Numero 10/11 - 2005

 

Il territorio rifiutato  

 

Area Vasta n. 10/11 Luglio 2004 - Giugno 2005 Anno 6

numero 10/11  anno  2005

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In copertina Lello Lopez,

Da lontano, 2004

acrilico su tela, cm 40x30.

Fotografia di Vince Gargiulo

 

ISSN 1825-7526

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tra scorie di Stato e mercato. Il territorio rifiutato della civitas


Giovanni Campo


 

La gestione di conflitti e ribellioni sociali sono sempre più affidate alle taumaturgiche cure del mercato e delle sue logiche. Ma quest'ultimo appare drogato da consumi che non rispondono a capacità produttive di un sistema economico che arranca. Giovanni Campo affronta i temi dell'urbanizzazione diffusa non disgiuntamente dalla pervasività dei fenomeni mafiosi, alimentati da abusivismi edilizi e frequenti e puntuali sanatorie. Ma piani, progetti, competenze e finanziamenti continuano a divaricarsi sotto la pressione dei filtri politici ed amministrativi, rassegnando cicli di sviluppo ambientalmente e civilmente insostenibili

 

 

Da una lezione tenuta nel 1989 da Paolo Borsellino presso una scuola superiore di Bassano del Grappa, si riscopre che le origini della cosiddetta questione meridionale assumono il carattere di ribellione generalizzata del sud rispetto alla serie di ingiustizie sociali indotte, dopo l’unificazione nazionale, da leggi imposte da un ente altro e lontano. Leggi perciò non consentite, promanate da uno Stato considerato usurpatore delle principali fonti economiche, e perciò rifiutato.

Origini dunque persino nobili, delle proto-mafie, nate per azioni di resistenza civile, viste e combattute da carabinieri piemontesi come atti d’efferato terrorismo (banditismo).

Non è certo altrettanto nobile il risvolto odierno delle culture mafiose, considerati gli sviluppi inevitabili di organizzazioni clandestine armate, dalle cui violenze per la conquista dei mercati deriverebbero, a detta del procuratore Vigna, profitti per 100 miliardi di euro l’anno: le mafie costituiscono cioè un vero e proprio Stato concorrente che potrebbe assicurare un reddito medio ad un esercito costituito da 7 milioni di propri impiegati.

Può leggersi in questa chiave di ribellione anche la più recente (ma non insolita o isolata) rivolta di popolazioni dei quartieri a rischio del napoletano nei confronti dei rappresentanti di un ente che, sempre più altro e lontano, da tempo rinunzia a regolare i fenomeni economici, legittima anzi i falsi in bilancio, delegittima il risparmio, e delega la gestione di complesse questioni sociali alle miracolose cure di mercato, alla base delle quali sta un’economia drogata che gira sui consumi di ciò che il paese non produce più da tempo ... Si disvela così, nell’Italia dei misteri, anche il fenomeno dell’abusivismo edilizio, che esprime, in una sorta di dichiarazione dei redditi a cielo aperto, gli incredibili risparmi di troppi cittadini del sud: se il paese non produce da tempo, e il sud meno che meno, a quali fonti attribuire il risparmio che qui viene ostentato sui paesaggi di città costiere e colline, più che nei conti correnti bancari?1

Una mafia così ricca e infiltrata, spiegava ancora Paolo Borsellino, non può certo essere sconfitta se combattuta solo da taluni rappresentati delle forze dell’ordine e della magistratura. Tale condizione genera anzi pericolosa sovraesposizione di chi è impegnato a fornire improbabili soluzioni giudiziarie e di polizia a questioni prevalentemente socio-politiche, peraltro con scarsi mezzi.

Basta scorrere la lista degli omicidi eccellenti, sia pure ricca e articolata, per cogliere la solitudine di quelli che hanno cercato davvero di contrastare gli affari illeciti di mafia. Tutto il paese (non il solo meridione), ai funerali di Chinnici, Cassarà, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e don Puglisi, ha visto così lo Stato altro e lontano dai bisogni di giustizia sociale e sicurezza. Tutto il paese ne ha sospettato anzi la contiguità con mercati ed economie inconfessabili, traendone motivi di dissenso e, almeno per qualche tempo, di ribellione e rifiuto.

Si è appalesato a tutti anche quello che avevano visto e denunciato gli urbanisti, che i piani costituissero piuttosto puntuali catastali rappresentativi degli interessi fondiari dei poteri forti a tutti i livelli. E che condoni e sanatorie, che estendono apparentemente anche ai più deboli la garanzia di vantaggi urbanistici, in realtà servissero a escludere le complici responsabilità amministrative e politiche di chi avrebbe dovuto tutelare il paesaggio a ogni livello: dal capo dello Stato all’ultimo nato dei cittadini.

Così l’urbanizzazione diffusa, nuova pietosa definizione anche di un risparmio di provenienza non sempre fiscalmente confessabile, continua a consumare il paesaggio: suolo, aria, acqua, energia, ma anche storia naturale e storie dell’uomo. Del resto, da logiche di stato-mercato, da competizioni al ribasso dei valori, e dai consumi di cose prodotte altrove, come dai consumi di storie e paesaggi nostri, derivano sia i modelli aberranti di comportamento visti a Scampìa, sia i bisogni artificiali enfatizzati che accrescono povertà, scorie e rifiuti ... Come ultimo anello della catena, infatti, il consumo di beni locali (suolo, aria, acqua) e servizi (energia) rappresenta l’attività che mantiene in loco solo gli scarti di ciò che produzione, scambio e trasporto hanno trasformato in tutto il mondo. E la città è la sede privilegiata del consumo e dello smaltimento dei rifiuti.

Ma la gestione di quest’ultimo aspetto non è certo un settore economico confacente alle prerogative imprenditoriali degli appartenenti alle classi alte della società2, alla stessa stregua di altri settori che, comunque imprescindibili per la vitalità urbana (macellazione delle carni, tumulazione dei defunti, movimento terre, betonaggio, pulizia e manutenzione stradale, mercati generali, posteggi, ecc.), prospettano fatiche in ogni caso poco prestigiose.

Verrebbe da concludere che la città, oggetto di cui da sempre ci occupiamo disciplinarmente da punti di vista troppo spesso settoriali, sia dunque il luogo privilegiato del nascere e prosperare di pratiche comunque mafiose, a prescindere dal sito geografico (sud o nord) nella quale essa si collochi. Peraltro, quando il potere economico costruito su estorsioni e traffici illeciti di armi e droga, ha bisogno di riciclare le sue liquidità, ci aggiorna il procuratore Vigna, scatta il meccanismo mimetico della conquista del monopolio degli appalti pubblici, delle catene di supermercati e ipermercati, come delle banche, dove il denaro non ha mai avuto odore (a maggior ragione su transazioni informatiche nazionali e internazionali).

Città e territori sono dunque generalmente disegnati da mercati buoni e mercati cattivi del tutto simili: entrambi posseggono strumenti mediatici più o meno sbrigativi di persuasione e nemmeno tanto occulta. A quali di essi fa riferimento dunque l’azione regolatrice della politica e dello Stato? A quali di essi deve fare riferimento il cittadino travolto dai rifiuti che producono i super mercati e le imprese degli uni e degli altri? Come distinguere il mercato buono da quello mafioso, se la scena distingue solo tra attori principali (tutti buoni e belli) e attori secondari (tutti cattivi e brutti), e se la città, fisicamente fatta di ville per i buoni e di quartieri popolari o bidon villes per i cattivi (locali ed extracomunitari), costituisce già metafora della nostra civitas e della nostra democrazia?

Come capire dunque chi è amico o nemico, in un paese la cui civitas e i cui architetti hanno fatto per ogni dove gli Scampìa, gli Zen e i Librino3?

Certo prevale una confusione culturale generalizzata che, spiegabile nei quartieri poveri, coinvolge tuttavia anche gli strati della cosiddetta società civile, la stessa che piange sulle piazze Chinnici, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e Don Puglisi.

In simile contesto, quale consapevolezza democratica può generare i civili conflitti d’interesse diffuso alla tutela costituzionale del paesaggio, della salute, della sicurezza? Quale discriminante consente di vagliare, fra le tante proposte, le trasformazioni territoriali da accettare per i vantaggi collettivi che ne derivano, o da rifiutare per i costi sociali insostenibili (ancorché filtrate a tavoli di concertazione democratica)?

Il paesaggio proposto dalla cartolina col ponte sullo Stretto di Messina, ad esempio, è territorio da accettare o da rifiutare? Ci rassicurano le promesse azioni di contrasto preventivo all’infiltrazione mafiosa, se all’inaugurazione degli anni giudiziari ricorre la fatidica frase dei procuratori della repubblica secondo cui non c’è opera pubblica che sia mai stata preclusa alla mafia? Ci rassicura la scoperta di interessi mafiosi internazionali, o si tratta solo di eliminazione di concorrenti indesiderati alle aste? O ci rassicura il battage mediatico sul ponte come sogno antico e sviluppo futuro? Possiamo davvero credere ancora che se Calabria e Sicilia non hanno potuto godere dei privilegi di altre regioni italiane ed europee, è stato solo perché mancava il ponte?

Come la trasformazione proposta dal ponte, di un paesaggio costituzionalmente tutelato, tante altre costituiscono quotidiane tentazioni propinate a cittadini raramente in condizione di discernere fra i benefici e i costi irreversibili ai danni di suoli, aria e acque.

È immediata l’eventuale reazione a ipotesi localizzative di impianti per lo smaltimento dei rifiuti: nessuno vuole la spazzatura davanti alla propria porta, salvo al fatto che nessuno trovi comunque da obiettare quanto alla città diffusa, e di conseguenza ai suoi spazi progressivamente preclusi a possibili installazioni di impianti di qualunque genere. Salvo ancora al fatto che nessuno trovi da obiettare rispetto ai consumi che fanno girare l’economia e al mantenimento di livelli del prodotto interno lordo che presuppongono la distruzione delle risorse, a partire da quelle che assicurano il diritto alla salute, alla sicurezza e alle identità paesaggistiche. Del resto sono esaltate sempre le promesse di sviluppo e di posti di lavoro e tacciati di disfattismo contrario al progresso (quindi all’occupazione) tutti quelli che sottolineino le trascurate o false valutazioni di inquinamenti, distruzioni e danni sociali.

Ma ammesso che per ciascuna delle proposte trasformazioni territoriali risultassero chiari gli interessi dello Stato e quelli delle mafie, in ogni caso non è dato capire chi agisca in nome degli interessi diffusi alla tutela dei cittadini.

Sono lo Stato o le regioni che s’intestano molte trasformazioni territoriali, ne finanziano i progetti e le realizzazioni, ne esaltano i caratteri dello sviluppo, ma troppo spesso ne hanno nascosto i risvolti negativi in termini di costi sociali: così è successo in Sicilia, sulle cui tre coste sono sorti impianti di raffinazione petrolchimica che avrebbero dovuto portare sviluppo e occupazione, piuttosto che malformazioni neonatali, rifiuti tossici interrati, acquiferi e mari inquinati, aria irrespirabile e percentuali di tumori e leucemie fuori norma. Dunque se Stato e regioni impongono un simile prezzo in cambio di posti di lavoro; se istituzioni sanitarie, sindacati ed enti locali sono costretti da almeno trenta anni a nascondere la verità sui danni ambientali per evitare la chiusura degli impianti; a che è servito che Giorgio Ruffolo, Valdo Spini ed Edo Ronchi, ministri competenti dei governi che si sono succeduti nel tempo, abbiano solo dichiarato la prognosi (zone ad alto rischio) senza tuttavia esprimere alcuna terapia?

È solo di questi giorni l’esposto-denuncia di un comitato dei cittadini dei comuni dell’area Augusta-Priolo-Melilli alle procure di Siracusa e Catania che rileva il monitoraggio dell’Organizzazione mondiale della sanità in ordine alla riconosciuta crescita di malformazioni e tumori, per chiedere provvedimenti consequenziali. Ma a Gela, lo stesso ministro che si preoccupa dei danni prodotti dal fumo di una sigaretta (considerando forse che lo sterminio dei pellerossa sia avvenuto per danni prodotti dal desiderio di pace di quelle popolazioni, espresso attraverso un calumet), ha dichiarato per decreto la respirabilità dell’aria, elevando la soglia accettabile degli inquinanti. Analogamente, a Priolo, dove l’acqua dei pozzi è piena di idrocarburi, il governo ha provvidenzialmente alzato la soglia degli inquinanti potabili!

Ma, come detto, si tratta di cose ben note da tempo a Usl, Asl, famiglie di vittime e ambientalisti. Si tratta di cose denunciate già da tanti anni e tuttavia soffocate dai ricatti occupazionali a tutti i livelli. E forse (a sospettare si fa peccato, ma s’indovina sempre) vengono fuori solo ora che l’Eni ha comunque deciso di dismettere le sue attività: siamo pronti a scommettere che già l’altro stato è pronto ad avanzare le sue antiche competenze in fatto di recupero di siti contaminati … che il solito megafono mediatico esalterà trionfalisticamente: “Sorgerà, al posto dei velenosi impianti, il più grande iper store dell’isola”, foriero di posti di lavoro non inquinanti e di immancabile sviluppo, dove trovare tutto quello che serve e non serve, nona meraviglia del mondo (dopo il ponte), destinato così non solo ai consumatori siciliani, ma anche ai calabresi … e persino a tutta l’area mediterranea … nella prospettiva della zona franca4. Come rifiutare l’ennesimo territorio di sviluppo, a prescindere dalle referenze che il procuratore Vigna fa dei proponenti, e dai ragionamenti attorno al consumo globale di risorse e agli scarti più o meno degradabili gestiti da ecomafie in sede locale?

Se simili considerazioni risultassero esatte anche solo al 50%, se persino riguardassero la sola parte del paese affezionata all’idea di costituire ancora la questione meridionale, già dovremmo chiederci, in sede disciplinare, a quali coordinate decidere di riferire sia l’aspetto professionale che quello della trasmissione del sapere.

Non sono molte infatti le alternative concrete sotto la pressione esaltante della competizione globale anche dei mercati scientifici, né paiono conducenti i risultati delle tradizionali vie di fuga verso mai concluse analisi ex post di stati di fatto; come di quelle drizzate verso accademiche provocazioni di utopia urba-tettonica da una parte, o verso i caratteri filosofico-sociologici delle storie di città e territori dall’altra. In ogni caso, almeno per senso autocritico, dovrebbero valere gli esiti negativi della presunzione di incidere sulle strutture sociali con strumenti disciplinari in ogni caso inadeguati a distinguere le qualità civili (o incivili) delle trasformazioni proposte da Stato e mercato.

A occuparci di urbanistica siamo stati in genere architetti e ingegneri, con metodi e criteri propri comunque della progettazione architettonica5 (e quindi con riferimenti formali, modelli e semplificazioni staticizzanti una realtà che per sua natura è estremamente dinamica, come il mercato che ne condiziona le trasformazioni), fidando che specifiche soluzioni di singoli problemi potessero avere effetti risolutivi della complessità6.

È stata data per scontata l’idea di un mercato regolatore assoluto (e presunto puro) di equilibri tra una domanda (effetto di bisogni) ed un’offerta (effetto di ricchezza). Ma nel ricavo privato ci sono, sempre e comunque, plusvalori ascrivibili al ruolo esercitato dall’ente pubblico mediante la fornitura di servizi e infrastrutture7.

E proprio le tecniche disciplinari di civile fornitura di servizi indispensabili alla vitalità urbana (i famigerati standards urbanistici) appalesano il sistema di plusvalori esitati al mercato attraverso piani per un verso edificatori e peraltro inibitori dell’edificabilità, producendo sperequazioni tra proprietari di aree che, nella culla del diritto privato, sono divenute le principali basi di affossamento giuridico di ogni sistema regolatore di vantaggi collettivi. Così l’attività principale del piano, quella dell’accostamento qualificato di parti urbane nuove a parti antiche, è passata del tutto in second’ordine8.

Si può dire anzi che l’urbanistica italiana, figlia legittima d’uno Stato che fingeva d’essere forte ancora alla fine del suo ciclo (e promulgava la legge 1150/1942), abbia poi operato fingendosi emanazione d’uno Stato repubblicano persino più forte, perché fondato su scelte democratiche9.

Altra astrazione è stata quella che ha favorito l’idea di uno sviluppo interconnesso alla crescita urbana e di un’edilizia volano dell’economia: idea che ha trovato subito riscontri interessati nelle prassi progettuali di pubbliche 167 e private lottizzazioni, estendendo tuttavia perniciosi gradi di settorialità alla pianificazione urbanistica10.

Piani, progetti, competenze e finanziamenti risultano oggi ancora più separati e frammentari, persino nella probabilità statistica di accesso a fondi nazionali ed europei: i filtri erogativi continuano infatti ad essere quelli politici, mentre la legislazione rimane ancorata a piani urbanistici sempre e comunque dispensatori di edificabilità dove maggiori siano gli interessi di mercato economico o elettorale: su coste, templi, monumenti o centri antichi.

L’insostenibilità dello sviluppo è dunque già tutta in questi presupposti, e in un mondo globale che considera produttive solo le iniziative foriere di ritorni economici immediati (ancorché fondate su consumi di risorse irriproducibili), risulta davvero improponibile il già difficile teorema che dimostra al contrario la maggiore remuneratività di investimenti e trasformazioni locali mirati a perseguire risultati sostenibili nel medio e lungo termine, senza consumare ulteriori risorse.

Non avendo affrontato fino in fondo il problema del rapporto strutturale tra centro antico e parti nuove della città, però, non solo l’urbanistica ha fallito nei progetti di pezzi moderni di città (cui manca l’afflato vitale di molti centri storici); ma fallisce anche con il suo soffocare moderno dei centri antichi, col suo riempire qualunque vuoto urbano, col suo trasformare infinito i territori agricoli di contesto, facendo così proprio il gioco dequalificante11 di mercato.

Un primo aspetto di una civile riqualificazione riguarda al contrario il recupero dell’identità sociale dei luoghi, compromessa dai connotati della città diffusa sia sotto il profilo paesistico che ambientale. Un secondo aspetto è certo quello che, col recupero delle qualità perdute nelle periferie, implica finalmente la costruzione di un nuovo rapporto tra parti antiche e parti nuove della città.

Il terzo aspetto, che esprime i principali problemi d’intervento nel cosiddetto centro storico, assume come invarianti le qualità quivi presenti, e si connette dunque con le proposte d’interventi riqualificativi già ricordati: nelle periferie, e nel contesto periurbano che fa l’immagine della città.

È dunque evidente il complesso percorso contro corrente che il carattere sistemico della strategia riqualificativa viene ad assumere (rispetto alle settoriali prassi finanziarie e legislative ispirate ai desideri di mercati buoni e cattivi). Ma è forse il solo percorso12 che consenta il perseguimento non formale di una civile linea di sviluppo sostenibile, ancorché storicamente figlia di non rimpianti Stati forti, affatto liberali e democratici.

Può darsi però che quelli praticati non siano i concetti più corretti di democrazia e liberalità. Vale la pena di chiederselo, prima di esportare modelli che, ovunque arrivino (Giappone, Russia, Cina o Islam), producono anzi tutto mafie e distruzioni. Vale la pena di chiederselo anche in sede disciplinare, prima di accettare (o rifiutare) vantaggiosi progetti di pezzetti di fatti urbani per consumatori idioti (piuttosto che per i cittadini della Costituzione repubblicana), noi che, dopo le esperienze minimali delle 167 (oggi rifiutate), in definitiva restiamo contraddittori discendenti dei pianificatori di Sabaudia o Littoria, ma incapaci a riqualificare le parti urbane moderne, per renderle degne di quelle antiche ...

 

 

Note

 

1 Una risposta certa al quesito l’ha data lo Stato, i cui condoni riassegnano benignamente valori economici altrimenti persi (al contrario di quanto avvenuto per tutelare i risparmi su parmalat, cirio o argentina), sia pure nell’illusione di ricavarne improbabili gettiti da oblazioni: quando ci sono nuovi balzelli, all’abusivo meridionale conviene che lo Stato continui ad essere altro e lontano … Del resto, dov’era lo Stato, cui la Costituzione impone la tutela del paesaggio, quando lievitava il cosiddetto fenomeno dell’abusivismo edilizio? E con quale diritto, chi non ha visto, sentito e denunciato, pretende ora il risarcimento dei delitti commessi ai danni del paesaggio, se i delitti stessi hanno avuto complice uno Stato inadempiente? E com’è possibile che i contributi fiscali per pagare eserciti, intelligence e guardie civili a tutti i livelli, abbiano sortito gli effetti del non vedere, sentire e punire gli attentati al paesaggio, alla salute o alla sicurezza dei cittadini?

2 È qui, nei territori economici ordinariamente poco visitati anche dai tutori istituzionali della salute e della sicurezza dei cittadini, che è stata esercitata una forte influenza mafiosa. Per estensione del concetto che nei paesi socialisti vedeva lo Stato occuparsi del cittadino dalla culla fino alla sua tomba, si può considerare che nelle economie di mercato sia la mafia a controllare l’intera filiera del soggetto urbano.

3 Suscita ipocritamente clamore la ribellione dei quartieri a rischio contro i rappresentanti dello Stato, ma i risultati elettorali indicano poi un meridione da sempre allineato su posizioni di conservazione moderato-centrista (a partire dalle nostalgie monarchico-fasciste), esprimenti una maggioranza affezionata all’idea di lasciare le cose come stanno. Può anche darsi che alla base ci sia la rassegnata considerazione del principe Salinas, e che la paura del nuovo faccia persino prediligere i difetti del vecchio. Ma certo in questo la mafia ci guazza.

4 Così, in nome del solito sviluppo di morte, la Sicilia solerte si è già candidata a ospitare le centrali nucleari auspicate dal premier, rinunziando al fotovoltaico che in Germania (dove non c’è il nostro sole africano) assicura già il 30% del fabbisogno energetico.

5 Ogni ostacolo all’attuazione di modelli urbani a valenza di prodotto formale concluso, è stato di volta in volta affrontato ponendo attenzione e forze su specifiche contromisure: al mancato raccordo tra programmazione economica e pianificazione territoriale; alla mancata attuazione degli strumenti urbanistici per gli interessi della speculazione edilizia e fondiaria e per la mancata disponibilità economica dei comuni; all’impossibile costo sociale di eventuali espropri generalizzati delle aree per le urbanizzazioni primarie e secondarie; alle conclusioni giurisprudenziali dettate da linguaggi incomprensibili per l’architetto o l’ingegnere; fino a desumerne, gli stessi urbanisti, l’assioma dell’impraticabilità della disciplina e a trovarne rassegnate compensazioni nella più controllabile progettazione architettonica, ovvero in pianificazioni di settore (di urbanistica commerciale, dei parcheggi, del traffico, della mobilità dei mezzi pubblici, del verde, del colore, del recupero del degrado edilizio, della lotta all’inquinamento atmosferico e acustico, di protezione civile, e chi più ne ha più ne metta!) ...

6 Le scienze territoriali e urbanistiche, nonostante i progressi e i contributi della tecnologia, generalmente, sembrano far operare l’urbanista ancora nelle condizioni dell’antico cerusico che giustificava diagnosi e terapie sulle conoscenze del corpo umano avute dall’esame dei cadaveri esposti nelle aule d’anatomia. I modelli statici, infatti, non eliminano del tutto le difficoltà connesse alla comprensione del funzionamento dinamico – e complesso – della macchina urbana o territoriale. Ma come in tutte le scienze sociali, il medico è anch’esso malato del medesimo morbo sociale: le sue ricette (se ne abbia) sono quanto meno da assumere in modo problematico. E dire che, per rimanere all’anatomia medica, in analogia a ciascuna cellula del corpo umano, città e territori si presentano come cellule che, per vivere, abbisognano costantemente di flussi di approvvigionamento, scambio, elaborazione e smaltimento di materia, energia e informazioni. Flussi che, regolati da meccanismi di naturale domanda per il soddisfacimento di bisogni, possono tuttavia trovare interruzioni nella erogazione dell’offerta a opera di chi detenga risorse materiali, energetiche e informative.

7 Se infatti si considerano città (e territorio) come insiemi interrelati di attrezzature (edificate e non, residenziali e non) generalmente realizzate da privati su suoli privati per lo svolgimento di attività proprie o di servizio, e di infrastrutture (viarie e tecnologiche, lineari, areali o puntuali), realizzati generalmente dalla collettività; allora è possibile concludere che nessuna attività privata sarebbe possibile, laddove la collettività non fosse intervenuta e intervenisse a mettere in relazione le attività economiche di produzione, scambio e consumo di elementi materiali, energetici o informativi proposte dai privati.

8 La riqualificazione urbana del periodo fascista, dopo la pausa della prima guerra mondiale, è fatta di opere ispirate alla romanità, celebrative del regime a costo di ricorrere al piccone demolitore, e ad un tempo utili all’occupazione di quantità ancora limitate di inurbati. Buona parte della popolazione è comunque invitata a restare nelle campagne, dove l’occupazione agricola è incentivata da bonifiche di zone paludose e da un particolare sistema insediativo che vede insiemi di case coloniche (raggruppati attorno a villaggi rurali per i servizi primari: scolastici, religiosi, di pubblica sicurezza) far capo, per altri livelli di servizi, a piccole e medie città di fondazione, e tutti assieme convergere verso i capoluogo di provincia per ulteriori scambi commerciali o culturali. Non è dunque un caso che la legge urbanistica, varata nel 1942 per disciplinare “l’assetto e l’incremento edilizio dei centri abitati e lo sviluppo urbanistico in genere nel territorio”, miri specificamente a “frenare la tendenza all’urbanesimo” e anzi a “favorire il disurbanamento”, assicurando “il rispetto dei caratteri tradizionali”, nel rinnovamento e ampliamento edilizio delle città.

9 In realtà nessun prefetto o sindaco, dopo le ricostruzioni del dopoguerra, è mai riuscito a sciogliere il nodo tra potere di piano e proprietà (tra forza di Stato e forza di mercato, buono o cattivo che fosse), e a imporre espropriazioni di legge nemmeno ai suoli adibiti a usi non conformi ai piani. Anche dopo l’autunno caldo del 1969, il mondo del lavoro su cui fonda la Repubblica, ha immaginato il suo Stato forte, distributore equo della risorsa territorio, sotto forma di standards urbanistici, case e servizi sociali. Ma nemmeno il compromesso storico tra i partiti politici più rappresentativi produrrà la forza di Stato necessaria ad applicare compiutamente il nuovo regime dei suoli introdotto nel 1977 dalla legge Bucalossi.

10 Si è persa così la traccia metodologica di concertazione multidisciplinare sperimentata a livello urbano nell’Ivrea di Adriano Olivetti, e percorsa a livello territoriale dalle analisi di Giovanni Astengo: competenze e interessi attenti prima al sistema di relazioni che presiede al complessivo sviluppo socio-economico, e poi all’effetto spaziale.

E si è persa anche l’occasione, sotto le spinte di interessi fondiari (e della macchina), per impostare il rinnovo urbano su più calibrati rapporti qualitativi delle parti nuove con quelle antiche, e della città tutta col suo contesto agricolo: in Sicilia l’obbligo di sostituire i programmi di fabbricazione con piani regolatori di tutto il territorio comunale (Lr 71/1978) avrebbe certo recuperato alla pianificazione i caratteri complessivi dello sviluppo economico, se al contrario non si fossero estesi alle zone agricole (ampiamente mortificate nel titolo di produzione) solo effetti edificatori di zone residenziali, turistiche, commerciali e persino industriali … La diffusa deregulation delle varianti più o meno automatiche agli strumenti urbanistici, introdotte da leggi e leggine, ha avuto poi l’effetto di minare del tutto il campo, aprendo spazi a piani settoriali (del traffico, dei parcheggi, del verde, del colore, ecc.) apparentemente più fattibili, ma in realtà privi di logiche complessive e sistemiche. Anche su queste basi la giurisprudenza ha affinato il convincimento della indifferenziata potenzialità edificatoria dei suoli, dando così supporto sostanziale ai garbugli formal-burocratici, e fornendo alibi all’edificazione abusiva.

11 La città antica, infatti, non abbisognava di un progetto complicato della sua struttura. Per quanto grande essa si presentasse, per millenni i rapporti quanti-qualitativi tra attrezzature edificate (o aree attrezzate) per la produzione, il consumo e lo scambio di beni, e infrastrutture per il collegamento e il trasporto di tali beni da produrre, consumare o scambiare, trovavano sempre proprie naturali dimensioni (intanto nella necessità di riservare quantità di aree agricole commisurate alla domanda di consumo delle popolazioni insediate in ciascun sito; e poi nelle difficoltà di raggiungimento – in tempi congruamente vantaggiosi – delle sedi di produzione, consumo o scambio).

12 Al contrario, la riqualificazione rischia di essere solo quella sin qui attuata, certo più facile da realizzare, per nascondere (dietro una assolata piazzetta per anziani, o un muretto per i giovani, dove spesso si coltivano complici utopie di solidarietà e stato sociale ben lontane dalla competizione attizzata a qualunque livello e costo dai realismi di mercato), le ulteriori insostenibili trasformazioni territoriali care al mondo dell’effimero distruttivo, pervasive di progetti di finto sviluppo (alberghi, campi da golf, giochi acquatici, autodromi, centri commerciali, ecc.), legittimati all’interno di patti territoriali, contratti d’area, programmi di riqualificazione e di presunto sviluppo, che in realtà annegano nel cemento ricavi di dubbia provenienza, e consumano risorse collettive (aria, acqua, suolo, paesaggio, beni culturali) e con esse la salute dei cittadini.

 

 

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