Numero 6/7 - 2003

 

l'impatto ambientale 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La laguna di Venezia e gli interventi proposti


Eduardo Salzano


 

Attraverso cenni storici sull’importanza economica della Laguna per la Serenissima Repubblica di Venezia, Eduardo Salzano delinea gli interventi che, nel corso del tempo, sono stati posti in essere al fine di annullare o, quanto meno, mitigare gli effetti delle alte maree e delle piene dei fiumi. In particolare, l’autore descrive, in termini di funzionamento, costi e impatto ambientale, il progetto Mose, aspramente criticato da coloro che considerano la laguna veneziana come un delicato ecosistema complesso, e propone possibili alternative

 

 

 

Un ecosistema unico al mondo - e poi spiegherò perché - il cui territorio appartiene oggi a 9 comuni1, ma le cui vicende sono strettamente dipendenti dall’evoluzione di un bacino che a sua volta ne comprende 110, appartenenti a quattro province2. Se c’è un’area vasta che ha bisogno di un governo unitario è questa, la Laguna di Venezia. E, infatti, un governo unitario quest’area l’ha avuto per 1000 anni. Dalla fine del XVIII secolo non ce l’ha più, nonostante tentativi compiuti negli ultimi decenni.

 

 

Un accidente della natura

 

È al suo governo unitario, garantito per dieci secoli dalla Serenissima Repubblica di Venezia, che la laguna deve la sua sopravvivenza. È l’unica laguna al mondo rimasta tale per tanti secoli. La laguna è, infatti, per definizione, un sistema in equilibrio instabile: un accidente della natura.

È formata dall’equilibrio tra due forze concorrenti. Le acque dei fiumi portano verso il mare gli apporti solidi che strappano alla terra, li accumulano alla loro foce, lì si depositano assumendo - per l’effetto delle correnti marine - la forma di lunghe barre semisommerse che, poco a poco solidificandosi, generano i più stabili lidi. Tra i lidi e i margini della terraferma si forma così uno specchio d’acqua irrorato dalle acque dolci dei fiumi e da quelle salate del mare, che penetrano dalle bocche rimaste aperte tra i lidi. Acque ormai né dolci né salate, ma dotate d’una differente natura rispetto alle une e alle altre: acque salmastre.

Lo specchio d’acque salmastre è un ambiente diverso da ogni altro. Il suo fondale non è regolare come quelli imbutiformi dei laghi o digradanti delle baie e dei golfi o ripidi delle coste a falesia: è formato dagli innumerevoli letti dei meati fluviali che nei secoli lo hanno percorso, scavando dove più dove meno, depositando detriti in misura più o meno vistosa. E dove il gioco meandriforme del sistema dei canali sommersi ha lasciato sponde più alte, lì - per qualche ora al giorno o qualche settimana all’anno - il terreno rimane emergente dalle acque e ospita variabili vegetazioni e specie animali.

(Nella laguna formata dalle foci del Brenta, del Sile, del Musone, del Piave e di altri numerosi corsi d’acqua a settentrione della foce del Po e dell’Adige, su qualcuno degli isolotti semisommersi le prime famiglie di pescatori, e poi i popoli fuggitivi dall’entroterra sospinti dalle ondate dei barbari, hanno consolidato il terreno, costruendovi dapprima le loro abitazioni e i loro villaggi, poi la loro città, Venezia, dotandosi nel tempo d’una rigida pianificazione regolativa, unica garanzia della saggia amministrazione d’un suolo scarso e costoso).

Tutto ciò, fino a quando le due forze contrapposte, quella dei fiumi e quella del mare, restano in equilibrio, come una pallina al culmine di una superficie convessa.

 

 

Due destini naturali

 

Ecco allora i due diversi e opposti destini cui ogni laguna è, per natura, condannata.

Se vince la forza dei fiumi terragni, se prevale l’accumulo dei depositi solidi che essi portano con sé (le ghiaie, la sabbia, il limo, i residui vegetali delle foreste travolte dalle alluvioni), ecco allora che la laguna (ogni laguna), da instabile e multiforme specchio d’acqua salmastra si trasforma in uno stagno, poi in una palude, e finalmente, magari bonificata dalle umane opere, in un campo.

Se vince la forza delle onde marine, l’erosione asporta gli apporti solidi consolidati nel tempo, trascina via ciò che contende spazio all’acqua salata e oppone la sua salmastra immobilità alla forza delle correnti: la laguna (ogni laguna) si trasforma in un braccio di mare, baia o golfo che sia.

Contro questi due destini la Serenissima Repubblica di Venezia ha combattuto per 1000 anni. Vittoriosamente, solo perché ha impegnato verso questo obiettivo tutte le intelligenze disponibili, tutte le tecnologie adeguate, tutte le risorse mobilitabili, tutta l’autorità disponibile (e non era poca), tutte le capacità di amministrazione saggiamente costruite3.

 

 

Il nido del potere

 

Conservare la laguna era vitale per la Serenissima. La laguna era il rifugio che garantiva sicurezza dai possibili attacchi da terra e dal mare; era il luogo dove lo strumento essenziale dell’egemonia statale sul suo vasto impero commerciale, la flotta, poteva essere costruita, armata, trovare riparazione e rifugio; era il luogo al quale affluivano, grazie al controllo dei fiumi e della loro navigabilità, le materie prime (soprattutto il legname) necessarie per consolidare il suolo, per fondare le costruzioni ed erigerle (finché terribili incendi suggerirono di sostituire almeno in parte l’infiammabile legno con le leggere argille cotte); era la vasta fabbrica dei prodotti essenziali per l’alimentazione e la conservazione degli alimenti: le molte specie di pesci e molluschi, parsimoniosamente regolamentate nel loro prelievo4, i volatili attirati dal particolare habitat, il sale dei vasti depositi costieri, le verdure delle isole maggiori e dei lidi.

Tutto questo era la laguna per la Serenissima: il nido all’interno del quale la sua forza si manteneva, si sviluppava, diventava capace di gareggiare e di vincere, di difendersi e di ritemprarsi. Per renderlo possibile la laguna doveva venir conservata, doveva rimanere tale pur trasformandosi al mutare delle condizioni e delle necessità. L’accidente della natura doveva diventare un sistema permanente.

 

 

Un sistema permanente

 

Un sistema permanente: in queste due parole sta tutta la scommessa di Venezia e della sua laguna. Un sistema: un organismo costituito da un complesso di elementi, ciascuno dei quali essenziale e vitale, e ciascuno legato agli altri da precise relazioni, non modificabili ad libitum senza condurre il sistema al collasso. Permanente, cioè capace di rimanere nel tempo tale, governato dalle medesime leggi mutevoli della natura, benché soggetto agli ulteriori elementi di cambiamento che gli eventi al contorno e l’azione dell’uomo producevano.

Realizzare questo miracolo, lasciare che le contrastanti forze dei fiumi e del mare, della terra e dell’acqua, collaborassero senza che l’una prevalesse sull’altra, e al tempo stesso introdurre le trasformazioni necessarie a vivere la laguna (approfondire un canale o aprirne uno nuovo, consolidare un isolotto o aprire varchi in un altro) significava sottoporre la laguna a un governo minuzioso, fondato sulla quotidianità dell’intervento, sulla continuità della vigilanza, sulla più accorta gradualità, sperimentalità e reversibilità delle innovazioni (un nuovo canale, un nuovo argine, un nuovo consolidamento, una nuova immissione) e sul monitoraggio dei loro effetti.

Soprattutto, significava adoperare le leggi della natura con un’accortezza ancora maggiore di quelle che la natura stessa avrebbe impiegato, poiché si trattava di rendere permanente un sistema che essa avrebbe cancellato, in un modo o nell’altro.

Tutte le armi del buongoverno veneziano vennero impiegate in questa logica e a questo scopo. Come ha scritto Piero Bevilacqua, la storia di Venezia è “la storia di un successo (…) nel governo dell’ambiente che ha le sua fondamenta in un agire statale severo e lungimirante, nello sforzo quotidiano e secolare di assoggettamento degli interessi privati e individuali al bene pubblico delle acque e della città”5.

 

 

Cade il governo della laguna e cambia il mondo

 

La caduta della Repubblica di Venezia, l’anno 1797, fu senza dubbio la causa più appariscente del cambiamento: della fine di un governo unitario della laguna finalizzato a quel sistema di obiettivi e regolato da quel sistema di strumenti. Eventi più vasti erano accaduti, e non potevano non riverberarsi in quello specchio d’acqua, in quell’angolo del Mare Adriatico.

Il mondo era cambiato. Eventi accaduti a Londra e a Parigi avevano trasformato le condizioni di base della sua evoluzione. L’avvento e il trionfo del sistema economico-sociale basato sul modo capitalistico della produzione e sull’affermarsi della borghesia aveva introdotto, e tendenzialmente generalizzato, modi del tutto nuovi di governare i rapporti tra gli uomini e quelli degli uomini con la natura e il mondo circostante.

La produzione industriale si era rivelata in grado di moltiplicare all’infinito le quantità di merci disponibili, emancipando l’uomo dal vincolo dei ritmi parsimoniosi della natura. Ogni frutto prodotto dall’uomo o dalla natura, da bene, oggetto dotato d’una sua individualità e di un suo valore d’uso era stato trasformato in merce: mero deposito di valore di scambio, oggetto fungibile con qualsiasi altro. L’individualismo, molla potente del progresso quantitativo, aveva via via cancellato le regole della comunità, soprattutto là dove queste minacciavano il diritto all’appropriazione privata dei beni disponibili. Le grandi possibilità offerte dalle nuove tecnologie basate sull’impiego dell’acciaio e del cemento, sulla sostituzione delle macchine semoventi alla fatica dell’uomo e dell’animale, avevano rivoluzionato il modo di realizzare strade, canali, argini e dighe, ponti e nuove infrastrutture.

L’ambiente naturale, fino ad allora rispettato e temuto compartecipe dell’uomo nel suo progetto di trasformazione e utilizzazione del mondo, era diventato semplice materia prima per una continua ri-creazione delle condizioni date. E lo Stato (che a Venezia era stato il grande garante di un equilibrato rapporto tra l’uomo e l’ambiente) era diventato in ogni paese d’Europa strumento per l’affermazione d’ogni borghesia capitalistica, nella concorrenza feroce con quella d’ogni altra nazione: per l’impossessamento di ambienti diversi, di nature diverse da sfruttare, trasformare, alienare.

La stessa cognizione del tempo era mutata. Non più misurato sulla durata lunga degli eventi, sui ritmi delle ricorrenze naturali, sulla gittata pluriennale delle trasformazioni più consistenti (la messa a dimora di un bosco, il consolidamento di un lido, il rimodellamento d’un sistema fluviale), l’unità di conto del tempo si avvicinava sempre di più alla frantumazione della giornata: all’ora, al minuto, al secondo. La prospettiva non era più il succedersi delle generazioni: era una stagione della vita dell’uomo cui altre, più ricche, dovevano seguire.

 

 

La laguna si trasforma

 

Basta osservare una mappa della Laguna di Venezia per rendersi conto degli effetti dei grandi mutamenti intervenuti nelle coscienze e nella realtà mondiale, dalla caduta della Repubblica ai tempi nostri.

Dissolti l’ombrello protettivo delle regole che tutelavano i regimi proprietari, e la stessa consapevolezza della laguna come bene comune, parti estese del territorio lagunare sono state privatizzate e usate in vista di tornaconti immediati. Alcune bonificate e ridotte a campagne, altre trasformate in bacini chiusi da argini (le valli da pesca) in cui praticare lucrose attività itticole, altre ancora, più tardi, imbonite e convertite in zone industriali: porzioni consistenti del bacino sono state sottratte ai ritmi delle acque e al gioco delle alluvioni e delle maree. Ridotto così (di circa un terzo in mezzo secolo) l’ambito dove potevano estendersi le maggiori alte maree e le piene dei fiumi sversanti in laguna, sono aumentate le frequenze e le intensità delle inondazioni dei centri abitati.

Analogo effetto ha avuto l’approfondirsi dei maggiori canali d’accesso (disegnati ormai come rettilinei stradali, e non più assecondando il disegno naturale delle acque), e delle stesse bocche di porto, sia per i dragaggi effettuati onde consentire l’ingresso alle zone industriali di navi di grande pescaggio, sia semplicemente per l’abbandono delle pratiche di monitoraggio e manutenzione continua che la Serenissima aveva sistematicamente condotto. Masse imponenti d’acqua si sono riversate dal mare alla laguna ogni volta che la fase lunare, il vento e la depressione atmosferica aumentavano il dislivello tra l’acqua esterna e quelle interne6.

Gli effetti dell’accresciuta immissione di acque marine e della ridotta superficie del bacino d’espansione sono stati aggravati da due ulteriori eventi. Da un lato, il venir meno dell’attività di manutenzione continua della rete canalicola nelle zone più lontane dalle bocche di porto ha reso le parti marginali della laguna più difficilmente raggiungibili dall’onda di marea e, quindi, ha ridotto ancora il bacino d’espansione efficace. Dall’altro lato, le esigenze della produzione industriale hanno provocato, nella terraferma, l’attivazione di numerosi pozzi di prelievo dell’acqua di falda, causando l’abbassamento del livello di quest’ultima e, con essa, di quel soprastante strato solido di argilla compattata da millenni (il caranto) che sorregge i limi e le sabbie su cui sorgono Venezia e gli altri centri lagunari.

 

 

Il collasso e i suoi frutti

 

Il 4 novembre 1966 l’effetto congiunto della tracimazione dei fiumi e di un’eccezionale alta marea marina fece aumentare il livello delle acque ad un’altezza inusitata, per molte ore. Si sfiorarono i 200 cm sul livello medio marino, mentre l’altezza media su tale livello del piano stradale e dei piani terra delle abitazioni e dei negozi si aggirava tra i 100 e i 150 cm. Si gridò alla catastrofe. L’opinione pubblica mondiale si commosse temendo che Venezia scomparisse tra i flutti: se non oggi, in un domani non lontano.

Si dibattè, si studiò, si comprese, si tentò di fare. Il lungo lavoro pre-legislativo che si svolse tra Roma e la laguna con il puntuale controcanto dei maggiori quotidiani e che si concluse con la discussione parlamentare sulla legge 171/1973, approdò a una nuova consapevolezza del problema, delle sue cause, delle sue possibili soluzioni.

Si comprese che ogni ulteriore sottrazione di area alla superficie lagunare doveva essere vietata e che bisognava studiare i modi per ripristinare l’antica estensione. Di conseguenza, si abbandonò per sempre la devastante iniziativa della realizzazione di una nuova gigantesca terza zona industriale, più grande della somma delle precedenti: le casse di colmata già realizzate dovevano essere restituite al gioco delle maree.

In termini più generali, lo Stato assunse il compito di assicurare la “regolazione dei livelli marini in laguna, finalizzata a porre gli insediamenti urbani al riparo dalle acque alte”, mediante “opere che rispettino i valori idrogeologici, ecologici ed ambientali ed in nessun caso possano rendere impossibile o compromettere il mantenimento dell’unità e continuità fisica della laguna”7.

Cominciò d’altra parte ad affacciarsi l’ipotesi di operare sulle bocche di porto con restringimenti fissi e, se necessario, mobili per regolare l’afflusso delle acque marine, ma si completò questa soluzione con un mosaico ricco di altri tasselli. Si prescrisse che nella definizione delle soluzioni tecniche si considerasse “l’influenza sul regime idrodinamico dell’apertura alla espansione delle maree delle valli da pesca nonché delle aree già imbonite dalla cosiddetta terza zona industriale”, che si operasse per “la riduzione delle resistenze alle maree della zona nord orientale della laguna”, per “la riduzione a livello normale dei fondali, ora profondamente erosi dalle correnti, nel canale di S. Nicolò nonché allo sbocco in laguna dei porti-canale di Malamocco e Chioggia”, per l’aumento “delle dissipazioni di energia del flusso di marea lungo il percorso entro i porti-canali”8.

 

 

Una visione sistemica e una visione ingegneristica

 

Si cominciò a comprendere, insomma, che la laguna era un sistema, e come tale doveva essere trattato. Non a caso, si affidò a un “piano comprensoriale dei comuni della Laguna di Venezia e Chioggia” il compito di delineare l’insieme delle soluzioni territoriali da adottare per l’insieme dell’area.

Il piano comprensoriale venne tempestivamente redatto, ma non giunse mai all’approvazione finale. All’unità di governo dei tempi della Serenissima la pasticciata Repubblica italiana aveva saputo sostituire solo un farraginoso meccanismo, espressione delle volontà contrastanti (e, quindi, paralizzanti) di poteri dei comuni e della regione, e per di più sottoposto all’approvazione finale di quest’ultima. Un meccanismo che non funzionò perché non poteva funzionare.

Ma accanto ad esso, lo Stato, e per esso il Ministero dei lavori pubblici (e il suo braccio operativo locale, quale era divenuto l’antico e glorioso Magistrato alle acque) agiva secondo le sue logiche. Partiva l’ideazione e la progettazione di quello che fu poi denominato MoSE (modulo sperimentale elettromeccanico), e la costituzione del soggetto privato cui lo Stato avrebbe delegato poteri, competenze e risorse pubbliche per studiare, progettare ed eseguire il complesso delle opere ritenute necessarie.

Mentre lo Stato proseguiva in un’ottica che è definibile solo tardo-ottocentesca (come argomenterò meglio più avanti), e la regione affossava il piano comprensoriale, il Comune di Venezia si attrezzava per poter collaborare dialetticamente con gli altri soggetti nell’ambito delle sue limitate competenze istituzionali (ma dei suoi non marginali poteri politici). Si affinavano sul versante comunale, sia pure con risorse limitatissime, gli studi e le analisi sulla laguna.

 

 

Ripristino dell’ecosistema lagunare

 

Particolare rilievo ebbe quello intitolato al “Ripristino, conservazione ed uso dell’ecosistema lagunare”9. Dopo aver segnalato come il processo degenerativo della laguna tendeva a farne scomparire i connotati specifici e aver descritto le tendenze in atto e le loro cause, il documento forniva un quadro organico degli interventi necessari.

Preso atto che “la difesa della laguna e degli insediamenti umani dalle acque alte eccezionali deve essere affrontata con la processuale realizzazione di specifiche opere di sbarramento manovrabile per la chiusura temporanea, ma totale, delle tre bocche di porto” si afferma che “per bloccare ed invertire la tendenza degenerativa in atto e per condurre l’area lagunare in una situazione nella quale si possano controllare in modo continuo i processi evolutivi ambientali è necessario attuare un insieme di decisioni coordinate che può essere elencato come segue:

- esclusione di ulteriori emungimenti di falda al fine di arrestare la subsidenza di origine antropica;

- recupero di una capacità moderatrice dei flussi mareali in laguna, operando sull’attuale assetto delle bocche di porto, sul sistema di propagazione delle acque nel bacino lagunare e sull’estensione dell’ambito di espansione delle maree, così da pervenire ad una riduzione dei volumi d’acqua scambiati tra mare e laguna (in termini non implicanti negative conseguenze sulla qualità delle acque lagunari, in relazione all’attuazione dagli interventi di tutela dagli inquinamenti) e da mitigare la dinamica delle acque lagunari, conseguendo una consistente attenuazione dei processi erosivi e di degrado ambientale nonché la riduzione dei livelli e delle ampiezze di marea in laguna e, quindi, della frequenza con cui le maree medio-basse determinano il fenomeno delle acque alte;

- tutela dei litorali, a partire prioritariamente da Pellestrina, attraverso interventi finalizzati al riassetto della loro struttura, alla realizzazione di opere di difesa dall’erosione costiera, al ripristino di una dinamica naturale di trasporto costiero ed al ripascimento anche artificiale dei lidi e dei fondali;

- determinazione degli usi e dei modi d’uso congruenti con le diverse parti dell’area lagunare, dei litorali, dell’entroterra, e pertanto in esse ammissibili;

- abbattimento e controllo degli inquinamenti dell’acqua e dell’aria”10.

Un’eco dei risultati di questa impostazione risuona nelle formulazioni della legge che, dopo un lungo e accanito dibattito parlamentare, integrò nel 1984 la legge speciale del 1973. In essa, infatti, si dichiarava che gli interventi dovevano essere volti “al riequilibrio della laguna, all’arresto ed all’inversione del processo di degrado del bacino lagunare ed all’eliminazione delle cause che lo hanno provocato, all’attenuazione dei livelli delle maree in laguna, alla difesa con interventi localizzati delle insulae dei centri storici, ed a porre al riparo gli insediamenti urbani lagunari dalle acque alte eccezionali, anche mediante interventi alle bocche di porto con sbarramenti manovrabili per la regolamentazione delle maree”11.

 

 

Un compromesso dinamico

 

In realtà la legge apparve sul momento il frutto del compromesso tra due logiche, descritte da Luigi Scano: quella che “concepisce la laguna veneziana come un comune bacino d’acqua regolato da leggi essenzialmente meccaniche”, e quella che “intende invece la laguna come un delicato ecosistema complesso, regolato da leggi che, con qualche forzatura, sono piuttosto apparentabili alla cibernetica, e rivolge i propri interessi alla conservazione ed al ripristino globale delle sue essenziali caratteristiche di zona di transizione tra mare e terraferma attraverso un complesso coordinato di interventi diffusi”12.

Non a caso, gli interventi alle bocche di porto, i rubinetti mediante i quali si sarebbe potuto regolare l’afflusso delle acque marine erano, secondo il dettato della legge, uno (e non il primo) di una serie di interventi che si dovevano programmare e, sistematicamente, realizzare. Ma così non fu. A volte il potere del legislatore è meno efficace di quello del gestore della legge. L’applicazione della legge fu sostanzialmente affidata al Ministero dei lavori pubblici, in quegli anni, e non solo allora, saldamente in mano a quelle forze (il Psdi di Franco Nicolazzi, la corrente craxiana del Psi e il potente De Michelis, parti rilevanti della Dc) che avevano sposato con entusiasmo la logica meccanicista e la soluzione dei rubinetti.

Da allora, tutto il dibattito su Venezia e la sua laguna si è ridotto al dibattito sul Mose (modulo sperimentale elettromeccanico). E la stragrande maggioranza dei fondi (pubblici) investiti nella salvaguardia della laguna sono andati a quello straordinario colosso (e a quel monstrum istituzionale) che è il Consorzio Venezia Nuova.

 

 

Che cos’è il Mose

 

Il Mose è, in estrema sintesi, un sistema costituito da 79 cassoni metallici, la cui superficie maggiore è di oltre 20 metri per 20, suddivisi in quattro serie nelle tre bocche di porto: 21+20 alla Bocca di Lido, 20 a Malamocco, 18 a Chioggia. Ogni paratia è incernierata in una grande struttura di calcestruzzo sommersa e, normalmente, è piena d’acqua. Secondo il progetto, ogni volta che le previsioni lasciano presagire che il livello di marea supererà l’altezza desiderata (si parla generalmente di +110 cm sul livello medio marino), un sistema di pompaggio dovrebbe immettere aria nei cassoni i quali si solleverebbero e ostacolerebbero così l’ingresso delle acque marine.

Il sistema prevede consistenti opere sussidiarie e accessorie, che nel loro complesso richiederebbero la movimentazione di 5 milioni di metri cubi di materiali inerti e comporterebbero l’immissione di 12.055 pali di cemento lunghi dai 10 ai 19 m. e fino a una profondità di -42,5 m., di 5.960 palancole metalliche lunghe da 10 a 28 m., di 157 enormi cassoni di calcestruzzo armato, di 560.000 mq di pietrame e, infine, la realizzazione di un’isola artificiale di 135.000 mq, con edifici alti dai 4 ai 10 m e una ciminiera di 20 m.

 

 

Le critiche al Mose

 

Il progetto ha sollevato numerose e argomentate critiche. È stato gratificato d’un ampio e articolato parere negativo dalla commissione incaricata dal Governo (ministri Ronchi e Melandri) di effettuare la valutazione d’impatto ambientale13, è stato lungamente contrastato dal Consiglio comunale di Venezia, al quale un parere ambiguo finale è stato estorto con una di quelle capriole interpretative delle quali la bassa politica italiana è maestra14. Le critiche sono riassunte in modo efficace in alcuni documenti della Sezione veneziana di Italia Nostra. Esse possono riassumersi in un numero relativamente limitato di punti.

Il progetto provoca danni certi e misurabili all’ambiente lagunare sia nella lunga fase di cantiere, nel corso della quale verrebbero distrutti luoghi di grande rarità e bellezza (come le dune di Ca’ Roman e degli Alberoni e la Secca del Bacan), sia per le stesse trasformazioni progettate (basti pensare che le gigantesche strutture sommerse in cui sono incernierati i cassoni metallici interromperebbero definitivamente la continuità naturale tra i fondali della laguna e quelli marini negli unici tre segmenti sopravvissuti nel processo di formazione della laguna).

Il progetto difenderebbe i centri abitati solo dalle alte maree di origine marina, non dalle alluvioni fluviali (rispetto alle quali costituirebbe, invece, un ostacolo al deflusso delle acque). Si fa osservare che negli eventi eccezionali del 1966 l’apporto della rottura degli argini dei fiumi fu determinante, e che a tutt’oggi le condizioni dell’assetto idraulico sono addirittura peggiorate. Sarebbe perciò, oltre che scarsamente efficace al medesimo fine cui è esclusivisticamente ordinato, anche rischioso.

Il progettato sistema reagirebbe ad eventi (alte maree superiori a 110 cm) di cui è assolutamente incerta la frequenza. Se il limite dei 110 cm venisse superato troppo spesso (una delle ipotesi formulate è di 400 chiusure all’anno) la laguna diventerebbe un bacino chiuso, l’inquinamento sarebbe letale15 e il porto non funzionerebbe più. Se il livello degli oceani aumentasse oltre i +30 cm il sistema diverrebbe obsoleto, e i portelloni sarebbero scavalcati dai flutti16.

Il progetto è costosissimo per quanto riguarda la sua realizzazione (le stime sono crescenti di anno in anno: ultimamente raggiungono 7-8.000 milioni di €). La cosa più straordinaria è che non si sa quanto costerà la gestione del complesso meccanismo, né a chi essa sarà affidata, né chi e come ne sosterrà le spese. Basta pensare che su un metro quadrato di cassone metallico si depositano all’anno tra i 10 e i 35 kg di incrostazioni biologiche, eliminabili solo smontando i giganteschi portelloni e lavorandoli a terra.

Il progetto è pericoloso per l’equilibrio complessivo della laguna anche per due ulteriori sue conseguenze. Si calcola che esso rilascerebbe 12 tonnellate/anno di zinco per effetto della protezione anodica delle paratoie dalla corrosione; si fa rilevare che ciò corrisponde al 50% dell’intero carico ammissibile per l’intero bacino idraulico gravitante in laguna e che lo zinco si accumula nel ciclo alimentare. E si calcola, inoltre, che l’ulteriore approfondimento dei canali, previsto dal progetto, e il più intenso scambio con il mare che ne consegue, comporterebbe un consistente aumento dell’erosione dei fondali della laguna: quindi, un salasso permanente della materia stessa di cui, insieme all’acqua, la laguna è costituita.

 

 

Gli errori di fondo del sistema Mose

 

Al di là delle critiche specifiche mi sembra che al sistema progettato si debbano muovere due critiche di fondo.

In primo luogo, esso è centrato su uno solo degli obiettivi che devono essere perseguiti: la riduzione degli effetti sui centri abitati delle alte maree eccezionali. Pur tralasciando il fatto che neppure questo obiettivo sembra raggiungibile con attendibili garanzie di successo (nonostante il costo elevatissimo, e per una parte rilevante neppure determinato), esso considera del tutto marginali tutti gli altri danni subiti dall’ecosistema lagunare, non interviene su di essi17 ed anzi in buona misura li accentua.

Così, ad esempio, invece di prevedere la riduzione dei fondali dei canali principali che adducono le acque marine, ciò che di per sé limiterebbe drasticamente gli effetti delle alte maree, se ne prevede addirittura l’approfondimento e l’ampliamento della sezione rispetto a quelle attuali. E per di più tali trasformazioni sarebbero irreversibili, poiché realizzate con gigantesche cementificazioni.

Ciò significa, oltre tutto, che a tutti gli altri interventi necessari per ripristinare l’equilibrio dell’ecosistema lagunare (dalla vivificazione delle zone di laguna interna alla riapertura delle valli da pesca, alla manutenzione della rete canalizia minore al reimpianto della vegetazione degradata ecc.) vengono destinate risorse del tutto marginali e insufficienti, senza alcuna garanzia di continuità e sistematicità nell’azione.

In secondo luogo, questo stesso obiettivo è perseguito attraverso tecniche che definire dure e pesanti è perfino riduttivo. Tecniche, comunque, ben lontane da quei criteri di “gradualità, sperimentalità, reversibilità” che la Serenissima Repubblica di Venezia aveva perseguito per secoli, che la cultura nazionale aveva finalmente compreso essere le parole chiave per la sopravvivenza della laguna, e che lo stesso Parlamento italiano aveva inserito nel corpus legislativo18. Che cosa di graduale, sperimentale e, soprattutto, reversibile vi sia nel sistema proposto è impossibile comprendere.

Una soluzione semplicistica, meccanicistica, tecnicistica, rigida, parziale là dove la realtà e la storia pretenderebbero una soluzione complessa, sistemica, flessibile, governabile: l’unica adeguata al corpo vivo della laguna, riduttivamente assimilato dai promotori del Mose a un vascone dotato di tre rubinetti.

 

 

Una matrice ideologica …

 

A ben vedere, le matrici di questi errori sono riconducibili a due, l’una sul versante della cultura e dell’ideologia, l’altra a quello istituzionale.

Potremmo definire il sistema Mose come l’estremo canto di quella ideologia ottocentesca che affidava la soluzione dei conflitti, inevitabilmente nascenti dalla dialettica tra società umana e natura, alla pesante sostituzione di elementi artificiali ad ambienti naturali ogni volta che questi pongono un ostacolo a un’esigenza, reale o indotta, della società. L’intervento dell’uomo, insomma, come demiurgica sostituzione alla natura. Le leggi della natura sostituite da quelle tecniche del mondo delle costruzioni. O, più esattamente, poiché le leggi naturali non sono eliminabili per decreto, progressiva riduzione dell’area in cui prevalgono le leggi naturali ed espansione dell’area dominata da quelle della tecnica (e del cemento, dell’acciaio, dell’asfalto). In definitiva, divisione del pianeta in due aree, rigidamente distinte, affidate l’una alla tecnica l’altra alla natura.

Quanto ci sia d’illusorio in questa ideologia demiurgica, in questo revival tardo-ottocentesco, ce lo ricordano ogni anno gli eventi che devastano regioni sempre più vaste del pianeta. Le vicende della Laguna di Venezia l’avevano preannunciato nel lontano 1966. Sembrava che chi sulla laguna governa (prevalentemente in capitali lontane da essa) l’avesse compreso. Così è stato per una stagione troppo breve per produrre effetti significativi. Le grandi opere sono tornate di moda. Per ragioni non solo ideologiche, ma anche molto materiali. Per comprenderlo veniamo all’altro aspetto: quello istituzionale.

 

 

La matrice istituzionale

 

Non è un’autorevole istituzione pubblica, non è un pezzo dello Stato il protagonista dell’intera operazione di studio preliminare, sperimentazione, progettazione, esecuzione dei lavori per la salvaguardia della laguna. È un’associazione di industrie private: in grande prevalenza, industrie del settore delle costruzioni. Le principali sono la Impregilo spa (39,4%), la Grandi Lavori Fincosit (16,65), la Società Italiana Condotte d’Acqua (2,5%), la Saipem del gruppo Eni (2,5%), La Mazzi Scarl (1,85%). Il resto è suddiviso da alcuni sottoconsorzi, che raggruppano imprese di minori dimensioni.

Attraverso una serie di passaggi e di atti amministrativi, a questo pool di imprese è stato affidato uno straordinario e inusitato insieme di compiti: è il concessionario unico ed esclusivo dello Stato per lo studio, la sperimentazione, la progettazione e l’esecuzione delle opere necessarie per la salvaguardia della laguna, tutte finanziate con fondi pubblici. Le risorse di straordinaria entità messe a disposizione di questo monstrum istituzionale sono tali che esso ha avuto la possibilità di esercitare un vero monopolio sulla ricerca e sulla promozione delle soluzioni volta a volta proposte.

I tentativi di far valere, di fronte ai tribunali internazionali, l’anomalia di un affidamento così ampio di compiti senza alcun ricorso a procedure concorsuali (e, quindi, al di fuori delle norme di tutela della concorrenza) sono state abilmente eluse. Italia Nostra aveva presentato (nel luglio 1998) un ricorso alla Commissione europea. Questo era stato accolto ed era stata aperta una procedura di infrazione alle direttive europee nei confronti del governo italiano.

Ma dopo una fase interlocutoria la Commissione europea ha scelto di dare una soluzione politica alla questione e con un compromesso ha chiuso la procedura. Pur riconoscendo la complessità della questione e ammettendo di non avere raggiunto certezze in materia, ha cercato di risolvere la illegittimità con una soluzione cucita al filo bianco. Si è deciso che il Consorzio si impegna a dare in subappalto una parte dei futuri lavori, tramite gara pubblica organizzata dal Consorzio stesso. I lavori alle bocche di porto (Mose) vengono peraltro lasciati alla piena gestione del Consorzio Venezia Nuova, che dunque continua ad essere il concessionario degli interventi più delicati e più discussi per la salvaguardia della laguna.

Di fatto, si è creato in laguna un potere, più forte di tutti quelli presenti nell’area, nell’ambito del quale la missione degli attori più rilevanti (la totalità dei membri del Consorzio) è quella di aumentare il volume degli affari, quindi la qualità delle opere da realizzare e dei materiali da impiegare (acciaio, ferro, cemento). È ben difficile che, in un simile quadro, l’opera del Consorzio possa ispirarsi a quei saperi, a quelle procedure tecniche, a quel saggio equilibrio di sperimentazione, gradualità, reversibilità che secoli di saggezza amministrativa avevano distillato e che la politica italiana (in una sua fase certo non eccelsa, ma infinitamente più alta di quella attuale) aveva compreso e adottato.

 

 

Le alternative possibili

 

Le cose da fare sono note da tempo19.

Si tratta in primo luogo di ridurre l’afflusso delle acque marine, riportando le sagome delle bocche di porto e dei canali d’accesso alle condizioni compatibili con la navigazione sostenibile dalla laguna. Questo essenziale intervento evidentemente contrasta con le esigenze del traffico petrolifero, il quale dovrebbe di per sé essere eliminato (la legge lo prevede dal 1973) e con quelle della permanenza del transito delle gigantesche navi di crociera. Ed esso imporrebbe di affrontare seriamente il problema del disinquinamento, soprattutto di quello dovuto dalle immissioni dalla terraferma.

Si tratta di ridurre, analogamente, il rischio di inondazioni da parte dei fiumi, che contribuirono notevolmente alle eccezionali acque alte del 1966. Anche la regolazione dei corsi d’acqua dell’intero bacino gravitante sulla laguna è impresa prevista da anni, e in parte già finanziata.

Si tratta poi di lavorare perché la laguna viva possa riappropriarsi di una parte almeno degli spazi che le sono stati sottratti nell’ultimo secolo: oltre alle casse di colmata della prevista terza zona industriale (cioè di quelle vaste aree lagunari già interrate ma non utilizzate dall’industria), si tratta di riaprire alle correnti le valli da pesca privatizzate, sostituendo gli argini in terra con le tradizionali griglie permeabili alle maree, e si tratta di riprendere l’opera di manutenzione della rete canalicola.

Si tratta di ristabilire il rapporto tra terra e acqua nella morfologia della laguna, proteggendo e recuperando le barene (le formazioni solide volta a volta sommerse ed emerse per il gioco delle maree), erose dal moto ondoso e dalla aumentata idrodinamica del bacino lagunare, avvalendosi di tecniche di ingegneria naturalistica molto diverse da quelle hard impiegate dal Consorzio Venezia Nuova, reimmettendo in modo controllato e reversibile una parte delle piene dei fiumi nel bacino lagunare, al fine di arrestare il processo erosivo con l’apporto di sedimenti.

Si tratta di proseguire il lavoro sistematico, da tempo iniziato da un’apposita azienda comunale, di difesa locale degli abitati insulari, cioè di rialzo della pavimentazione veneziana alla quota di +110/+120: ciò consentirebbe di eliminare il disagio degli abitanti per la stragrande quantità degli eventi di acqua alta.

Si tratta, infine, di approfondire proposte diverse dal Mose per ridurre ulteriormente l’immissione di acque marine in caso di alte maree eccezionali. Idee e proposte sono state avanzate negli ultimi anni. Che l’approfondimento progettuale non sia stato pari a quello che si è avuto per il Mose è una ulteriore testimonianza dell’errore di fondo: che è stato quello di affidare a un unico attore, in condizioni di monopolio assoluto, le ingenti risorse statali destinate a studiare, sperimentare e progettare, con l’unica bussola dell’interesse del Consorzio. I cui componenti sono, ricordiamolo, imprese di costruzioni: strutture degnissime, la cui missione, la cui cultura e i cui interessi sono però ben diversi da quelli necessari per affrontare il problema della laguna in coerenza e continuità con la tradizione e, quindi, con la salvaguardia di un bene universale.

 

 

1 Venezia, Chioggia, Campagna Lupia, Mira, Quarto d’Altino, Codevigo, Iesolo, Musile e, oggi, Cavallino.

2 Venezia, Padova, Treviso, Vicenza.

3 Si veda: Bevilacqua P. (1995), Venezia e le acque, Donzelli, Roma, soprattutto pp. 85 e segg.; Cacciavillani I. (1984), Le leggi veneziane sul territorio 1471-1789. Boschi, fiumi, navigazioni, Signum, Limena.

4 In molti luoghi di Venezia campeggiano ancora, accanto alle piscine (i luoghi dedicati alla vendita del pesce), le targhe in marmo con le dimensioni minime d’ogni specie vendibile.

5 Bevilacqua P. (1998), cit., p. 21.

6 “Ai primi dell’Ottocento la profondità delle tre bocche di porto si attestava tra i -3,5 e i -4,5 m (…). Alla fine dell’Ottocento la profondità raggiungeva i -7 m al Lido e i -10 m a Malamocco. Nel secolo scorso l’industria portuale in rapida ascesa e l’espansione delle attività industriali necessitavano di fondali ancora più profondi. Si diede avvio dunque a campagne di scavo che portarono la bocca di Malamocco a -14,5 m e si tracciarono i canali Vittorio Emanuele (-10 m) e Malamocco-Marghera o dei petroli (-14,5 m) che attraversano la Laguna come una profonda ferita. La gran massa d’acqua che entra ora in laguna da questi varchi così profondi, com’era prevedibile, ha innescato fenomeni di auto-erosione: nel 1997 la bocca di Malamocco si era portata a -17 m. Sempre a Malamocco, dentro la bocca, si trova ora il punto più profondo dell’Adriatico, -57m!”. Dalla sintesi dei dati pubblicati in varie sedi ufficiali redatta per il sito web di Italia Nostra - Sezione di Venezia (http://www.provincia.venezia.it/italianostra/3laguna/).

7 Legge 16 aprile 1973, n. 171, articolo 12, comma 2, lettera a).

8 Indirizzi per la redazione del piano comprensoriale di Venezia approvati dal Consiglio dei ministri nella seduta del 27 marzo 1975.

9 Comune di Venezia (1982), Ripristino, conservazione ed uso dell’ecosistema lagunare, Venezia. Autori erano Corrado Avanzi, Valentino Fossato, Paolo Gatto, Riccardo Rabagliati, Paolo Rosa Salva, Andreina Zitelli; collaboratori Giampaolo Rallo, Roberto Stevanato; coordinatori Augusto Ghetti, Roberto Passino. Il documento costituì la base delle Osservazioni del Comune di Venezia al progetto di piano comprensoriale, Venezia, 1982, da cui sono tratte le citazioni che seguono.

10 Osservazioni del Comune di Venezia, cit.

11 Legge 29 novembre 1984, n. 798, articolo 3, comma 1, lettera a).

12 Scano L. (1985), Venezia: terra e acqua, Edizioni delle autonomie, Roma.

13 Le ampie conclusioni di questo documento, insieme ad altri testi relativi alle fasi più recenti della lunga vicenda del Mose, sono disponibili sul sito web: http//eddyburg.it.

14 La maggioranza del Consiglio ha approvato un documento che poneva undici tassative condizioni, la cui accettazione avrebbe comportato la revisione integrale del progetto. Il documento è stato presentato dal Sindaco allo speciale Comitato incaricato di approvare il progetto. In tale sede le condizioni più rilevanti sono state respinte, e quelle accettate lo sono state come mere raccomandazioni di cui tener conto nella fase operativa!

15 Si tenga presente che tutti i liquami della città sversano in laguna e la depurazione è oggi assicurata dal ricambio provocato dalle maree.

16 Le previsioni di innalzamento del livello medio marino sono previste, negli scenari calcolati dall’Intergovernamental Panel of Climate Change per il prossimo secolo, in valori variabili tra i +9 e +88 cm, con una maggiore probabilità per il valore +48 cm. Il Mose è basato, invece, sulla previsione di un aumento massimo di soli +22 cm. Paolo Antonio Pirazzoli (Centre National de la Recherche Scientifique, Meudon, France), “Did the Italian Government Approve an Obsolete Project to Save Venice?”, in Eos, Transactions, American Geophysical Union, vol. 83, n. 20, 14 May 2002, pp. 217-223.

17 E quando interviene sul resto della laguna lo fa con tecniche e risultati molto criticabili.

18 Legge 798/1984. È opportuno ricordare a questo proposito che un ulteriore provvedimento legislativo speciale, la legge 139/1992, prescrive che prima di avviare la costruzione del Mose si debba provvedere al riequilibrio idraulico della laguna, all’estromissione del traffico petrolifero e alla apertura delle valli da pesca.

19 Una sintesi esauriente degli interventi proposti è nel sito http://www.provincia.venezia.it/italianostra/3laguna/3laguna.htm, e nel fascicolo La salvaguardia di Venezia dalle acque alte. Un piano di azione strategico alternativo al Mose, a cura della Sezione di Venezia di Italia Nostra e del Comitato Salvare Venezia e la Laguna, gennaio 2003.

 

 

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