Numero 6/7 - 2003

 

la seconda conferenza nazionale del territorio  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il fattore territorio nello sviluppo solidale


Francesco Domenico Moccia


 

La seconda conferenza nazionale del territorio, svoltasi a Caserta dal 12 al 14 giugno 2003 per iniziativa del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, ha affrontato, tra gli altri, il tema della “coesione e competitività” nell'assetto e sviluppo del territorio. Francesco Domenico Moccia, che ha curato per conto dell'Inu l'organizzazione della sessione di approfondimento, ne sintetizza i principali contenuti e ne commenta gli esiti

 

 

 

 

La sessione tematica coesione e competizione ha funzionato da catalizzatore rispetto alle altre forse per il motivo che risultava quella in cui si condensava maggiormente la discussione sugli obiettivi a cui bisognerà tendere in questa contingenza economica e politica. Inevitabilmente, nel parlare di quegli argomenti, si viene proiettati nella dimensione europea e nelle svolte cruciali che attraversa con l’allargamento e la nuova costituzione, i cui effetti si riversano sui programmi dell’Unione, come i Fondi strutturali. Ipotizzando che gran parte del Mezzogiorno non esca dall’Obiettivo 1, la riforma a cui si lavora richiede una messa a punto di indirizzi per il futuro che comunque può migliorare le nostre azioni di sviluppo. Non potendo presentare un resoconto esaustivo delle relazioni tenute, ho colto alcuni spunti di riflessione che, partendo da definizioni di base, possano portarci ad indicazioni di linee di lavoro fertili.

L’immediata contraddittorietà dei termini coesione e competizione induce ad esercizi, non solo lessicali, di interpretazione che superino l’immediata evidenza della loro inconciliabilità. L’aver adottato queste parole d’ordine nella politica europea di sviluppo regionale, ha attirato le critiche di incoerenza da parte degli studiosi. È evidente che la competizione è indispensabile per sostenere i ritmi di sviluppo dell’Unione, ma non si può negare che genera squilibri: come conciliarla, quindi, con la coesione?

Alla Conferenza nazionale del territorio, i due relatori ufficiali hanno dato risposte diverse a questa fondamentale domanda, da cui possono derivare implicazioni importanti per la pianificazione dello sviluppo.

Alla coesione, Lanfranco Senn1, ha attribuito la funzione redistributiva, propria delle politiche pubbliche, capace di compensare i fallimenti del mercato. In presenza di risorse ed opportunità scarse, risulta inevitabile che lo sviluppo di alcune aree avvenga con velocità diversa rispetto ad altre, in un regime di competizione in cui si registrano premi tangibili per le regioni di successo, come ricompensa dei loro sforzi e capacità, rispetto a regioni svantaggiate o dalle performances meno efficaci, simmetricamente penalizzate da inferiori livelli di benessere. Questa dinamica competitiva genera squilibri che potrebbero essere generatori di conflitti se non intervenissero politiche di coesione territoriale con l’intento di ridurre le differenze nella distribuzione dei redditi nello spazio.

Poiché entrano in gioco le risorse, ricavate con la tassazione ed impiegate attraverso una gamma molto differenziata di allocazione, è inevitabile che su queste scelte si formino diversi schieramenti, portatori anche di gruppi di interessi, direttamente coinvolti tanto nella fase negativa di prelievo finanziario che in quella di aiuti e di facilitazioni. La polarizzazione tra i due termini coesione e competizione è giunta così, sotto la spinta di tali interessi, fino alla convinzione della loro inconciliabilità ed ha portato allo scontro - secondo Senn di natura ideologica - tra efficientisti e solidaristi schierati rispettivamente sulla competitività o sulla coesione quali indirizzi esclusivi per la migliore politica di sviluppo. Per i primi, gli aiuti alle regioni in ritardo di sviluppo sono solo fondi sprecati perché inevitabilmente risolti nell’alimentazione di un assistenzialismo parassitario, nel mantenere in vita imprese inefficienti impedendo, nel contempo, la creazione delle condizioni per la nascita di nuove e migliori. Per i secondi le regioni prospere si avvantaggiano di condizioni più favorevoli di partenza per mantenere in posizione subordinata e dipendente le regioni meno sviluppate, impedendo che vengano efficientemente valorizzate le risorse in esse presenti - un vero e proprio spreco di potenziali economici in assoluto - per condurre a migliori condizioni di vita ed alla parità dei diritti di cittadinanza tra gli abitanti di tutta la nazione.

Se oggi possiamo registrare una qualche opinione condivisa forse dobbiamo limitarci a quelle negative come l’idea che la politica di coesione europea non può essere considerata come la compensazione data alle nazioni ed alle regioni deboli per compensarli dell’apertura dei mercati e, quindi, della perduta protezione nazionale, come recita anche il Secondo Memorandum Italiano sulla riforma della politica regionale di coesione comunitaria2.

Massimo Lo Cicero si pone, invece, in una prospettiva aziendale dalla quale cerca di evidenziare un coerente legame tra la competizione e la coesione. Egli li presenta come le due facce della stessa medaglia: al pari di ogni vivente, imprese o gruppi hanno una duplice esigenza, quella di essere coesi al loro interno per competere verso l’esterno. In questi termini, appare evidente la complementarietà dei due termini poiché il rafforzamento della coesione può essere funzionale alla competizione. È pur vero che la condizione di equilibrio è quella che determina i migliori risultati dato che l’eccedere in coesione porta ai regimi monopolistici che per la loro inefficienza diventano autodistruttivi, così come la degenerazione della competizione frammenta il sistema in unità minime altamente conflittuali fino a diventare autodistruttivo. Quanto osservato per l’impresa si può estendere alla città ed al territorio, con l’avvertenza che la collaborazione è condizionata dai costi di transazione e dagli effetti sinergici. I primi determinano le condizioni di convenienza economica delle scelte tra internalizzazione o esternalizzazione - rispetto all’azienda - dei processi produttivi: se la gestione delle operazioni avviene a costi (di transazione) più bassi all’interno di una struttura gerarchica unificata - l’azienda - oppure se è più conveniente ricorrere al mercato. Allo stesso modo sarà invogliato a realizzare alleanze, costruire partnership chi troverà, come risultato degli sforzi congiunti, un valore superiore alla somma degli apporti individuali.

Sembrerebbero due approcci la cui differenza consiste nella previsione o meno del soggetto pubblico e delle sue politiche. Nella visione di Senn, questo attore svolge la funzione di rimediare ai fallimenti del mercato, sanando, ad esempio, gli squilibri regionali, negativi tanto per la convivenza civile che per il percorso di sviluppo, come abbiamo appena detto. Questo attore è assente nella visione di Lo Cicero. Sulla sua scena si muovono solamente individui, organizzazioni, città. Essa è popolata di attori economici razionali. Come vedremo in seguito, egli individua dei limiti alla loro azione e delimita ciò che va oltre la portata di questo settore privato, il campo di intervento dello Stato. Ciò non toglie però che tali individui siano dediti a fare piani per se stessi ed a unirsi in azioni collettive quando ciò diventa indispensabile a raggiungere i propri scopi o ne facilità ed ottimizza il perseguimento. Potremmo anche chiamare queste azioni di mutuo aggiustamento una micropolitica di coesione territoriale, la quale obbedisce alle leggi di costi di transazione e di sinergia appena citate e, quindi, seguendo Lindblom, non ha bisogno della pianificazione come dell’intervento dello Stato. Ma il riconoscimento di tale modalità di funzionamento dell’economia deve implicare necessariamente la conclusione di lasciar fare o può essere, invece, un insegnamento per costruire programmi più adeguati e corrispondenti all’andamento spontaneo dei comportamenti degli attori economici per facilitare, sostener ed accelerare questi processi, specialmente nelle regioni in ritardo di sviluppo?

La risposta positiva a questa domanda implica che è possibile aggiungere alle politiche redistributive per il riequilibrio regionale, richiamate da Senn, politiche di autosviluppo locale3. Con queste precisazioni, non abbiamo legittimato i piani di sviluppo locale una volta per tutte, né data una soluzione definitiva al dibattito che coinvolge tanti punti specifici dei programmi per il riequilibrio regionale e la loro attuazione, quali i Patti territoriali o i Fondi strutturali. Quella appena tracciata può essere comunque la chiarificazione di un approccio che propone un determinato equilibrio del ruolo delle imprese e dello Stato, che esplora un terreno intermedio tra l’estremo liberismo del rifiuto di ogni forma di incentivazione se non di tipo automatico (Rossi) ed il dirigismo statalista di una pianificazione dall’alto sulla base di bisogni teorici, senza la mobilitazione degli attori, o peggio nella coltivazione di clientele elettorali parassitarie.

Questo spazio d’azione consente una pianificazione del territorio in stretto contatto con le esigenze delle imprese, come rimozione degli ostacoli e facilitazione delle condizioni per la costruzione di filiere, riduzione dei costi di transazione4, incoraggiamento alle collaborazioni, insieme al miglioramento delle condizioni esterne all’azienda come fornitura di servizi qualificati e a costi contenuti, miglioramento del mercato del lavoro e delle infrastrutture. Di fatto, una pianificazione di questo tipo - che non fa una netta separazione tra i due settori pubblico e privato - è quella maggiormente innovativa. Essa si propone di istituire un dialogo tra il mondo delle imprese e le istituzioni - specialmente locali - per comprendere meglio i loro problemi e dare loro delle risposte. Ma anche - questione ancora più importante - costruire sistemi locali coesi e perciò altamente competitivi, attraverso la capacità di interazione tra le diverse componenti. Oggi, nella pianificazione, è molto più semplice realizzare questo dialogo in quanto abbiamo avuto, nel settore privato, un rigoglioso sviluppo della pianificazione aziendale, come la pianificazione strategica, la quale è riuscita ad affermarsi anche nel settore pubblico, grazie alla sue radici nella pianificazione razionale ed all’evoluzione che è riuscita a innescare in quel ceppo di comune origine con la pianificazione territoriale. In questo modo siamo giunti non solo ad una uniformità di linguaggi - sebbene non possiamo nasconderci i molti equivoci ancora esistenti - ma anche alla possibilità concreta di costruire arene decisionali comuni in cui si incontrino piani delle imprese tra di loro e, assieme, contribuiscano al piano di una comunità5. Alberto Clementi ha sottolineato, nelle sue conclusioni, l’importanza dell’idea, emersa nel corso della conferenza, che a fondamento della coesione esiste la capacità di interagire, di costruire reti e fare progetti comuni. Ma ha anche avvertito delle difficoltà che si trovano ancora nella resistenza di una cultura urbanistica, ancorata alle sue prassi, ad aprirsi verso l’integrazione con i programmi di sviluppo.

Figura 1 - Logo del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per la seconda Conferenza nazionale del territorio, Caserta 12-14 giugno 2003

Il campo di applicazione dell’intervento pubblico, ribadisce Lo Cicero, è quello che non può, per diverse ragioni, essere trattato dal mercato e dalle imprese: i beni di natura e le infrastrutture. I primi sono disponibili senza prezzo e, quindi, come dimostra il famoso apologo dei pascoli comuni inglesi, sono destinati, seguendo la semplice razionalità dell’azione del privato, ad essere distrutti per eccesso di sfruttamento. Ciò richiede l’intervento dello Stato a protezione della natura come bene comune da trasferire anche alle generazioni successive, da cui discende tutta la politica dello sviluppo sostenibile. In questo campo Maria Prezioso ha portato l’esempio del piano territoriale di coordinamento provinciale di Roma come strumento innovativo per guidare verso la sostenibilità le azioni territoriali ed urbanistiche della provincia in un modello sussidiario di governance, ricavando questo abbinamento tra sussidiarietà e sostenibilità da una acuta rassegna delle politiche territoriali dell’Unione europea.

Le infrastrutture hanno, al contrario, costi troppo elevati per poter essere sostenuti da singole imprese, per giunta in mancanza di criteri certi per determinare il loro rendimento, nel futuro, una volta realizzate. Di qui la sfida intellettuale a controllare e gestire il rischio, così come la predisposizione dei meccanismi capaci di assorbirne le conseguenze negative, ovvero del fallimento dell’investimento. Tradizionalmente è stato lo Stato ad assumersi la responsabilità e gli oneri da ciò derivanti ed inevitabilmente dovrà continuare a farlo sebbene, con i processi di unificazione europea, va cedendo poteri che gli servivano proprio a realizzare questo tipo di manovra. Infatti, con il patto di stabilità, si è introdotta una rigidità di bilancio che impedisce di realizzare la manovra classica di scaricare sull’inflazione i costi derivanti dalle incertezze nella realizzazione di beni pubblici. Ne dovrebbe conseguire che venga trasferito al medesimo livello a cui si è delegato il potere di vincolo di bilancio la responsabilità nei confronti delle dotazioni di beni comuni. Ciò contrasta, tuttavia, con il processo di decentramento che punta ad avvicinare il governo ai cittadini per conoscerne meglio la domanda di beni pubblici.

La soluzione, in termini finanziari, secondo Lo Cicero, è stata trovata con il project financing. Questo funziona come un filtro che assorbe i rischi evitando di trasferirli sul bilancio degli Stati nelle loro conseguenze negative di costi non recuperati dall’esercizio dell’infrastruttura per errori di previsione. Il trasferimento al locale non è sufficiente a ottenere una previsione più accurata del futuro, sebbene riesca a realizzare coalizioni consensuali intorno ad obiettivi condivisi e, quindi, a facilitare le scelte dei beni comuni da realizzare in quanto più desiderabili. Quindi, non bisogna coltivare l’illusione che il consenso sia un surrogato dell’informazione e possa garantire l’efficienza delle opere stabilite.

Nella teoria della pianificazione le preoccupazioni ricordate da Lo Cicero sono oggetto di attenzione da tempo. Avendo come proprio oggetto fondamentale la decisione di azioni future, si è sempre proiettata nell’esplorazione di previsioni e proiezioni, della loro validità e nel miglioramento costante della loro affidabilità. Sebbene abbia dovuto registrare il crollo del mito scientista della perfezione, ciò nonostante ha messo a punto delle tecniche - purtroppo ancora poco conosciute e praticate da noi6 - capaci di gestire le situazioni di incertezza e di rischio nel modo più razionale possibile. Il problema avanzato non è radicalmente risolvibile e progetti di infrastrutture, come di qualsiasi altri tipo di trasformazione del territorio, possono sempre rivelarsi dei fallimenti, ma siamo in grado di ridurre ragionevolmente questi rischi con lo sviluppo delle competenze nel campo della pianificazione, specialmente se questa sensibilità si diffonde all’interno delle istituzioni pubbliche responsabili della gestione del territorio, tanto al livello centrale che locale - dato il decentramento delle decisioni pubbliche. Non bisogna perciò sorprendersi della diffusione della pianificazione strategica e dell’incoraggiamento a questo scopo proveniente dalla Commissione europea.

Le relazioni di Lo Cicero e di Senn convergono, anche con le differenti argomentazioni appena riassunte, verso il sostegno ad un ampio programma infrastrutturale sia come compito specifico dello Stato che come sostegno alla capacità di competizione delle diverse regioni del paese. Come ha chiarito anche la relazione del Ministro Lunari e del Direttore del Dicoter Fontana, il governo è prioritariamente impegnato nella modernizzazione del sistema di trasporti nazionale. Seguendo questa linea va stipulando accordi di programma con le regioni tra le quali risulta al primo posto la Campania - come ha ribadito il Presidente Bassolino, ricordando il vasto piano di trasporto regionale su ferro - che si propone come modello di concertazione Stato-regioni.

La centralità del programma infrastrutturale polarizza su questo fattore il miglioramento delle condizioni dell’ambiente economico ma, nel corso della conferenza, è apparso chiaro come non potesse essere sufficiente. In primo luogo è stata suggerita una territorializzazione dei grandi progetti infrastrutturali, in modo che assicurassero da un lato di non creare ulteriori squilibri attraverso quello che i francesi chiamano l’effetto tunnel, dall’altro di trasformarsi in progetti di sistemi locali capaci di controllare l’impatto territoriale e programmare le valorizzazioni ed i benefici derivanti dalle nuove accessibilità così create. Secondo Piercarlo Palermo, nella riforma dei Fondi strutturali bisognerebbe prevedere la concentrazione delle risorse su dei principali assi strutturali per declinare in versioni localmente radicate il tema dei corridoi plurimodali, trasformati in veri e propri assi di sviluppo. Questa idea tende a conciliare quell’equilibrio tra locale e globale a cui sono soggetti i nostri distretti industriali e la loro esigenza tanto di agganciarsi alle reti lunghe transcontinentali quanto di rafforzare la connessione interna e l’efficienza delle proprie interazioni7. È importante perciò individuare i distretti e trovare forme per poterli governare e rispondere alle loro esigenze, ha ricordato Giuseppe Roma8. Ancora più importante è trovare quegli indicatori che consentano di valutare ex ante quali progetti, e in che misura, sono capaci di conferire valore aggiunto territoriale, ovvero migliorare quelle condizioni dell’ambiente economico che favoriscano le imprese9.

Egli stesso, però, insieme a molti altri, come lo stesso Clementi, valorizzano il ruolo delle città e delle metropoli che è stato appannato negli ultimi tempi dall’attualità dei distretti e dei sistemi locali. Il che ha fatto dimenticare la concentrazione demografica e di attività che in essi si concentra e che non subisce, anche negli ultimi rilevamenti, riduzioni del proprio peso relativo. Si ha così l’impressione che si incomincino a sentire qualche eco dello schema di sviluppo dello spazio europeo (Ssse), a cui, ho l’impressione, l’Italia poco ha contribuito e di cui poco tiene conto, perlomeno in paragone ad altre nazioni e perfino regioni europee che ne hanno fatto oggetto di riferimento nelle pianificazione nazionale (ad esempio l’Olanda) e regionale (ad esempio la Vallonia), talvolta anche con specifici strumenti di piano per raccordare programmazione economica e pianificazione territoriale. Infatti, tra i temi centrali dello Ssse troviamo grandi corridoi europei ed il policentrismo. Quest’ultimo argomento è oggetto di approfondimento nel programma di ricerca Espon, lanciato per aggiornare lo Ssse e formulare nuovi criteri per rendere più efficaci i Fondi strutturali e gli altri programmi europei di riequilibrio regionale. La strategia di sviluppo che percorre questi documenti coinvolge prioritariamente il rafforzamento delle reti urbane e discute delle politiche capaci di creare nuclei forti o diramazioni (secondo la suggestiva immagine di una piovra) all’esterno del pentagono centrale in cui si concentra il massimo livello di sviluppo europeo. Il tema urbano è diventato una delle misure dei Fondi strutturali, dopo l’esperimento, anche reiterato, del Pic Urban e data l’omogeneità dell’impostazione integrata potrebbe essere complementare ai Prusst, oppure potrebbe generare nuovi programmi di dimensione sovracomunale che ne mettano assieme le caratteristiche. Ma oltre agli strumenti avremmo bisogno di approfondimenti sostantivi sul sistema urbano nazionale, con un coinvolgimento anche locale. Non mi sembra che sia un argomento da lasciare esclusivamente alle ricerche europee, necessariamente sommarie, sebbene utili per definire quadri di sfondo.

Anche Dematteis invitava ad individuare quattro o cinque grandi aree metropolitane, possibilmente capaci di raggiungere il peso funzionale sufficiente a svolgere un ruolo di nodi nella rete urbana europea ed agire con politiche per sviluppare questi potenziali. Bisognerebbe riprendere una attività di pianificazione territoriale ad ampio raggio; costruire quelle metafore capaci di prospettare delle visioni del futuro che sappiano imporre, come sono riusciti a fare i geografi francesi con la Banana Blu, interessi regionali sulla più vasta scena europea10; impegnare i governi locali in interazioni verticali ed orizzontali, in forme di governance che mobilitino gli attori economici e sociali, perché queste immagini, una volta collettivamente formulate ed imposte trasversalmente dal livello locale a quello nazionale, possano essere effettiva guida per l’azione di sviluppo.

 

 

1 Uno dei due relatori ufficiali per il tema coesione e competizione, insieme a Massimo Lo Cicero.

2 Questa posizione è stata espressa anche dal governo italiano nel suo contributo al dibattito sulla riforma della politica regionale di coesione comunitaria (Ministero dell’economia e delle finanze, Dpsc e Ministero degli affari esteri, Dgie, Secondo Memorandum Italiano, dicembre 2002).

3 La filosofia dei patti territoriali, come elaborata da De Rita e Bonomi, può essere inclusa in questa linea di lavoro.

4 A cui contribuisce lo sviluppo del capitale sociale.

5 Tale eventualità non è più solamente teorica ma pratica concreta in tutto il mondo progredito a partire dagli Usa più di due decadi fa. Un esempio italiano è il piano strategico di Torino.

6 Esemplare, in questo campo è il lavoro del Centro per la ricerca operativa di Londra.

7 I distretti del nord-est hanno bisogno di raggiungere a bassi costi l’Europa orientale per meglio competere con Austria e Germania avvantaggiati dalla migliore posizione. Prato ormai subisce la concorrenza cinese ed è forse destinato a soccombere nel tessile. Sono tutte trasformazioni che avvengono a grande velocità e richiedono conversioni interne e elevazione dell’innovazione ed efficienza.

8 Nel seminario preparatorio di Napoli, Osvaldo Cammarota ha puntualizzato le questioni fondamentali dei sistemi locali, ribadendo la necessità di trovare nuove strutture e modalità di governo, criteri per la loro individuazione e politiche di sviluppo del capitale sociale.

9 Questo programma di ricerca è sviluppato dal Centro interateneo territorio del Politecnico di Torino, diretto da Giuseppe Dematteis.

10 Pasquale Coppola, nel seminario di Napoli, ha illustrato il valore politico di tali metafore geografiche.

 

 

1. Logo del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per la seconda Conferenza nazionale del territorio, Caserta 12-14 giugno 2003

 

 

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