Numero 5 - 2002

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I diritti fonamentali dei diversamente abili. La mobilità


Giuseppina Cersosimo


 

I diversamente abili vanno conquistando sempre più diffusamente l'attenzione che le problematiche condizioni di ciascuno di essi impongono ad una società matura e solidale. Giuseppina Cersosimo riflette su come il diritto alla mobilità sia fra quelli fondamentali atti a consentire una vita minimamente accettabile. Aspetti normativi, sociologici, filosofici ed urbanistici sono trattati in prospettiva di una legittimazione non solo formale ma anche sostanziale

 

La terminologia che indica oggi soggetti in situazioni di disagio è mutata nel tempo: il termine handicap, conclamazione manifesta di minorità, ha lasciato il posto a diversamente abili, nel modificarsi comunque del significante ma non del significato. Tanto più che a testimonianza di quella condizione di disagio rimangono e permangono i problemi legati all’agire quotidiano dei soggetti interessati, primo fra tutti la loro mancata possibilità di accesso a molti servizi e luoghi della vita quotidiana. Così nel presente articolo i termini handicap, disabilità e diversamente abili sono utilizzati tutti con lo stesso significato.

In passato l’handicap era stato delegato soprattutto alla cura della famiglia, che, composta di numerosi membri, aveva la possibilità, pur all’interno di contraddizioni legate a realtà territoriali, culturali, sociali diverse da caso a caso, di occuparsi di malati, anziani, disabili, minorati, insomma dei soggetti deboli. In seguito tale compito è passato alla medicina e all’assistenza, pubblica e privata, organizzate in associazioni ed enti ai quali erano affidati gli individui con maggiori difficoltà. Questo processo ha mostrato contraddizioni sostanziali in quanto non sempre tale affido ha corrisposto a una reale tutela di quei soggetti: in moltissimi casi si sono manifestate trasgressioni dei compiti di tutela e si sono rivelati veri e propri crudeli soprusi a carico di coloro che maggiormente avevano bisogno di assistenza e che venivano invece colpiti direttamente nella loro persona e nei loro diritti. 

Ora si possono anche considerare, con termine decisamente approssimativo, le inadempienze o inadeguatezze manifestatesi nell’affrontare questioni relative alla sicurezza dei vari ambienti e nel prevedere le trasformazioni e l’aumento di quelle patologie che sono alla base della presenza dei soggetti disabili nella nostra società. E tra esse si è evidenziata indubbiamente una inadeguatezza dell’analisi contenuta nei manuali di architettura che ancora oggi si basano su vecchi standard per la progettazione. In tali manuali si privilegia l’uomo medio, cioè sano, e di altezza, peso e facoltà neuromotorie medi: il che conferma che non si considerano i dati relativi all’aumento di pluripatologie disabilitanti né quanto ne consegue per l’adeguamento degli spazi pubblici e privati.

I dati statistici relativi alle dimensioni dell’handicap in Italia registrano 2.677.000 casi (il 5% della popolazione residente): di questi, 1.028.000 maschi e 1.649.000 femmine, mentre circa 620.000 sono al di sotto dei 60 anni (Istat, 20011). Tali cifre divengono più ampie se la categoria dei disabili viene estesa - secondo la definizione data dall’Istituto nazionale di statistica - a soggetti:

- con deficit delle funzioni quotidiane: attività di cura della persona come lavarsi, mangiare, vestirsi;

- con deficit della mobilità: camminare, chinarsi, salire e scendere le scale;

- con deficit della comunicazione attività compromesse della vista, della parola dell’udito.

Molti anziani, di conseguenza, sono ricompresi in questa macro-categoria, anche se, è noto, la senescenza non può essere considerata sinonimo di disabilità.

Una disamina degli handicap più frequenti e una migliore conoscenza delle eziologie e delle manifestazioni (fattori peraltro indispensabili) non sono attualmente sufficienti per programmare un ambiente migliore per tutti. Programmare ambienti vivibili, consentendo la mobilità a tutti i diversamente abili, presuppone un reale e integrale abbattimento delle barriere architettoniche2, ma anche di ogni atteggiamento che ostacoli l’organizzazione di un sistema di vita migliore (le barriere sono anche psicologiche, politiche, organizzative).

Sostenere questo vuol dire peraltro avere presente che ormai da diversi anni gli ostacoli che limitano il movimento alle persone con handicap neuro-motori sono diventati oggetto di intervento e ri-pianificazione urbana da parte di amministratori, associazioni culturali, filantropi. L’Italia vanta rispetto a questo una tra le legislazioni più avanzate del mondo occidentale, seconda solo a quella americana (cfr. American With Disabilities Act), voluta da George Bush e, forse, alle iniziative normative coordinate tra loro dei paesi nordici (Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia). Inoltre, è alta nel nostro paese la produzione scientifica relativa al problema. Così come nel territorio nazionale é in aumento costante il numero di sportelli informa handicap e quello dei convegni di sensibilizzazione e di integrazione socio-sanitaria (legge 328/2000).

Allora come è presente la contraddizione che sottolineiamo?

Si provi per un istante a riflettere su cosa hanno rappresentato e cosa dovrebbero rappresentare le normative di seguito sinteticamente riportate in termini di miglioramento della vivibilità e accesso ai servizi per i soggetti diversamente abili.

 

Art. 3 della Costituzione Italiana

“È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese ...”.

C.M. (Lavori pubblici) 19 giugno 1968 n. 4809

Norme per assicurare l’utilizzazione degli edifici sociali da parte dei minorati fisici per migliorare la godibilità in generale.

Legge 30 marzo 1971 n. 118.

Conversione in legge del Dl 30 gennaio 1971 n. 5, e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili.

Dm (Lavori pubblici e Pubblica istruzione) 18 dicembre 1975.

Norme tecniche aggiornate relative all’edilizia scolastica, ivi compresi gli indici minimi di funzionalità didattica, edilizia e urbanistica da osservarsi nelle esecuzioni di opere edilizie.

Dpr 27 aprile 1978 n. 3843.

Regolamento di attuazione dell’art. 27 della legge 30 marzo 1971 n. 118 a favore dei mutilati e invalidi civili in materia di barriere architettoniche e trasporti pubblici.

Legge 28 febbraio 1986 n. 41.

Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 1986).

Legge 9 gennaio 1989 n. 13.

Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione della barriere architettoniche.

Dm (Lavori pubblici) 14 giugno 1989 n. 236.

Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche.

C.M. (Lavori pubblici) 22 giugno 1989 n. 1669.

Circolare esplicativa della legge 9 gennaio 1989, n. 13.

Legge 9 gennaio 1989, n. 13.

“Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”.

Legge 15 gennaio 1991 n. 15.

Norme intense a favorire la votazione degli elettori non deambulanti.

Legge 5 febbraio 1992 n. 104.

Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate.

 

Il complesso di disposizioni ora elencato non lascia equivoci circa la volontà del legislatore di determinare, in modo integrale, il diritto alla mobilità nella nostra società. Le barriere architettoniche (scale, porte strette, ascensori piccoli, marciapiedi) o gli ostacoli all’uguaglianza che impediscono alle persone con difficoltà motorie o sensoriali di uscire di casa, andare a scuola o al lavoro, attraversare gli spazi e i tempi della socializzazione, sono già da tempo oggetto di valutazione e intervento istituzionali per cercare di eliminare quegli impedimenti. Eppure questa legislazione, nonostante i passi avanti compiuti, trova ancora troppe difficoltà ad essere applicata, e spesso la sua applicazione determina anche contraddizioni. Proviamo a fare qualche esempio.

In una grande città è stata istituita una linea con mini bus per disabili, attrezzata per persone su sedie a rotelle. La linea, sulla base di uno studio che ha evidenziato i luoghi più frequentati da soggetti con problematiche di deambulazione, ha stabilito circa 40 fermate, tutte dotate di scivolo. Il servizio così organizzato non è esente da problemi: l’intervallo tra una corsa e l’altra è di 80 minuti, condizione che vincola le persone disabili a percorrere alcuni luoghi/spazi in tempi prestabiliti e, comunque, in una condizione evidentemente non paritaria.

Altro esempio. In un grande magazzino di Milano (situazione comune allo stesso magazzino di Roma), tra i servizi igienici (bagni) per i clienti, si può scegliere se andare al bagno per gli uomini, per le donne, per gli handicappati. Tralasciamo le questioni di carattere socio-psicologico le quali sembrano dare l’impressione che gli handicappati siano asessuati. Nel bagno è stato eseguito tutto nel rispetto della norma prevista dal Dpr 384/1978: maniglioni orizzontali, verticali, obliqui, tazza del wc regolamentare; eppure questi bagni per disabili (pure attrezzati) finiscono per presentarsi come l’ennesima forma per riconfermare una differenza, e tutto sembra avere lo scopo di clinicizzare l’individuo in qualsiasi spazio e in qualsiasi momento. In altri termini ritorna il tema del controllo, dello strutturare gli spazi del soggetto che presenta difficoltà di mobilità in relazione alla volontà di affermare il proprio dominio (in questo caso del progettista, ma più spesso dei clinici) su coloro che necessitano di un intervento per esperire la propria esistenza in spazi e tempi diversi dalle proprie mura domestiche. Ritorna, insomma, quanto Foucault evidenziava in Sorvegliare e Punire (Foucault, 1976): c’è un esercizio volontario di chi detiene il potere a non abbattere le barriere della diversità, una volontà di sancire e mantenere le difficoltà dal diverso da noi come momento per la costruzione di una propria identità.

Ancora un esempio: stazione di Salerno. Il sottopassaggio è stato attrezzato con i montascale, per contenere il problema dell’impossibilità di installare un ascensore. Quel montascale, che dovrebbe consentire al cittadino in carrozzella una propria autonomia funzionale nella mobilità in un luogo, non coincide, come soluzione, con la sua ipotesi, perché può funzionare solo tramite l’attivazione di un pulsante azionato da una chiave specifica (dunque, di volta in volta, è necessario un ricorso ad altri).

Questo sistema di abbattimento delle barriere architettoniche non abbatte le barriere della dipendenza del soggetto diversamente abile dal soggetto abile ed è utile richiamare l’esperienza statunitense (portata ai suoi massimi livelli in California), nella quale i soggetti in carrozzina hanno un alto livello di autonomia proprio sulla base di un accesso autonomo e libero.

Un altro momento di osservazione è rappresentato dall’Università degli Studi di Salerno, nella sua sede di Fisciano. Il progettista dell’ateneo il quale ha senz’altro per molti aspetti considerato il superamento delle barriere architettoniche, per altri non è stato attento nello stesso modo. Si pensi ai bagni: anche in questo caso si è creduto che i disabili non abbiano esigenze fisiologiche, non ci sono bagni idonei per persone che hanno disabilità neuromotorie, ma ad ogni modo anche gli spazi organizzati per i bisogni fisiologici degli abili non sono stati realizzati nel rispetto delle norme ergonomiche. In questo caso per garantire a tutti i soggetti pari opportunità si è pensato di arrecare uguale svantaggio anche a chi non ha problemi di deambulazione. Peraltro non in tutti i luoghi dell’ateneo è possibile un accesso delle carrozzine, se non, in alcuni casi, dietro percorsi tortuosi che moltiplicano le difficoltà di chi le affronta comunque in ogni momento della giornata. Sarebbe, infatti, necessario che chi pensa alla difficoltà che il diversamente abile incontra nella sua esistenza ricordi che l’incontro con la barriera architettonica è solo il momento di crisi di una quotidianità complessa in tutti i suoi momenti.

Mi pare chiaro che alcuni errori sono evidenti a qualunque osservatore attento e che non possono essere demonizzati attribuendoli alla superficialità o alla cattiva fede degli esecutori: essi sono piuttosto radicati in motivi più profondi, ossia nel modo in cui ci si avvicina al problema. Probabilmente fretta, creazioni estemporanee, scarsa conoscenza dei problemi ma, soprattutto, una asimmetria tra un dover essere un paese occidentale evoluto ed un essere invece ancora legato a tradizioni di vecchia sanità e di scarsa integrazione tra discipline che afferiscono alla progettazione, confermano quanto affermava Spring: “È impossibile rendere piacevole e accessibile l’edifico a intere categorie di persone alle quali non si è pensato già dalle prime fasi dell’ideazione”.

Nella Metafisica dei costumi Kant fonda l’uguaglianza innata fra gli uomini, sulla indipendenza, per cui “non possiamo essere costretti da altri a nulla più di tutto ciò a cui possiamo reciprocamente costringerli” (Kant, 1991, 44). Il che rimanda alla definizione della persona come soggetto, le cui azioni sono passibili di imputazione. A questo vogliamo aggiungere che se, come afferma Sen (1994), per avere una qualche plausibilità sociale, una azione etica deve prescrivere una considerazione uguale per tutti a qualsiasi livello, centrare l’attenzione sui soli mezzi come maniglioni, montascale, e quant’altro per risolvere questioni molto più considerevoli appare forse necessario ma comunque limitativo. In effetti, la scelta di uno spazio per l’uguaglianza diverge da quella di un altro con tutte le implicazioni che questo comporta rispetto al riconoscimento di una pari cittadinanza per tutti i soggetti dell’uguaglianza. In altri termini, pur considerando costante l’ideale dell’uguaglianza, esso si applica a diversi spazi divergenti, talora conflittuali, in quanto porre l’accento sulle capacità abili e diversamente abili in un sistema di pari opportunità pone dei vincoli, per cui ad uguali opportunità non equivalgono uguali libertà. Queste danno maggiore rilevanza agli strumenti piuttosto che all’estensione della libertà.

Dal momento che la società contemporanea ha subito mutamenti così profondi da proiettare centrifugamente l’individuo “ad una distanza sempre maggiore dalle decisioni che lo concernono” lasciandolo in “una situazione di relativa impotenza”, si è prodotta la sua trasformazione in oggetto di una “grande inerzia”: l’obiettivo è la ricerca dei “mezzi che consentano una piena partecipazione a decisioni che lo riguardano in modo così vitale” (AA.VV., 1985).

Le enunciazioni del Ciam4 di Atene hanno chiarito, fin dal 1933, un concetto di urbanistica: [essa] “per sua stessa natura di ordine funzionale”, “sovrintende” alla soddisfazione di “tre funzioni” fondamentali: “abitare...lavorare...ricrearsi”; e la puntualizzazione di Piero Bottoni (1938) illustra la specificità di una Carta, quella di Atene, come “dottrina che si occupa ... dell’organizzazione dei luoghi ... destinati all’abitazione, alla produzione, alla distribuzione, alla fisicità interagente della vita associata - dallo “svago al riposo dell’uomo” - con i circuiti delle “comunicazioni” e dei “trasporti”, “nel modo più conforme alla intrinseca funzionalità” ambientale e alle “superiori necessità collettive”.

Rispetto a questo le riflessioni di ricercatori quali Dhul e Jacobs evidenziano il carattere traumatizzante e limitativo di una pianificazione che ponga l’individuo di fronte a fatti compiuti e irreversibili, estraniandolo dal processo: una ricomposizione ideale presupporrebbe la “partecipazione degli interessati” alla strutturazione degli spazi della loro città. Proprio in questo contesto trova collocazione il progetto città sane, promosso dall’organizzazione mondiale della sanità (Oms)5; l’esigenza di pianificare città sostenibili nasce, infatti, per applicare il programma delle Nazioni unite “Salute per tutti entro il 2000”. L’obiettivo è di far crescere il livello di prevenzione e le politiche sanitarie integrate, superando la tradizionale separazione fra salute e ambiente, igiene e programmazione urbanistica. I piani devono riuscire a coordinarsi perché l’inquinamento è fonte di malessere e di malattie, e la qualità della vita è strettamente collegata alla storia sanitaria di ognuno di noi e del suo territorio. Per questo uno degli snodi del progetto, a livello internazionale, è l’integrazione delle politiche, sin dalla capacità di coordinare le attività dei vari assessorati comunali coinvolti. L’Oms, già dal 1978, con la stesura della Carta di Ottawa6, insiste infatti sullo strutturarsi di città sostenibili e sul potenziamento di aree verdi come spazi necessari dell’ambiente urbano. Coltivare, infatti, la “civiltà del giardino all’orizzonte” (Lévy, 1094) può essere presupposto per l’individuazione di una diversa interazione sociale volta alla comprensione del nostro universo interiore, premessa per aprirsi successivamente alla conoscenza dell’altro.

I programmi di promozione della salute e di prevenzione delle malattie e della disabilità7 rappresentano perciò elementi essenziali della strategia dell’Oms per soddisfare il mandato di tutela della salute degli abitanti di un territorio. In questo un ruolo primario é svolto in particolare dagli enti locali, rispetto ai quali le aziende sanitarie hanno funzioni di proposta, supporto e consulenza tecnica, secondo un modello simile a quello realizzato nei programmi collegati al movimento delle Città sane. Per concorrere efficacemente al processo di selezione dei rischi da affrontare prioritariamente e di scelta delle azioni da intraprendere per rimuoverli o controllarli, le aziende sanitarie devono sviluppare anzitutto adeguate capacità di analisi epidemiologica, finalizzate alla sanità pubblica, e di valutazione della efficacia dei programmi di intervento legati alle evidenze scientifiche. Il raggiungimento degli obiettivi di promozione della salute e di prevenzione delle malattie deriva, infatti, dalle conoscenze e dalle competenze tecniche disponibili, ma é condizionato soprattutto dalla percezione, dai giudizi e dai valori di tutti i soggetti che, a vario titolo, fanno parte del problema. Occorre, quindi, che il servizio sanitario, nel promuovere la difesa della salute, faciliti l’accesso all’informazione e crei le condizioni, sviluppando le competenze necessarie, per un efficace processo di comunicazione del rischio tra tutti i soggetti interessati.

Se alle riflessioni di ricercatori come Dhul, Jacobs e altri sopra ricordati, i quali evidenziano la necessità della “partecipazione degli interessati” alla strutturazione degli spazi della loro città, si aggiunge la volontà degli enti locali che operano sui territori, ne consegue l’esigenza di realizzare progetti di interazione tra istituzioni e ambiente, per il miglioramento dello stile di vita dei cittadini diversamente abili, progetti già sperimentati in alcune regioni.

Occorre garantire all’abitante-cittadino di (ri)appropriarsi dei propri territori, vivendone gli spazi e i luoghi.

Abbiamo coscienza che tutto questo non è facile da realizzarsi: ma si può intanto auspicare l’implementazione di modelli più o meno in grado di eliminare barriere e disuguaglianze (nella mobilità) e garantire una certa misura di equità. Tali obiettivi possono essere raggiunti attraverso l’istituzione di servizi di prossimità8, un innalzamento dello stato di salute psico-fisico, una maggiore cultura nella promozione di uno stile di vita più consono, e un’informazione tempestiva (sin dalla loro progettazione) che consenta il miglioramento dell’accesso ai vari servizi.

Su queste premesse l’attenzione rivolta alle forme di urbanistica partecipata non vuole essere un’indicazione perseguibile per progettare qualsiasi spazio, strategia destinata a conclusioni standardizzate, foriere di vecchi errori. Si vuole pensare, invece, alla necessità di orientare, ove possibile, una pianificazione sostenibile in grado di garantire il miglioramento della qualità della vita dell’individuo/abitante. Una pianificazione urbanistica sensibile ai temi della sostenibilità e della vivibilità di un ambiente non può che considerare e privilegiare le esigenze degli abitanti-cittadini. Perciò l’azione degli urbanisti deve sapere analizzare e comprendere in profondità le varie forme di disagio che si configurano per ciascun abitante di un contesto nel quale non riesce a trovare una propria collocazione, presupposto di ogni dimensione esistenziale dell’agire.

 

 

1 A partire da qualche anno lo stesso Istituto non quantizza più numericamente i soggetti con disabilità: tra le cause la mancanza di un osservatorio permanente in grado di rilevare le diverse forme di handicap.

2 Si evidenzia il termine integrale perché in molti casi ci si trova di fronte ad aree nelle quali una parte delle medesime viene progettata per consentire la mobilità ai disabili mentre altre restano loro precluse.

3 Principali disposizioni del Dpr 384/1978

Percorsi Pedonali (larghezza minima m. 1,50 - dislivello con il piano del terreno di cm 2,3 o massimo di cm. 1 - raccordi con il livello stradale con rampe di uguale larghezza pendenza non superiore al 15% - pavimentazione antisdrucciolevole).

Parcheggi (raccordi con i percorsi pedonali - larghezza minima di m. 3, di cui m. 1,7 relativa all’auto e restante spazio per il movimento dell’automobilista).

Accessi (larghezza minima di m. 1,50 - zone antistanti in piano e lunghe m. 1,50 - la soglia, se indispensabile, non più alta di cm. 2,5).

Piattaforma di Distribuzione (la superficie minima di mq. 6, con il lato minore non inferiore a m. 2 e accessi con ascensori).

Scale (gradini con altezza massima di cm. 6 - parapetti ad altezza di m. 1 - corrimano ad altezza cm. 90 - pavimentazione antisdrucciolevole).

Rampe (larghezza minima di m. 1,50 - pendenza massima dell’8% - pavimentazione antisdrucciolevole - ripiano di m. 1,50 di lunghezza ogni m. 10 di sviluppo lineare).

Corridoi e Passaggi (larghezza minima di m. 1,50 - pavimentazione antisdrucciolevole).

Porte (apertura minima di m. 1,50 - maniglia ad altezza massima di cm. 90).

Locali Igienici (la tazza del Wc con altezza massima di cm. 50 - il lavabo con altezza massima di cm. 80 - corrimani orizzontali continui ad una altezza massima di cm. 80 e distanti dalle pareti cm. 5).

Ascensori (cabine con dimensioni di m. 1,50 di lunghezza e m. 1,37 di larghezza - porta con apertura di cm. 90 e a scorrimento automatico).

Altre Disposizioni

La normativa vigente dispone:

- la precedenza agli invalidi nell’assegnazione di alloggi di edilizia popolare situati a piano terra;

- l’eliminazione degli ostacoli negli edifici scolastici;

- la facilitazione della mobilità nei “servizi speciali di pubblica utilità”: mezzi di trasporto, stazioni, servizi di navigazione, aeroporti, servizi per viaggiatori, telefoni, sale e luoghi di riunione.

4 Il Ciam, congressi internazionali di architettura moderna, nel 1928 diventa l’organo di diffusione dell’architettura progressista. Nel 1933 il gruppo dei Ciam propone una formulazione dottrinale, la Carta di Atene, bene comune degli urbanisti progressisti (Choay, 1965).

5 Esiste un manifesto delle città sane, firmato finora da circa 400 città in tutto il mondo: le amministrazioni si impegnano ad aumentare la disponibilità di cibo e di igiene, a controllare l’inquinamento urbano, ma anche a strutturare azioni contro l’emarginazione, l’esclusione e le situazioni che portano in se stesse forti componenti di rischio sociale e individuale.

6 È stata elaborata nella prima conferenza internazionale tenutasi in Canada dal 17 al 21 novembre 1986. La carta amplia il concetto di promozione della salute definendolo come “… processo che consente alla popolazione di controllare e migliorare la salute …” negli ambienti urbani.

7 Nel 1980 nella “Classificazione internazionale di malattia, menomazione, disabilità e handicap”, l’Oms definiva così la disabilità “… limitazione o perdita delle capacità di svolgere attività nel modo o nei limiti considerati normali per un individuo”.

8 Disponibilità e utilizzo di una serie di servizi messi a disposizione da enti tra loro diversi ma in rete (ad esempio, pulmino con pedana per la mobilità dei ragazzi disabili nel territorio).

 

 

Bibliografia

 

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Lévy, G. (1973), Le cité- jardin, in Choay F. Città: Utopie e Realtà, Einaudi, Torino.

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