prefettura a Siracusa, ma nessuno conosce le motivazioni della sua non diffusione. È difficile prendere visione delle fonti impiegate per la redazione del piano, utili quanto meno a informare la popolazione sui rischi reali cui è quotidianamente esposta.

6 Cfr. Franco, Centineo (1989); Mededdu et alii (2001).

7 Cfr. Menoni (1999).

8 I prodotti della agricoltura no-food possono essere usati per:

- produzione di biomasse con specie arborie a rapido accrescimento (pioppo, salice, aucalipto) o con specie erbacee (arundo, miscanthus);

- produzione di biodiesel e biolubrificanti con semi di colza, soia, girasole;

- produzione di biopolimeri e materiali riutilizzabili con l’amido derivato dalla patata, il mais, il frumento;

- produzione di fibra naturale con colture di cotone, lino, canapa.

9 Cfr. Mededdu A., Contrino L., Tisano F., Sciacca S., (2001).

 

 

I paragrafi “Qualche considerazione preliminare … dal paesaggio ai paesaggi” e “Qualche breve cenno storico … per recuperare la memoria del luogo” sono da attribuire all’ing. F. Gravagno; i paragrafi “Verso la costruzione di una nuova immagine di futuro con la comunità di Priolo” e “La nostra idea di parco per Priolo” sono invece da attribuire all’ing. S. Messina.

 

 

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