Numero 8/9 - 2004

 

i forum di areAVasta 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nuove prospettive per il paesaggio in Italia


Giuseppe Imbesi

Giorgio Pizziolo


 

In occasione della presentazione del n. 6/7 di areAVasta, tenutosi presso la sede della Provincia di Salerno l’8 aprile 2004, si è dibattuto sul tema “Nuove prospettive per il paesaggio In Italia”. Hanno partecipato Giuseppe Imbesi dell’Università di Roma La Sapienza e Giorgio Pizziolo dell’Università di Firenze di cui si riportano i rispettivi interventi

 

 

 

 

 

 

Giuseppe Imbesi

Vi ringrazio per l’invito a partecipare a questo forum: mi interessa molto per più motivi. È l’occasione per parlare di areAVasta, una rivista che seguo con attenzione fin dai primi numeri e che mi piace sia per la linea editoriale che per i contenuti. Ma è anche l’occasione di rileggere insieme aspetti del tema del paesaggio nella doppia accezione, in apparenza contraddittoria, della sua conservazione/valorizzazione che ci fornisce l’uso che se ne fa per il turismo e il tempo libero.

 

Il primo tema, la rivista

 

Pensare ad una nuova rivista è piuttosto facile nell’ambiente universitario e per un docente che voglia misurarsi con le altre componenti accademiche lasciando traccia delle proprie idee e della propria operosità; una rivista sembra essere la manifestazione più tangibile dell’operare in modo dialettico nella ricerca, garantendo continuità e possibilità di scambio al proprio messaggio culturale. Tutte esigenze che mi sembrano legittime e che riescono talvolta ad essere soddisfatte in modo solenne con un ampio piano editoriale ed un primo numero (anzi un numero zero).

Il problema nasce dal numero due quando i pochi amici che hanno fornito a vario titolo la loro collaborazione si dileguano, quando ci si accorge che la diffusione del primo numero è stata del tutto insufficiente, se non nulla, e le copie si sono ammucchiate negli scaffali, quando si comincia a pensare che il valore delle proprie idee non ha avuto quel riconoscimento che ci si aspettava. Realizzare una rivista e dare continuità alla sua pubblicazione nel tempo è perciò molto meno facile della sua ideazione: è anzi un fatto complicato che richiede capacità singolari del gruppo redazionale, grande impegno, adeguate alleanze culturali, ma soprattutto convinzione del proprio pensiero.

Roberto Gerundo ha dimostrato di saper soddisfare tali esigenze e in modo brillante e originale. Lo dimostra la collezione di numeri che ha saputo costruire in questi anni e che ho seguito con attenzione e piacere scoprendo il senso e il valore della sua iniziativa.

Su tre aspetti, in particolare, vorrei richiamare l’attenzione: il valore del tema, l’umiltà nell’approccio, il ruolo del contesto di riferimento.

Nella rivista com’è ovvio si parla di urbanistica. Lo si fa accettando la dimensione del piano (e più in generale del processo di pianificazione) senza evidenziare le evidenti contraddizioni che questo presenta oggi, ma invitando a lavorare al suo interno per migliorarlo, per renderlo più efficace. È un limite della rivista forse, ma ne è anche, per l’oggi, il suo valore.

Si cerca infatti di coprire uno spazio culturale dell’urbanistica, tra la riflessione teorica e la rassegna delle esperienze (sviluppate analiticamente) oggi non adeguatamente considerato nel contesto delle pubblicazioni del settore. Nell’apparente volontà di dare continuità a linee del nostro passato urbanistico c’è una umiltà nell’approccio che va sottolineata.

Il piano non è visto come un bene cui tendere, né al contrario è riguardato come un male da combattere in quanto condizionante per la nostra libertà creativa. È una condizione strumentale entro la quale si colloca la nostra società, troppo complessa per sfuggire a logiche di gestione del suo assetto, su cui occorre lavorare per migliorarne le modalità d’uso comprendendone i limiti intrinseci ma anche le potenzialità.

La frase che titola quest’ultimo numero della rivista: “La vita nelle città è più difficile” mi richiama una lontana inchiesta svolta dalla rivista “Rinascita” sul disagio urbano. Quell’arguto urbanista che è Franco Berlanda nel suo intervento affermava più o meno così: “La vita urbana è difficile per tutti, ma non per il principe che risiede in un castello per cui può vedere dall’alto i suoi sudditi senza mischiarsi con loro”. Il titolo è un invito a ritrovare il senso di un’etica che spesso sembra venir meno? Se è così forse sarebbe opportuno anche un invito a sottolineare le differenze di situazioni, di contesto e, anche se uso un termine obsoleto, di classe.

È un momento singolare e, ritengo, molto interessante per lo sviluppo della disciplina urbanistica nel nostro paese: stanno sfumando le posizioni radicali che avevano caratterizzato il divenire disciplinare fino agli anni ottanta (possono considerarsi indicativi i due interventi di Gigi Mazza ed Eddy Salzano apparsi su “La Repubblica” a proposito dell’ennesima proposta di legge urbanistica che il governo si appresta a varare e in cui si ritrovano da posizioni contrapposte analoghi valori di riferimento)1: di fronte ad una diversa lettura dell’assetto del nostro paese e della città sembra però emergere una rincorsa all’up to date di nuovi strumenti e nuove tecniche per l’intervento su cui si misurano soprattutto i giovani. Minore, e comunque sviluppata secondo un filone parallelo, l’attenzione ai cambiamenti strutturali dell’assetto e della società.

L’attenzione con cui areAVasta guarda al piano mi sembra opportuna nel contesto della letteratura del settore: se si volesse sintetizzare in una parola chiave la sua linea basterebbe: discontinuità nella continuità.

Questo approccio ci costringe a pensare all’agire urbanistico come necessità evitando di portarci sulla via del pessimismo o, al contrario, offrendoci una sponda tecnica tranquillizzante.

Nell’editoriale del primo numero, “L’area vasta … in rivista”, Roberto Gerundo nel precisare gli obiettivi della rivista, affermava che l’importante era tenere fede ad essi; si auspicava un dibattito ragionato e ragionevole. Credo ci sia riuscito in gran parte. Nell’editoriale c’era dell’altro: si collegava direttamente al contesto in cui opera, la Provincia di Salerno e all’importanza da attribuire sia ad esso che alla dimensione territoriale dell’intervento urbanistico.

La città di Salerno come morfologia e assetto urbano funzionale rimane nello sfondo, l’attenzione è al territorio provinciale e alla ricerca di quelle componenti inedite, anche perché prima poco studiate, che stanno determinando il cambiamento dell’assetto alla scala vasta.

Emerge, così, una Campania insolita che non trova al suo centro Napoli ma la sua parte meridionale ove si collocano problemi ambientali e insediativi singolari: delicatezza e fragilità dell’ambiente fisico rispetto ai consistenti valori paesaggistici, identità in pericolo di ambienti urbani che sono entrati a far parte di un complesso sistema metropolitano (che si esprime in forme diverse nella contiguità con l’area napoletana, la formazione in nuce di una conurbazione con Avellino e l’ambiente ancora prevalentemente naturale della sua parte meridionale verso Polla, Sala Consilina e il Cilento), incertezza nel mantenimento di ruoli funzionali consolidati nei confronti di buona parte del Mezzogiorno continentale (il sistema autostradale ha modificato il ruolo di Salerno, prima storica stazione di posta della strada delle Calabrie verso il nord).

Questi caratteri di contesto sono stati posti al centro delle elaborazioni della rivista in una dimensione difficile che avrebbe potuto rappresentare per gli stessi redattori un boomerang e che invece sta dando, almeno ritengo, frutti positivi: la difficoltà sta nell’essere espressione di una università giovane (quale è la facoltà di Ingegneria) ancora poco ancorata al proprio territorio e nel costituire per la pubblicazione un sodalizio con l’amministrazione provinciale di Salerno.

Non si può rileggere ancora un’adeguata identità di scuola in questa università, come purtroppo avviene in buona parte del Mezzogiorno per le nuove facoltà tecniche. Queste nel complesso sono di istituzione troppo recente per poterla esprimere. In altre aree del paese una tradizione universitaria più consolidata è in grado di determinare un maggiore e continuo interscambio fra docenti e ricercatori con maggiori effetti riverberanti per le nuove sedi (come ad esempio avviene nell’asse padano ove le tre sedi storiche di Torino, Milano e Venezia sono state in grado di sostenere la proliferazione di molte altre sedi determinando una più viva trasferibilità dei saperi tecnici e dove con maggiore facilità si può determinare lo sviluppo di nuovi, autonomi ambiti di ricerca). Di più, nelle università del Mezzogiorno è più difficile il rapporto con gli enti territoriali: ciò non tanto dal punto di vista formale quanto da quello sostanziale: mancano in molte aree adeguate tradizioni di elaborazioni nel campo urbanistico. Il piano, fino agli anni più recenti, è stato spesso più dichiarato che sviluppato e, soprattutto, non è stato attuato e non si è arricchito di quei contenuti che solo una prassi consolidata può alimentare. Le ricerche che è in grado di svolgere l’università risentono di questa difficoltà e, spesso, nei risultati mi sembrano più l’espressione della volontà di cominciare a incidere su istituzioni inerti e poco attente ai temi urbanistici che contributi scientifici in grado di produrre esiti positivi e incrementali.

In questo quadro mi sembra assuma valore maggiore anche la collaborazione instaurata tra università e amministrazione provinciale di Salerno per lo sviluppo della rivista. Sfogliando altre riviste prodotte da enti territoriali, belle e costose nell’impaginato e nelle illustrazioni, è evidente il condizionamento che gli stessi esercitano inevitabilmente per interessi elettorali, diretti o indiretti, o forse anche per ignoranza e inadeguatezza culturale. In questo clima e con cattive interpretazioni del senso e dei modi della comunicazione è difficile che riviste di questo tipo possano garantire un’adeguata autonomia di linea.

Ciò che sta avvenendo per areAVasta è invece indicativo del diverso proficuo rapporto che si può determinare tra enti territoriali e università: da una parte si è favorita la crescita di uno spazio culturale sull’operatività urbanistica utile per le amministrazioni locali e territoriali, dall’altra si è consentito un approfondimento teorico ricco di contributi esterni e che non dalla valutazione critica delle situazioni d contesto. È il caso di osservare e seguire con attenzione questa collaborazione, augurandosi che essa possa continuare e accrescersi di contenuti anche in futuro.

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Il secondo tema: conservazione/trasformazione del paesaggio e turismo

 

Questo numero ha al suo centro l’ambiente e i processi di piano che attorno a questo tema si stanno costruendo con una certa difficoltà nel nostro paese. Beni ambientali, paesaggio naturale e antropico, mitigazione dei rischi, conservazione sono perciò le parole chiave che ne hanno indirizzato la costruzione e che sono oggetto di riflessione nell’editoriale di Roberto Gerundo.

L’ansia è quella di garantire la protezione dell’ambiente dai rischi di manomissione, di deterioramento, di crisi fisica, di perdita di valori nei confronti di politiche che favoriscono un uso più indiscriminato e incosciente. Ci si sofferma in particolare sul paesaggio oggetto, proprio in questi ultimi anni, da una parte, di nuovi riconoscimenti delle sue peculiarità, dall’altra, come nel caso della legge sui beni culturali appena approvata, di una sorta di disconoscimento del suo valore pubblico.

Sotto il profilo teorico sul tema del paesaggio vi sono ormai adeguati approfondimenti. Si è colto il valore che esso ricopre non tanto come porzione territoriale singolare e preziosa per le sue peculiarità quanto come substrato della composizione ambientale e insediativa. È cioè la parte costitutiva del sistema nel quale viviamo e che ci garantisce non solo della sua memoria ma anche della sua continuità e delle sue prospettive. Rispetto a questa importante interpretazione tuttavia non mi sembra che a livello urbanistico siano state svolte adeguate valutazioni: i termini memoria, continuità, prospettive ci appaiono distinti fra loro in un processo logico che tende a contrapporli l’uno all’altro e non a fonderli per costruire una diversa razionalità dell’intervento. Rimane un atteggiamento dicotomico nei confronti del rapporto tra la conservazione e la trasformazione del territorio che spesso si limita alla facies del paesaggio ma non ne è in grado di mutuarne le nuove premesse sociali ed economiche, anzi sembra rifletterle per quanto il passato ci ha saputo conferire.

C’è da comprendere di più e meglio il rapporto tra individuale e collettivo, tra pubblico e privato alla luce delle nuove condizioni di vita e delle nuove domande.

La critica, spesso aspra, sul degrado del paesaggio del nostro paese che svolgono ormai da molti anni gli urbanisti più sensibili è ormai fatta propria anche a livello soggettivo da un universo di soggetti: il miglioramento delle condizioni di vita, l’avvento di nuove prospettive della conoscenza hanno reso tutti più coscienti della stupidità di quanto si è saputo realizzare finora e del malessere che ne è conseguito. Tuttavia questa presa di coscienza non si è oggettivata né è divenuta condizione collettiva; nei comportamenti prevalgono, come prima, gli interessi individuali verso la diffusione insediativa e l’incuria ambientale semmai mitigati da un certo gusto forse un po’ più raffinato che caratterizza l’utenza. Occorrerebbe chiedersi di più perché ciò continui ad avvenire.

Questa condizione si riflette anche sul rapporto tra pubblico e privato; la difesa del primo nei confronti del secondo per quanto riguarda i valori ambientali è senz’altro legittima. I timori di un cattivo uso di risorse così importanti, se queste sono troppo facilmente lasciate in mano privata, altrettanto. Eppure di fronte alla nuova legge sui beni culturali non mi sembra che vi sia stata un’adeguata capacità di interpretazione delle nuove condizioni entro le quali ci si stava muovendo a parte pochi illuminati interventi di origine e natura fra loro differenti.

Si impone su questo tema un ragionamento che sfugge alla rapidità di un intervento nell’ambito di un forum come il nostro e che avrebbe bisogno di un più adeguato sviluppo e approfondimento.

Ritengo, però, che oggi per essere più incisivi nelle valutazioni di merito, prima di formulare giudizi aprioristici sulle categorie del pubblico e del privato in un settore così delicato come l’ambiente e il paesaggio, dovremmo essere in grado di capire di più il senso del cambiamento sociale in atto; dovremmo estendere la nostra riflessione su campi come quello antropologico, dei comportamenti sociali e individuali e operare con maggiore attenzione al loro interno. Dovremmo capire quanto può essere affidato alla responsabilità individuale (e al contrario alla maturazione collettiva su questa problematica) e quanto può essere guidato da più attenti processi di definizione del piano se questo ci può, come credo, ancora aiutare. La difesa dei nostri valori non può essere affidata solo a regole e norme ma assume un suo significato se diviene un fatto culturale di traino della nostra società.

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Il paesaggio operoso cui ha fatto riferimento Roberto Gerundo non può essere riguardato né in modo statico né in forma regressiva. Forse per comprendere come operare occorrerebbe ripartire dalle categorie che, ormai molti anni fa, ci proponeva attraverso la sua lettura del paesaggio agrario italiano Emilio Sereni. La trasformazione del paesaggio per Sereni era il risultato di una stratificazione del lavoro sulla terra, la diversificazione fra ambienti quello della specificità de legami culturali che presentava ogni area rispetto alle relazioni e ai caratteri produttivi. Sono queste le chiavi per comprendere anche le odierne trasformazioni ambientali? Se sì come credo, prima di formulare giudizi occorrerebbe comprendere a partire dai meccanismi produttivi e comportamentali il senso profondo delle dissennate trasformazioni ambientali cui assistiamo quotidianamente.

Non certo per accettarle supinamente, ma per comprendere di più per agire più correttamente.

La seconda residenza che copre e deturpa ampie fasce costiere ne è una delle testimonianze più evidenti. E su questo tema, senza voler pensare alle analisi specialistiche, non ci sono forse estesi e ricorrenti riferimenti letterari? Nel suo “Giardino dei ciliegi” Cechov mette al centro nel dialogo tra il mercante Lopachin e l’aristocratica Lijubov proprio il cambiamento del valore della terra: è la lottizzazione della proprietà agraria a divenire fattore di produzione di reddito2. Calvino apre il suo romanzo “La speculazione edilizia” raccontando il fastidio del protagonista, Quinto, nel ritornare periodicamente sulla costiera ligure e vederla alterata profondamente dalle nuove costruzioni3.

In ognuno di questi esempi è il cambiamento della società al centro dell’attenzione con analisi impietose ma realistiche. Lo zoning attraverso cui l’urbanistica ha cercato di definire dei confini possibili per le trasformazioni urbane si è rivelato inadeguato. Utile nell’apparenza per limitare processi di urbanizzazione indefinita, ci ha dato tra i risultati negativi quello di aver perduto il senso della progettualità urbana, di averci fatto perdere il senso dello spazio, della strada così come del rapporto con il paesaggio circostante. D’altra parte, si è assistito allo sviluppo di politiche ambientali e di riduzione dei rischi nelle quali però sono state privilegiate soprattutto forme di intervento settoriali. Il valore ambientale della Calabria si basa in gran parte sulle relazioni monte-valle la cui massima manifestazione è costituita dalle fiumare, corsi d’acqua irregolari che incidono il territorio ed hanno storicamente caratterizzato il sistema insediativo; finora si è osservata un’eccessiva segmentazione degli interventi di consolidamento degli argini e degli stessi insediamenti così come di quelli relativi alla difesa idrogeologica o alla riduzione del rischio sismico.

In questi anni mi sono occupato spesso delle relazioni fra turismo, tempo libero e città, un ambito poco familiare e forse poco amato dalla disciplina urbanistica: l’ho fatto volentieri anche perché si è trattato di un esercizio di analisi ambientale e di esperienza progettuale che mi ha consentito di rileggere le tradizionali categorie urbanistiche della costruzione urbana in chiave del tutto differente. Gli stessi temi affrontati nel numero di areAVasta in discussione nel forum possono trovare altre chiavi interpretative.

Ne suggerisco alcune in forma didascalica seguendo gli appunti presi durante la lettura della rivista.

Alla città dei cittadini si affianca ormai per numerosità di soggetti presenti una città dei turisti con proprie logiche inedite di uso e fruizione degli spazi urbani: ma non si tratta di un corpo esterno alla città a vivere la dimensione turistica; il consumo di tempo libero (un tempo liberato dal lavoro secondo le affermazioni di molti sociologi) è infatti condizione troppo diffusa per essere sottovalutata. Ne condiziona gli aspetti ludici della nostra vita di relazione, ma anche quelli culturali e interviene nel definirne la nostra quotidianità.

Il turismo non è solo una grande impresa, è un ciclo produttivo complesso che si alimenta del paesaggio e dei suoi valori per crescere ma si esprime attraverso un circolo vizioso che tende a distruggere l’uno e gli altri per sopravvivere.

È il frutto moderno della globalizzazione, dell’iperreale4 ma i suoi utenti vanno anche alla ricerca dell’anima dei luoghi, per richiamare il titolo del recente saggio di Hillman5.

Più in generale l’estendersi dell’importanza del turismo incide sulle trame viarie che ancora caratterizzano le morfologie urbane e il territorio, sui nuovi segni dell’architettura perché gli stessi possano diventare elementi di attrazione (nuovi simboli per ciò che rappresenta il nostro bisogno di up to date), sulla trasformazione in luoghi dei cosiddetti non luoghi delle grandi attrezzature infrastrutturali.

Incide direttamente e indirettamente sui molteplici ruoli che sembrano assumere le reti territoriali e gli stessi nodi (le grandi metropoli non sono forse oggetto di naturale richiamo turistico?).

Paradossalmente è il turismo che oggi sembra consentire di attribuire nuovi valori al paesaggio (in quanto vissuto6 e direttamente fruito, indirettamente percepito attraverso i mass media, riguardato attraverso i simboli che riesce a trasmettere o semplicemente immaginato7 ed evocato) ed è per suo tramite che se ne potrà forse provvedere alla sua conservazione8.

C’è però un certo timore a legare il tema del paesaggio al turismo e al tempo libero; sembra quasi si abbia paura di infangare il valore intangibile della natura e della storia con il suo uso spregiudicato.

C’è invece molto da lavorare in questa direzione e soprattutto c’è bisogno di comprendere ragioni e limiti di questo complesso ciclo produttivo per evitare pericolose ignoranze dei problemi che comporta lo sviluppo turistico o, peggio, continuare a operare sulla base di troppo facili slogan sia tese alla conservazione che alla cosiddetta valorizzazione ambientale.

Se ne potrebbe fare oggetto di un prossimo numero di areAVasta; in fondo il lungomare di Salerno e la costiera amalfitana con le loro evocazioni buone e cattive - la promenade che spazia sull’infinito del mare, Ravello e il Fuenti - incombono e condizionano le nostre fantasie.

 

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Note

 

1 Si veda “La Repubblica” dell’8 aprile 2004.

2 Afferma il mercante: “fino ad ora in campagna ci sono stati solo padroni e contadini, adesso hanno fatto la comparsa anche i villeggianti. Tutte le città anche le più piccole sono ora circondate da villini. E si può essere certi che tra vent’anni i villeggianti saranno cresciuti in modo incredibile”. Cfr. Cechov Anton (1966), Il giardino dei ciliegi, in “Racconti e teatro”, Sansoni, Firenze. Sull’argomento, che mi ha suggerito la citazione, si sofferma Melo Freni (2004) nel suo saggio Al limite della ragione, Rai Eri, Roma.

3 Cfr. Calvino Italo (1963), La speculazione edilizia, Einaudi, Torino e in Romanzi e racconti, Mondadori, I meridiani, Milano (1991).

4 Cfr. Memo Mara (1997), Parco tematico. Iperreale fantastico commerciale walt disney of course!, in “Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico”, Costa&Nolan, Genova.

5 Cfr. Hillman James (2004), L’anima dei luoghi, Rizzoli, Milano.

6 Sono molto numerose le testimonianze di viaggiatori dell’oggi. A parte la meno recente citazione di Benjamin sul “perdersi nella città”, mi piace ricordare le riflessioni di viaggio di Giacomo Corna Pellegrini.

Cfr. Corna Pellegrini Giacomo (1999), Conoscersi viaggiando, Meltemi, Roma; dello stesso autore la trattazione contenuta in Geografia come desiderio, Unicopli, Milano (1998).

7 Come racconta Leonardo Sciascia, Stendhal parlò della Sicilia, ne narrò i luoghi, la natura, i paesaggi senza esserci mai andato. Cfr. Sciascia Leonardo (1984), Stendhal e la Sicilia, Sellerio, Palermo.

Gran parte delle stampe e dei dipinti cinquecenteschi dello Stretto di Messina sono solo evocazioni di una stampa di Bruegel il Vecchio. Cfr. Vallese Gloria (a cura di) (1979), Virtù, vizi e follia nell’opera di Bruegel il Vecchio, Gabriele Mazzotta, Milano.

8 Cfr. Jacob Michael (2004), L’émergence du paysage, Infolio, Dijon.

 

 

4

 

 

Giorgio Pizziolo

 

Vorrei iniziare il mio intervento, prendendo avvio da alcune osservazioni sulla rivista.

La rivista, secondo me, è molto interessante perché è diversa da tutte le altre riviste di architettura, di urbanistica, o anche di paesaggio, le quali risultano oggi generalmente quasi tutte impostate come riviste orientate, che espongono cioè una posizione precostituita da parte della redazione, cercando di portare, per così dire, acqua a quel mulino.

Questa rivista, invece, è fatta in un altro modo perché chiama voci diverse a confrontarsi tra loro.

In questo numero, per esempio, l’intervento di Salzano sulla laguna di Venezia e quello di Francesco Indovina mostrano già una bella differenza tra di loro. Se poi, prendiamo in considerazione gli interventi di Virgilio e di Mariolina Besio sulle Cinque Terre, riscontriamo, rispetto ai precedenti autori, delle impostazioni quasi opposte. È però interessante che nella rivista tutte queste impostazioni risultino tutte presenti, e che siano rapidamente accostate e comparabili, perché questo consente a chiunque di noi di poter fare paragoni e confronti, può consentire inoltre un dibattito civile tra gli amministratori, e infine consente una maturazione generale sotto il profilo culturale.

In questa logica vorrei fare riferimento ad un altro articolo della rivista che mi ha colpito, e che è quello di Valerio Palazzo, dal titolo “Ecosistemi urbano e agricolo: un’ibridazione possibile?” L’articolo si conclude affermando che l’ibridazione è possibile, anzi auspicabile, anche se gli esempi adottati da Palazzo, muovono tutti in una direzione: è l’ecosistema urbano che conquista quello agricolo.

Mi sembra interessante estendere il ragionamento e valutare se esista, anche, o invece, una possibilità di ibridazione nel senso opposto, del rurale che vada a permeare la città e che la informi in tal senso, anche perché finora, di casi orientati in una tale direzione vi sono solo pochissimi esempi, forse soltanto 2 o 3 esempi storici.

Il caso più noto è quello dei bellissimi progetti che Scharoun aveva prodotto per la ricostruzione di Berlino nei quali, di fatto, i tessuti del parco e del paesaggio non solo entrano nella città, ma ne divengono la struttura portante, praticamente incorporando l’urbano al loro interno, tanto è vero che l’autore aveva chiamato quel suo intervento città-paesaggio, ipotesi estremamente interessante e innovativa, ma assai sottovalutata (all’est come all’ovest).

Per non parlare delle riflessioni di Bruno Taut sulla dissoluzione della città.

In effetti, oggi, il continuum metropolitano, quello che anche Cacciari chiama la città infinita, è in realtà costituito non solo dall’edificato, ma anche da tutta una serie di vuoti. Si pensi alla foto dal satellite che fa da sfondo al Tg1, dove si vedono illuminate tutte le città importanti e tutte le aree metropolitane e, in nero, l’area agricola, la struttura territoriale.

Ad un certo punto può darsi che si possa pensare che quel nero sia interessante e importante; anzi, potrebbe divenire un fattore di grande valore ripensandolo, per esempio, in termini di bio-regione, dove il contesto nero potrebbe divenire il supporto fondamentale e fondativi della struttura della città.

Per affrontare concretamente queste tematiche e coglierne la stringente attualità, vorrei ricordare che fin dal 2000 è operante, in Europa, la Convenzione europea del paesaggio, un documento estremamente interessante che, a mio avviso, modifica radicalmente la maniera di concepire il paesaggio. L’art. 1 della Convenzione, infatti, definisce il paesaggio come “… una parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, i cui caratteri discendono da azioni naturali e umane e dalle loro interrelazioni”. Si tratta, quindi, di una idea nuova di paesaggio, diversa da quella che noi siamo abituati a considerare, e ciò per più motivi.

In primo luogo la Convenzione introduce ad una visione dinamica del paesaggio stesso, una dinamica peraltro molto particolare.

Infatti, il gioco delle relazioni e interrelazioni, alle quali la convenzione fa esplicito riferimento, porta ad una lettura complessa del divenire paesistico, poiché le dinamiche della natura e le dinamiche della società sono tra loro completamente diverse, pur all’interno dello stesso fenomeno.

Ci troviamo così di fronte ad un fenomeno che ha 2 tempi e 2 modi diversi di muoversi al proprio interno (2 ritmi), e questa è la considerazione preliminare da prendere in esame sotto questo profilo.

È come se, facendo riferimento al campo musicale, ci trovassimo di fronte ad uno di quei rarissimi casi di una musica che ha contemporaneamente 2 tempi dentro il suo svolgimento.

Pochissimi sono i casi di questo genere: c’è qualche passaggio famoso di Mozart, c’è qualche improvvisazione di Jazz e forse qualche altro caso di musica non occidentale in cui ritroviamo 2 o più tempi completamente diversi che si intrecciano tra di loro. Il paesaggio è un fenomeno temporale assai simile a questo tipo di fenomeni musicali ed è difficilissimo, pertanto, esaminarlo sotto questi suoi profili della temporalità interagente, del cambiamento reciproco e dei ritmi contemporanei e diversi della trasformazione. Al tempo stesso, il paesaggio si può anche considerarlo un accadimento temporale di grande rilevanza, in continuo divenire e tale che potrebbe diventare, alternativamente, o un fenomeno che può risultare discontinuo, pieno di contraddizioni, incontrollabile, oppure che potrebbe risultare un evento stocasticamente evolutivo.

La questione è aperta. Molto può dipendere da come riusciamo a intrecciare e a correlare i fenomeni, e i loro tempi e ritmi tra di loro.

Un secondo aspetto che emerge dalla Convenzione è che ci troviamo di fronte ad una manifestazione della complessità, dal momento che entro il fenomeno paesaggio convergono realtà e aspetti tra loro completamente diversi, a cominciare dal territorio, con i suoi assetti materiali, fisici, strutturali, per passare alle sue trasformazioni naturali e alle problematiche ambientali, e quindi alle sue trasformazioni culturali, storiche, artistiche, del lavoro umano, tutti fenomeni ai quali si aggiunge poi l’elemento di maggiore novità, “la percezione che ne hanno le popolazioni”.

Teniamo conto che quest’ultimo riferimento è al plurale: si parla di popolazioni e non di popolazione, espressione che rimanderebbe alla popolazione residente, mentre parlando di popolazioni ci si riferisce a tutte le persone che entrano in rapporto con quel contesto e con quelle dinamiche alle quali abbiamo prima fatto cenno.

Dunque, la Convenzione europea del paesaggio introduce un’idea nuova di paesaggio, quella di paesaggio come fenomeno sociale, con inoltre un esplicito riferimento all’idea di una percezione sociale del paesaggio. Su questo tipo di conclusioni, in ambiente europeo (assai meno in quello italiano), non ci sono dubbi.

E qui si apre la terza considerazione: una questione che nella Convenzione è accennata ma che non è esplicitamente detta, anche se ad essa si fa più volte rimando. Si tratta della considerazione che la percezione sociale del paesaggio non è la semplice rilevazione, magari statistica, dei diversi punti di vista dei singoli ma è una comparazione sociale dei molteplici approcci, attivando un processo di apprendimento conoscitivo, corale e partecipato, fino a individuare valori paesistici comuni e condivisi.

A questa conclusione siamo arrivati, insieme con un gruppo di ricercatori e di sperimentatori che, a vari livelli, stanno lavorando da 2 o 3 anni ad una applicazione sperimentale della Convenzione europea.

Durante questa attività, in un primo momento, appariva evidente come lo stesso luogo poteva essere visto in modo profondamente diverso da generazioni diverse della stessa popolazione: gli anziani, i giovani, le persone di 50 anni, i giovanissimi. Non solo, ma possiamo immaginare come possa essere visto in maniera ulteriormente differenziata da popolazioni diverse.

Si può fare l’esempio di una qualunque zona d’Italia, per esempio il Chianti, un territorio da tutti conosciuto. Questa zona della Toscana notoriamente è, per così dire, invasa da una popolazione nord-europea che ha acquistato le case, e che spesso inoltre coltiva anche i terreni. Ci sono una serie di persone provenienti dalla Germania, dall’Olanda, dall’Inghilterra che vengono a vivere stagionalmente in quel territorio e che hanno una loro legittima visione di quei luoghi, più o meno romantica o letteraria, comunque molto diversa da quella, altrettanto legittima, degli abitanti. Pensiamo anche, contemporaneamente, alla visione che ne può avere un vendemmiatore o un raccoglitore di olive esterno ai luoghi, magari nordafricano. Anche lui ha la sua visione di questo territorio. E la visione di una persona non è più importante di quella di un’altra. Almeno, a me, sembrerebbe così. Quindi, possono darsi visioni completamente diverse dello stesso contesto e possono aversi letture differenti di ogni paesaggio, con analisi bloccate nella più totale relativizzazione.

Abbiamo allora rilevato nelle nostre esperienze di ricerca/azione sul paesaggio come ambiente di vita che una lettura di percezione sociale del paesaggio non può limitarsi alla raccolta delle percezioni individuali ma che occorre aprire dei percorsi iterati di dialogo con le persone, non solo rilevando la loro percezione istantanea, ma piuttosto stabilendo con loro un rapporto prolungato per arrivare progressivamente a discutere di quali possono essere i significati che loro attribuiscono al loro luogo di vita (paesaggio) e quindi arrivare a individuare i valori del paesaggio che possono essere condivisi o comunque a individuare valori, magari anche contrapposti, ma comunque ben identificati.

In questo senso, allora, il passo successivo è quello di poter cominciare a pensare anche a delle ipotesi di intervento condivise, di trasformazione ragionata, di trasformazione che passa attraverso le dinamiche sociali.

In un tale quadro, anche tutta l’annosa tormentata questione del vincolo, della difesa del paesaggio, e di tutta un’altra serie di elementi di protezione, probabilmente si sposta perché una cosa è vincolare secondo una cultura dominante, un’altra cosa è quella di arrivare ad una percezione condivisa dei valori del paesaggio, verificati scientificamente e quindi garantiti nella loro salvaguardia e sostenibilità.

Ecco che allora si potrebbe aprire una nuova dimensione della pianificazione paesistica perché in questa maniera si riuscirebbe progressivamente a mettere in moto delle situazioni dove la pianificazione diventa più una struttura di processi, di apprendimento e di trasformazione condivisa, che non un meccanismo di piani, vincoli, imposizioni, norme, anche per la produzione di piani strategici, di piani strutturali e altro.

Direi che in questo modo potremmo arrivare ad una idea di paesaggio in termini di una cultura post-moderna e forse possiamo anche immaginare che in fin dei conti il paesaggio non sia niente altro che la rappresentazione che una società si dà del suo rapporto con il contesto e con la natura.

Se noi lo concepiamo in questo modo, allora vediamo che nel tempo e in altre culture ci sono state tantissime modalità di rappresentare questo rapporto.

Ad esempio la cultura dell’antica Grecia impostava questo rapporto in maniera sacralizzata ma contemporaneamente attraverso un certo tipo di interpretazione: il mito.

La cultura di tipo medievale, che poi è rimasta una radicata tradizione nelle nostre campagne, sacralizza il territorio e ne fa un oggetto rituale, letto in una chiave ritmica stagionale.

Il concetto di paesaggio in quanto tale è un concetto storicamente definito. Parte, come è noto, da Petrarca e Lorenzetti e arriva ai giorni nostri, potremmo dire a ieri l’altro.

Diverso è il concetto del rapporto uomo/ambiente e della sua rappresentazione che è proprio di altri popoli e di altre culture, ad esempio del popolo cinese. Nella lingua di questo popolo non c’è la parola paesaggio ma esiste comunque un rapporto intensissimo, tra società e ambiente. Tutta l’impostazione taoista e buddista comporta una visione del mondo straordinariamente intensa nel senso di questo rapporto e non potremmo certo dire che l’esperienza di questo rapporto tra quella società e l’ambiente sia stato inferiore a quello occidentale. Basta considerare quanto la pittura di paesaggio cinese sia straordinaria e non si può certo affermare che quella esperienza artistica sia inferiore alla nostra. Direi al contrario che essa è addirittura più complessa.

Si tenga conto, per esempio, che un quadro della tradizione cinese era una struttura comunicativa che non solo si vedeva ma che anche si recitava e si cantava, era una sintesi di arti che esprimevano questo rapporto profondo tra l’uomo e il suo ambiente di vita.

Vogliamo dire che questa modalità di espressione paesistica è inferiore alla nostra? Direi di no. Come non mi sembrerebbe di dire che è inferiore alla nostra, per esempio, l’esperienza degli aborigeni australiani che, come si sa dal libro di Chattwin, hanno un rapporto intenso con il luogo che passa attraverso le vie dei canti, il loro spostamento sul territorio, le grandi raffigurazioni parietali sulle pareti rocciose dell’Australia, con un paesaggio come arte di rapportarsi ai luoghi e di comunicarli, con modalità che sono ancora utilizzate attivamente.

È questo, allora, lo straordinario: questo fare paesaggio non è una cosa, per così dire, dell’antichità dell’uomo, è una cosa attuale, ed è questo che è fantastico.

A questo punto, allora, credo che ci troviamo in questi anni ad un nuovo passaggio storico, ad una nuova tappa epocale, per cui il nuovo modello di manifestazione del rapporto uomo/ambiente che viene proposto all’Europa è quello di assumere il paesaggio come fenomeno sociale, come fenomeno sociale e partecipativo, dove si attribuisce al paesaggio un ruolo attivo tra popolazione/ cultura degli esperti/ amministratori verso la definizione progressiva di un progetto generale che adotti nuove modalità procedurali e nuove pratiche come, ad esempio, il riferimento ad Agenda 21, che può divenire una struttura veramente viva sul territorio con un apporto intenso da parte delle popolazioni e con una partecipazione reale, non quella formale del consenso ma con una vera partecipazione effettiva.

Ecco che allora potremmo avere di fronte un quadro veramente nuovo: le nuove prospettive per il paesaggio d’Italia devono, a mio parere, passare per questa dimensione europea perché altrimenti si continua a girare sui nostri argomenti stantii e, ancora una volta, si rischia di ritrovarsi molto provinciali.

 

 

Le fotografie 1, 2, 3 e 4 rappresentano rispettivamente il progetto The World costituito da 250 isole artificiali che riproducono la forma dei cinque continenti; l’albergo Burj Al Arab; l’isola artificiale di Palm Jebel Ali e un suo particolare, a Dubai negli Emirati Arabi Uniti.

 

 

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