Numero 6/7 - 2003

 

la riqualificazione ambientale  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La fondazione di Sabaudia


Luigi Manzione


 

La fondazione di Sabaudia avvenuta negli anni '30, ad opera del regime fascista, portava a compimento un processo di trasformazione integrale del territorio, a valle del suo risanamento ambientale. Luigi Manzione, nel ripercorrerne le vicende individua il momento di transizione fra ambiente e paesaggio a partire dal luogo di fondazione della nuova città

 

 

 

 

Lucien Febvre ne La terre et l’evolution humaine del 19221 assumeva come condizione essenziale alla formazione di insediamenti umani la presenza - resa evidente da un atto di riconoscimento - di “punti d’appoggio topogeografici favorevoli”. Questa nozione di punto d’appoggio, point d’appui, è fondamentale per comprendere il ruolo degli aspetti paesistici ed ambientali nella pianificazione territoriale. L’idea è ricorrente nella tradizione di ricerca francese degli storici e dei geografi urbani nella prima metà del 1900 (e la si ritrova, del resto, anche in Marcel Poëte)2.

Come è stato rilevato, i punti d’appoggio sono costituiti da elementi fisici: corsi d’acqua, rilievi, linee di costa, disposizioni di pianure, ecc. Non si tratta, tuttavia, di preesistenze materiali pure e semplici, ma di elementi “trovati” e “fatti”, per usare le espressioni di Giambattista Vico, ossia di prodotti insieme di conoscenza e di azione (di ricerca e progetto) dello spazio locale concreto3.

È proprio in questo passaggio concettuale - come si vede nella scelta e nell’appropriazione del sito di fondazione di un insediamento urbano - che può leggersi il carattere del luogo come ambiente naturale e, insieme, come realtà storica ed umana. Ed è qui, ancora, che l’ambiente in quanto dimensione fisica del sito (environnement), per riprendere un concetto di Augustin Berque, che si assume qui a fondamento metodologico, si fa paesaggio (paysage), ossia dimensione simbolica del rapporto di una determinata società con lo spazio. Questa transizione dall’oggetto al senso, per il tramite di una trajection (combinazione mediale), costituisce proprio il momento decisivo per la costituzione di una médiance, quindi del senso di un luogo.

Pertanto, il punto di vista della médiance intende enunciare un principio d’integrazione che renda conto, ad un tempo, delle trasformazioni soggettive o fenomeniche (le metafore) e di trasformazioni oggettive o fisiche, a partire dalle quali è possibile ricostruire il senso unitario di un ambiente concreto4.

La costituzione di un orizzonte di senso in rapporto ad un ambiente fisico non può che essere, dunque, un atto umano: esso riguarda appunto la relazione tra l’uomo e la natura, la società e lo spazio. In questa accezione, la médiance è un concetto propriamente spaziale. Secondo Berque, “la relazione di una società allo spazio e alla natura non si dà se non nella misura in cui essa è sentita, interpretata e pianificata da una società; anche qui, inversamente, una parte del sociale è costantemente tradotta in effetti materiali, che si combinano con fatti naturali”5.

D’altronde, la natura stessa, in quanto paesaggio antropico, è creazione fondamentalmente umana, attribuzione di senso e formazione di un luogo significativo: è dunque identificazione. In questa prospettiva, il paesaggio, in quanto manifestazione di una médiance, esprime proprio il senso di un luogo secondo una logica dell’identificazione. Alla luce della dialettica metodologica del passaggio da ambiente a paesaggio cercheremo di leggere la vicenda della fondazione di Sabaudia, una delle principali città nuove dell’agro pontino fondate all’interno del progetto della bonifica integrale durante il fascismo.

La bonifica integrale rappresenta una delle fondamentali strategie di controllo del territorio del regime fascista. L’idea di bonificare e colonizzare terre incolte affonda le sue radici nel passato. Essa non fu, infatti, un’invenzione del fascismo in Italia, ma risale all’Ottocento e, come tale, è elemento costitutivo del patrimonio ideologico del socialismo utopistico e della borghesia illuminata. Fin dalla conclusione della prima guerra mondiale, i governi liberali avevano posto mano ed accelerato la produzione legislativa in materia di bonifiche e di colonizzazioni, anche sotto l’impulso del movimento contadino. Nel 1921, lo Stato si assumeva il compito di espropriare i terreni necessari alle opere di bonifica. La legislazione varata dal governo fascista, in particolare tra il 1928 ed il 1931, si focalizzava sulle trasformazioni dell’ambiente agrario mediante interventi tecnici coordinati da un programma economico generale.

La bonifica dell’agro pontino venne condotta sulla base dei risultati degli studi scientifici del problema della malaria già prodotti in età giolittiana, nonché dei nuovi metodi di dissodamento meccanico dei terreni e di ricerca di falde per l’irrigazione e per l’uso potabile. L’elaborazione teorica e i criteri organizzativi della bonifica integrale furono anche il frutto di ricerche nuove, condotte soprattutto da Arrigo Serpieri, uno dei più acuti economisti agrari italiani del tempo. Le paludi pontine dovevano diventare, nelle intenzioni del regime, l’esempio maggiore della politica rurale; ma anche in questo caso i limiti furono notevoli, a cominciare dalla scelta delle aree da bonificare e per l’insediamento dei coloni, che venne dettata non tanto da ragioni di localizzazione ottimale, quanto da tattiche di compromesso volte a non esasperare i conflitti con la proprietà agraria, che costituiva uno dei pilastri del regime. Furono proprio di tipo tecnico i maggiori limiti con i quali si scontrò lo sforzo di bonificare un cospicuo numero di zone paludose in Italia. La debolezza delle tecniche e dei sistemi tecnologici - nell’agro pontino, nella piana del Sele, ecc. - dovuta in eguale misura a cause politiche ed organizzative, costituì dunque uno dei maggiori “limiti strutturali” dell’opera di bonifica6. In più, a fronte di una propaganda che prefigurava la sbracciantizzazione diffusa dei contadini italiani, la quantità di terra assegnata ai coloni fu oggettivamente insufficiente anche per la sola sussistenza.

Agli occhi degli urbanisti, l’opera di bonifica dell’agro pontino apparve all’inizio come una questione essenzialmente di ordine tecnico, una immensa opera di ingegneria idraulica. Solo dopo l’inaugurazione dei due centri principali, Littoria (l’attuale Latina) e Sabaudia, essi cominciano a percepire il valore emblematico di questi nuovi insediamenti rurali - le città nuove7 - in quanto simboli e, insieme, concreti attrattori (e realizzatori) della politica di ruralizzazione e disurbanizzazione del fascismo. Questi diventeranno gli elementi di fondo di un piano regionale, elaborato dalla più avanzata cultura urbanistica del tempo, di cui si vantano le possibilità di operare un salutare riequilibrio territoriale, ossia - come affermava Luigi Piccinato - di “risolvere i problemi della ripopolazione delle campagne e dello sfollamento delle città, riequilibrando così la vita delle nazioni”8.

Un primo tentativo di bonifica delle paludi pontine venne realizzato già nel 1884, quando si promosse anche la prima colonizzazione interna, con il trasferimento di operai di Ravenna verso l’agro romano. L’imponente progetto di bonifica pubblica in epoca fascista è accompagnato dalla fondazione di diversi centri rurali, le città nuove di Littoria (1932), Sabaudia (1933), Pontinia (1935), Aprilia (1937) e Pomezia (1939). In questi nuovi insediamenti si concentrarono i flussi migratori interni di popolazioni contadine, soprattutto venete e romagnole, assumendo la fondazione di nuove città i connotati tipici della colonizzazione rurale, con la presenza di limitata popolazione (al massimo mille abitanti tra impiegati, operai, coloni e commercianti). Per tale motivo, è forse improprio l’uso del termine città relativamente a questi insediamenti: d’altra parte, l’orientamento antiurbano stesso del regime sarebbe stato contraddetto, di fatto, dalla fondazione di vere e proprie città. Anche perciò, tali centri conservano sempre l’identità di borghi rurali. L’unica eccezione è rappresentata da Littoria, progettata sin dall’origine come capoluogo di provincia, dotata quindi di immagine e struttura di città in senso proprio.

L’opera di colonizzazione suscitò grande interesse nella stampa internazionale (forse meno in quella italiana): l’opinione pubblica europea e statunitense vedeva, infatti, nell’esperimento di bonifica integrale compiuto nell’agro pontino - come ha notato Riccardo Mariani - l’unica alternativa agibile di fronte all’economia pianificata sovietica ed ai modelli insediativi in essa presenti. La grande risonanza internazionale della bonifica è dovuta anche alla sua interpretazione come esperimento sociale per certi versi analogo alle proposte dei disurbanisti sovietici degli anni ’20 e ’30 (in particolare Ginzburg, Miljutin e Leonidov). La colonizzazione dell’agro pontino riveste, dunque, interesse soprattutto come modello teorico più che come operazione concreta di riferimento, ponendosi come una sorta di referenza ideale, se non addirittura utopica, e come tale entra a far parte dell’immaginario, prima che delle pratiche, degli urbanisti e degli architetti.

Il paesaggio rappresenta un elemento di importanza primordiale per le città pontine: non semplice sfondo su cui si immergono le diverse realtà costruite, ma territorio ordinato che coagisce con la forma urbana e con l’architettura e, come queste, è plasmato dalla mano dell’uomo. Il rapporto piano urbano- paesaggio-architettura mi sembra, per certi aspetti, la chiave di volta per accedere alla comprensione della specificità delle città dell’agro, in specie di Sabaudia. Se la fondazione di Littoria avvenne in base a precise considerazioni di ordine economico e amministrativo, quella di Sabaudia - 5 agosto 1933 - trova motivazioni del tutto diverse. Solo la bellezza del luogo sembrò, infatti, dettare la scelta dei fondatori: il paesaggio naturale di Sabaudia era un luogo selvaggio e incontaminato.

La scelta del luogo di fondazione, pertanto, non avvenne in base ad opportunità economiche e di localizzazione o a considerazioni relative a preesistenze urbane; fu semmai un evento fortuito, determinato dalla suggestiva bellezza del paesaggio. Una sorta di scoperta, dunque. I principali elementi di riferimento alla scala territoriale che intervengono nella fondazione della città sono il mare, il monte Circeo e il lago di Paola (con i suoi tre bracci, dell’Annunziata, della Crapara e Arciglioni, che si insinuano lungo il perimetro del nuovo centro). A questi può aggiungersi il Parco nazionale del Circeo, istituito nel gennaio 1934, tre mesi prima della inaugurazione della città.

Il concorso per il piano di fondazione di Sabaudia - bandito dall’opera nazionale combattenti (Onc) e giudicato da una commissione formata da Giovannoni, Fasolo, Libera, dall’ufficio tecnico e dalla Onc stessa - vide vincitore il gruppo Piccinato (con Cancellotti, Montuori e Scalpelli). Il progetto vincitore, a differenza del piano di Frezzotti per Littoria, non si risolve in uno schema meccanicamente sovrapposto all’identità morfologica e simbolica del luogo, ma si configura, invece, nei termini di una intelligente lettura del luogo stesso, proprio nelle sue valenze naturali e paesistiche.

La fondazione di Sabaudia veniva inquadrata programmaticamente nell’ambito del rapporto tra la scala paesistica e quella urbanistica, delle grandi questioni del decentramento, della disurbanistica e della formazione del centro comunale minore. Il suo schema planimetrico, come nelle antiche città romane, si fonda sulla struttura del cardo e del decumano (in questo caso le principali strade, l’una per Littoria e Roma, l’altra per Terracina). Il riferimento agli schemi romani di fondazione urbana sembra però esaurirsi tutto in questa prima scelta d’impianto. Più decisivi appaiono, invece, i rimandi alla città storica italiana, fin dal medioevo; in questa urgenza di radicarsi nella storia e nell’architettura urbana, Sabaudia si distacca in modo netto dalle contemporanee proposte del razionalismo ortodosso (specie quello tedesco). Questo richiamo alle ipotesi insediative stratificatesi nel tempo, ai modelli urbani e alle relazioni tra gli spazi aperti e quelli costruiti nella città, costituisce forse l’apporto più originale di Sabaudia alla costruzione dell’urbanistica italiana degli anni ’30 del secolo scorso.

Se nel progetto per la città pontina si legge l’attenzione verso le esperienze più avanzate dell’urbanistica europea, è pur vero però che non si tralascia di indagare sul rapporto fra modernità e tradizione, centrale nella riflessione urbanistica italiana tra gli anni ’20 e ’30. Proprio la formazione del centro della città intorno al complesso sistema piazza civica-piazza religiosa rimanda ai criteri di definizione della città medievale, accuratamente studiati e disegnati da Sitte, ma anche dallo stesso Piccinato, il quale descrive la composizione urbana centrale di Sabaudia, citando precisi riferimenti alla storia della città italiana9.

La centralità degli aspetti paesistici nella pianificazione urbana e territoriale, il rapporto con la storia e la memoria, il razionalismo delle architetture di Sabaudia, e il loro presentarsi come realizzazioni esemplari e dimostrative della città fascista, sono fattori che contribuirono ad accentuare il clima rovente e ad alimentare il tono delle polemiche in cui si svolse la costruzione della città. Nella critica e nella storiografia, Sabaudia è stata quasi unanimemente considerata come modello ed affermazione, insieme, dell’architettura moderna in Italia, come la definiva fin dalla nascita Giuseppe Pagano.

Nella scelta del luogo di fondazione di Sabaudia sembra potersi cogliere una valenza simbolica non dissimile da quella implicita in un rituale geomantico: qui pare aver espressione (in senso occidentale, beninteso) una sorta di “architecture du paysage”10, originariamente definita in rapporto alle modalità del disporre le città e i manufatti nella cultura cinese (fengshui). In particolare, l’architettura del paesaggio, all’origine della fondazione della città pontina, mostra il suo stretto legame con la civiltà dell’occidente greco-romano, con il rituale di fondazione urbana posto in atto dal gromatico.

La nascita della città discende qui da un atto di fondazione. Come afferma Kerényi, la città è essa stessa, nella sua costituzione originaria, “fondazione”, ripetizione dell’atto creatore, instaurazione11, in una prospettiva tutta interna alla teoria rituale del mito, che sembra essere qui interessante proprio per le implicazioni etnologiche e filosofiche relative alla tematica del paesaggio.

Si può, inoltre, notare che la riproposizione in Sabaudia del dispositivo cardo-decumanico - in cui peraltro i due principali assi viari si proiettano (canonicamente) nel territorio circostante, come l’originario sistema romano si proietta nella centuriatio (prima forma di dispersione territoriale alla scala europea) - nel suo fondersi con l’assialità monumentale propria della città fascista, esibisce un preciso significato simbolico, direttamente legato all’espressione del potere nel visibile urbano e territoriale12.

Ma l’emergere dell’identità della città - in quanto paesaggio costruito - dalla dimensione puramente fisica (environnementale) del sito si dà attraverso la definizione di tratti peculiari, sorta di linee-forza (Berque li denomina “motifs”) che strutturano il mondo visibile, tuttavia ancora informe all’occhio di colui che lo abita, rendendolo appunto paesaggio.

“Eravamo verso il tramonto, ed il giallo dell’erica, l’azzurro del lago e del mare, la massa verde scura del Circeo formava un quadro di incomparabile bellezza. E lì pensai potesse sorgere la nuova città”13. In questo racconto, in questa epifania del paesaggio, appaiono in nuce i caratteri salienti del luogo: il suo necessario situarsi - proprio in quanto paesaggio - in un quadro prospettico, tra un primo piano (il giallo dell’erica) e l’orizzonte (l’azzurro del lago, il verde del Circeo). Il rituale di fondazione, già virtualmente contenuto nella identificazione del luogo, riproduce in senso appropriativo il processo di percezione del paesaggio, nel suo situarsi appunto tra il primo piano e l’orizzonte. Ossia tra i due motivi essenziali entro i quali si dà, appunto, paesaggio; si danno cioè le condizioni di riconoscibilità di un ambiente in quanto paesaggio. Tra questi due elementi si instaura, dunque, la presenza dello sguardo, il suo inizio e la sua fine (al modo del gromatico che stabilisce i confini dell’insediamento in relazione ad un lontano orizzonte cosmologico).

Sabaudia, tra le città del movimento moderno rappresenta una felice eccezione proprio dal punto di vista delle qualità del suo paesaggio. Progettata sin dall’inizio in rapporto alla grande emergenza naturale del parco del Circeo - peraltro veicolo di immagini epiche legate al mito di Ulisse - Sabaudia pare esprimere, infatti, la relation paysagère quale carattere essenziale della propria costituzione. Qui il progetto moderno non subisce l’ordinaria scissione tra l’impianto Grosstadt (alla Hilberseimer) della struttura urbana e la dimensione naturale, quindi umana, del paesaggio. Non giustapposizione, dunque, tra artefatto e natura, ma piuttosto relazione simbiotica, sempre consapevole; non negazione delle qualità specifiche del luogo (in nome di una visione universalistica e metaforicamente razionale del luogo stesso, propria del moderno), ma assunzione del luogo, quindi delle componenti paesaggistiche, quale principio locale della costruzione della città.

La bellezza del paesaggio pontino, come si è già accennato, viene descritta in termini entusiastici (in etimo) dallo storico tedesco dell’Ottocento e colto viaggiatore Ferdinand Gregorovius: “Finalmente giungemmo al termine della foresta sul versante sud ovest del monte, ed io provai l’impressione di un uomo condotto con gli occhi bendati dinanzi ad uno spettacolo meraviglioso, cui sia stata d’un tratto levata la benda”. Si avverte qui la profonda emozione provata dal viaggiatore tedesco nel contemplare la pianura pontina dall’alto dei monti Lepini. Da questa posizione privilegiata, l’agro doveva apparirgli come un’enorme distesa il cui orizzonte si confondeva con l’indefinito azzurro del mare; la vista del paesaggio dell’intera pianura, da Pomezia a Sabaudia, poteva forse trasfigurarsi ai suoi occhi in una immensa città di mare, protetta dalla catena dei Lepini, come una sorta di naturale murazione urbana. Ciò che in realtà Gregorovius poteva vedere era un paesaggio di paludi e boscaglie, per certi versi simile a quello francese della Camargue. La percezione del paesaggio pontino muta profondamente, però, dopo le trasformazioni territoriali poste in essere dalla bonifica durante il fascismo: in luogo delle paludi salmastre, l’ordinata trama delle colture agricole, dove solo di rado riappaiono stagni e piccoli corsi d’acqua, deboli sopravvivenze della primitiva conformazione.

Riappare, ancora, allo sguardo sulla pianura pontina - la latina tellus - la ciclicità ricorrente della natura e del suo volto: il prosciugamento delle paludi da terre che, prima ancora di essere invase dalle acque, erano probabilmente non molto dissimili da come appaiono oggi. La mano dell’uomo - il taglio della boscaglia, lo scavo dei canali, la costruzione di idrovore, il tracciamento delle strade, la fondazione delle città - quale moderna fatica di Sisifo, riporta la natura ad un suo stato anteriore (originario?), al suo non essere ancora palude. Una natura che ritorna, qui, ad un primitivo se stesso, eppure ancora diverso in quanto modificato dal lavoro umano.

Al di là dell’agro, ai piedi dei Monti Lepini, si può leggere la memoria territoriale e urbana di questa latina tellus: Cori, Norma, Sermoneta, Bassiano, Sezze, Roccagorga, Supino. Insediamenti di origine medievale che condensano la memoria storica delle città pontine di fondazione, quasi formando un complessivo, metaforico centro storico. Piccole città, dove la cultura del calcare ha radici nella preistoria, espressa già nelle potenti mura ciclopiche che, in origine, le racchiudevano. In prossimità di Roccagorga sorgeva Ninfa, nelle adiacenze del Caput fluminis, vasto insieme di sorgenti che genera il fiume Sisto - il romano Nymphaeum - prima scaturigine del sistema delle acque che attraversava la pianura pontina. Così, all’origine del genius loci pontino si situa Ninfa, luogo contrassegnato dal tempio romano di Driadi. E Ninfa è appunto l’acqua, il motivo del paesaggio pontino.

Questo doveva allora vedere Gregorovius dall’alto dei Lepini. L’instabile luminescenza, mobile e venata delle acque: un disegno le cui linee di forza conducono lo sguardo fino al promontorio del Circeo, laddove Sabaudia verrà fondata. Promontorio che, nella leggenda, Omero descriveva come un’isola (tra i luoghi delle peripezie di Ulisse), e come un’isola ancora oggi appare dalle alture dei Lepini, specie di segno indecifrato ancora avvolto nella indeterminatezza (e con-fusione) del simbolo.

La nozione di paesaggio come entità autorefenziale in rapporto all’uomo e la tematica della relazione tra la soggettività umana e il paesaggio - ciò che risiede al fondo della logica dell’identificazione a partire dalla quale si instaura la presenza dello sguardo e la transizione dall’ambiente al paesaggio - sembrano già profilarsi nell’antica idea del genius loci14. “Il paesaggio non esiste al di fuori di noi, che non esistiamo al di fuori del paesaggio. Perciò parlare del paesaggio è sempre in una certa misura autoreferenziale”15.

 

 

1 Parigi, 1922 (ed. italiana: Einaudi, Torino, 1980).

2 M. Poëte (2000), Introduction à l’urbanisme, Sens&Tonka, Parigi, p. 81 e seg. (I edizione: Boivin, Parigi, 1929).

3 Cfr. D’Alfonso E. (1988), Morphologie et parcellaire: une réflexion introductive, in Pierre Merlin (a cura di), “Morphologie urbaine et parcellare”, p.174, Presses Universitaires de Vincennes, Saint-Denis,.

4 Berque A., Médiance. De milieux en paysages (1990), p. 37, Reclus, Montpellier. Il senso di un ambiente, secondo Berque, è simultaneamente significazione, percezione, orientamento e tendenza effettiva di tale ambiente in quanto relazione (Berque A. (1995), Les raisons du paysage, p. 36, Hazan, Parigi).

5 Berque A., Médiance. De milieux en paysages, cit., p. 32.

6 Tali limiti coesisterono peraltro con l’obiettivo di dar lavoro al massimo numero di addetti e, d’altra parte, con l’atteggiamento ostile degli agrari, restii ad intraprendere interventi di trasformazione e miglioramento delle campagne. Essi rifiutavano, infatti, gli incentivi statali e sottraevano così le loro terre alla bonifica. Cfr. Tintori S. (1992), Piano e pianificatori dall’età napoleonica al fascismo. Per una storia del piano regolatore nella città italiana contemporanea, (IV ed.), FrancoAngeli, Milano.

7 La fondazione delle città nuove tendeva alla edificazione di centri rurali di servizio in aree di recente colonizzazione, come appunto quella dell’agro pontino, ponendosi come realizzazioni promozionali del regime. I loro stessi nomi - Littoria, Fertilia, addirittura Mussolinia - appaiono efficaci richiami propagandistici, emblemi terminologici della ricerca di una identità urbana e territoriale che si vuole autenticamente e totalmente fascista. Di notevole interesse sono, peraltro, le correlazioni proposte da Diane Ghirardo tra le città nuove italiane e le new towns realizzate negli Usa dopo la grande crisi del 1929, nell’ambito del New Deal roosveltiano, anche se le dimensioni del fenomeno italiano furono certamente molto minori. (Cfr. Ghirardo D. (1989), Building New Communities: New Deal America and Fascist Italy, Princeton University Press, Princeton).

8 Piccinato L. (1932), Urbanistica. Città lineari, in Architettura, p. 33, a. XI.

9 Di Camillo Sitte si veda Der Städtebau nach seinen Künstlerischen Grundsätzen, Vienna,1889, (trad. it. di Della Torre R. (1981), L’arte di costruire le città, Jaca Book, Milano), in particolare il capitolo “I gruppi di piazze” (pp. 84-90) dove si occupa appunto dei sistemi italiani di piazze di origine medievale, che sembrano essere il modello dell’organizzazione del centro di Sabaudia. Di Luigi Piccinato, cfr. Urbanistica medievale, Edizioni Dedalo, Bari, 1978, dove è riportato anche il saggio  “Comunità della campagna romana”, centrato sullo studio delle strutture urbane dei centri laziali medievali, che più direttamente testimonia dell’interesse di Piccinato verso le tematiche della “città nella storia”.

10 Cfr. Clément Sophie, Clément Pierre, Shin Yong-hak (1982), Architecture du paysage en Asie orientale, Ensba, Parigi.

11 Cfr. Kerényi K. (1964), Origine e fondazione nella mitologia, introduzione a Jung C. G., Kerényi K., “Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia”, p. 24, Boringhieri, Torino. Ma anche Mircea Elide (1967), Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino, per una interpretazione archetipo-rituale della città come “fondazione al centro”, oltre che per l’esplorazione del legame tra dimensione mitica (simbolica) e dimensione urbana.

12 “È senza dubbio una motivazione paesaggistica archetipa che si può leggere nella tendenza di numerose civiltà per le prospettive rettilinee. (…) La simbolica che vi soggiace è chiarita, per ciò che concerne le lingue indo-europee, dalla affinità del termine derivato dal radicale *RX, il quale designava all’origine il re-sacerdote, fondatore di città. Si tratta del rex italico, il rix celtico, il raj indiano, ecc. Allo stesso modo, la parola regione, che significa in origine lo spazio coperto dallo sguardo portato davanti a sé. L’associazione tra la vista e la territorialità è qui evidente”. E più avanti: “in effetti, l’appropriazione simbolica che vi si può leggere è la lontana parente di tutte le pratiche magiche nelle quali l’immagine della cosa sta per la cosa stessa (…). (Berque A., Les raysons du paysage, cit., pp. 43-44 e 45).

13 È la testimonianza di Orsolino Cencelli, commissario dell’Onc, citata in F. Fichera (1959), 25° Anniversario di Sabaudia. 1934-1959, Edizioni Ferrazza, Latina.

14 Secondo Christian Norberg-Schulz, “il genius loci è una concezione romana; secondo una antica credenza ogni essere indipendente ha il suo genius, il suo spirito guardiano. Questo spirito dà vita a popoli e luoghi, li accompagna dalla nascita alla morte e determina il loro carattere o essenza. (...) gli antichi esperirono il loro ambiente come costituito di caratteri definiti. In particolare riconobbero essere di importanza vitale il venire a patti con il genius della località in cui doveva aver luogo la loro esistenza” (Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa, Milano, 1979 (1992), p. 18).

15 Berque A. (1994), Paysage, milieu, histoire, in “Cinq propositions pour une theorie du paysage”, p. 27, Champ Vallon, Sassel.

 

 

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